Kigula era stata condannata per omicidio: grazie a una petizione è riuscita a riconquistare la libertà e a cambiare la storia del suo Paese
Susan Kigula oggi non dovrebbe essere qui, a Oslo, a cercare di tenere a bada il vestito leggero che il vento non vuole lasciare in pace. Susan dovrebbe essere in Uganda, il suo Paese, appesa alla forca di Kampala con il «vestito degli impiccati», una tuta con decine di tasche riempite di sabbia per rendere più pesante il corpo quando si apre la botola. Sorride, sorride sempre Susan, e dice: «Vedi, io sono la testimonianza vivente che non bisogna mollare mai, che la morte non è la cosa peggiore che ti può capitare, la cosa peggiore è morire dentro mentre siamo ancora vivi». Susan ha passato 15 anni in carcere, accusata di aver ucciso il compagno. Nei lunghi anni passati nel braccio della morte è riuscita a cambiare la storia dell’Uganda, con una petizione (nota come la «Susan Kigula e gli altri 417») che ha portato la Corte a dichiarare incostituzionale la pena capitale obbligatoria per certi reati, tra cui l’alto tradimento, il terrorismo, la rapina aggravata e l’omicidio. È uscita dal carcere 5 mesi fa.
Oggi è una delle più importanti testimoni per l’abolizione della pena di morte.
«La pena capitale non serve, non funziona come deterrente. Lo vediamo in Uganda, così come negli Stati Uniti: aumentano le esecuzioni, ma non mi pare che i reati diminuiscano… Dubito che un marito violento pensi ai rischi che corre mentre picchia a morte la moglie, o un kamikaze eviti di farsi saltare in aria per paura».
In Uganda la sentenza viene eseguita per impiccagione, si riferisce a questo quando parla di metodi non umani?
«Mi ricordo ancora quando, dopo due anni di carcere, mi hanno condannata alla forca. Da allora, ogni istante è diventato l’ultimo. Ogni porta aperta, ogni passo, ogni rumore era quello del boia che veniva a prendermi. Se morire con il collo spezzato è inumano, vivere pensando che potrebbe succedere in ogni momento è indescrivibile. È come se lo Stato facesse le prove della tua esecuzione ogni giorno, ti spreme la vita fuori dal corpo come si spreme un pompelmo».
«Mi ricordo ancora quando, dopo due anni di carcere, mi hanno condannata alla forca. Da allora, ogni istante è diventato l’ultimo. Ogni porta aperta, ogni passo, ogni rumore era quello del boia che veniva a prendermi. Se morire con il collo spezzato è inumano, vivere pensando che potrebbe succedere in ogni momento è indescrivibile. È come se lo Stato facesse le prove della tua esecuzione ogni giorno, ti spreme la vita fuori dal corpo come si spreme un pompelmo».
A poche centinaia di metri da dove ci troviamo, Anders Breivik ha iniziato la carneficina che il 22 luglio 2011 ha portato alla morte di 77 persone. In pochi in Norvegia hanno invocato la pena di morte, ma in molti hanno criticato la condanna a 21 anni, il massimo previsto dalla legge. Cosa ne pensa?
«Penso che uccidere non sia mai la soluzione. Non lo è se lo fa lo Stato, perché diventa come gli assassini che condanna e ha il terribile sapore della vendetta. Ma ci tengo a dire una cosa: gli assassini sono dei criminali, ma nessuna persona sana di mente arriva ad ammazzare un suo simile. E soprattutto: la persona arrestata per omicidio non è la stessa persona condannata a morte. Il carcere cambia, il rimorso anche. Tutti hanno diritto a un’altra possibilità».
Lei è un’assassina?
«No. Non ho ucciso il mio compagno. Sono arrivati di notte, hanno tentato di sgozzare anche me. Vede questa cicatrice sul collo? È stata la mia prima condanna a morte, ma non ce l’hanno fatta a togliermi di mezzo, neanche quella volta, anche se ci sono arrivati vicino».
Come è riuscita a cambiare il suo destino e quello di decine di altri condannati a morte in Uganda?
«In carcere ho iniziato a studiare legge con l’aiuto dei Servizi carcerari ugandesi. Sono riuscita a laurearmi a distanza all’Università di Londra e così ho intuito quello che potevo fare, che dovevo fare: la mia unica speranza era di far cambiare la legge che rendeva obbligatoria la pena di morte in caso di omicidio. Ce l’ho fatta con l’aiuto della ong Fhri e di centinaia di persone che hanno firmato la petizione arrivata alla Corte».
Ora di cosa si occupa?
«Promuovo la riconciliazione contro la vendetta. Non ho rabbia, né rimpianti, quello che sono diventata lo devo anche al dolore subito. L’unica ferita è di aver dovuto abbandonare mia figlia durante gli anni del carcere. Io per fortuna avevo mia madre a occuparsi di lei, ma molti condannati non hanno nessuno, e i loro figli - dimenticati dallo Stato - finiscono per strada, cadono in mano ai criminali, alla fame e allo sfruttamento sessuale. Io mi occupo di loro, faccio in modo che abbiano una possibilità, che vadano a scuola e che capiscano che i genitori non li hanno abbandonati».
Susan Kigula oggi non dovrebbe essere qui, a Oslo, a cercare di tenere a bada il vestito leggero che il vento non vuole lasciare in pace. Susan dovrebbe essere in Uganda, il suo Paese, appesa alla forca di Kampala con il «vestito degli impiccati», una tuta con decine di tasche riempite di sabbia per rendere più pesante il corpo quando si apre la botola. Sorride, sorride sempre Susan, e dice: «Vedi, io sono la testimonianza vivente che non bisogna mollare mai, che la morte non è la cosa peggiore che ti può capitare, la cosa peggiore è morire dentro mentre siamo ancora vivi». Susan ha passato 15 anni in carcere, accusata di aver ucciso il compagno. Nei lunghi anni passati nel braccio della morte è riuscita a cambiare la storia dell’Uganda, con una petizione (nota come la «Susan Kigula e gli altri 417») che ha portato la Corte a dichiarare incostituzionale la pena capitale obbligatoria per certi reati, tra cui l’alto tradimento, il terrorismo, la rapina aggravata e l’omicidio. È uscita dal carcere 5 mesi fa.
Oggi è una delle più importanti testimoni per l’abolizione della pena di morte.
«La pena capitale non serve, non funziona come deterrente. Lo vediamo in Uganda, così come negli Stati Uniti: aumentano le esecuzioni, ma non mi pare che i reati diminuiscano… Dubito che un marito violento pensi ai rischi che corre mentre picchia a morte la moglie, o un kamikaze eviti di farsi saltare in aria per paura».
In Uganda la sentenza viene eseguita per impiccagione, si riferisce a questo quando parla di metodi non umani?
«Mi ricordo ancora quando, dopo due anni di carcere, mi hanno condannata alla forca. Da allora, ogni istante è diventato l’ultimo. Ogni porta aperta, ogni passo, ogni rumore era quello del boia che veniva a prendermi. Se morire con il collo spezzato è inumano, vivere pensando che potrebbe succedere in ogni momento è indescrivibile. È come se lo Stato facesse le prove della tua esecuzione ogni giorno, ti spreme la vita fuori dal corpo come si spreme un pompelmo».
«Mi ricordo ancora quando, dopo due anni di carcere, mi hanno condannata alla forca. Da allora, ogni istante è diventato l’ultimo. Ogni porta aperta, ogni passo, ogni rumore era quello del boia che veniva a prendermi. Se morire con il collo spezzato è inumano, vivere pensando che potrebbe succedere in ogni momento è indescrivibile. È come se lo Stato facesse le prove della tua esecuzione ogni giorno, ti spreme la vita fuori dal corpo come si spreme un pompelmo».
A poche centinaia di metri da dove ci troviamo, Anders Breivik ha iniziato la carneficina che il 22 luglio 2011 ha portato alla morte di 77 persone. In pochi in Norvegia hanno invocato la pena di morte, ma in molti hanno criticato la condanna a 21 anni, il massimo previsto dalla legge. Cosa ne pensa?
«Penso che uccidere non sia mai la soluzione. Non lo è se lo fa lo Stato, perché diventa come gli assassini che condanna e ha il terribile sapore della vendetta. Ma ci tengo a dire una cosa: gli assassini sono dei criminali, ma nessuna persona sana di mente arriva ad ammazzare un suo simile. E soprattutto: la persona arrestata per omicidio non è la stessa persona condannata a morte. Il carcere cambia, il rimorso anche. Tutti hanno diritto a un’altra possibilità».
Lei è un’assassina?
«No. Non ho ucciso il mio compagno. Sono arrivati di notte, hanno tentato di sgozzare anche me. Vede questa cicatrice sul collo? È stata la mia prima condanna a morte, ma non ce l’hanno fatta a togliermi di mezzo, neanche quella volta, anche se ci sono arrivati vicino».
Come è riuscita a cambiare il suo destino e quello di decine di altri condannati a morte in Uganda?
«In carcere ho iniziato a studiare legge con l’aiuto dei Servizi carcerari ugandesi. Sono riuscita a laurearmi a distanza all’Università di Londra e così ho intuito quello che potevo fare, che dovevo fare: la mia unica speranza era di far cambiare la legge che rendeva obbligatoria la pena di morte in caso di omicidio. Ce l’ho fatta con l’aiuto della ong Fhri e di centinaia di persone che hanno firmato la petizione arrivata alla Corte».
Ora di cosa si occupa?
«Promuovo la riconciliazione contro la vendetta. Non ho rabbia, né rimpianti, quello che sono diventata lo devo anche al dolore subito. L’unica ferita è di aver dovuto abbandonare mia figlia durante gli anni del carcere. Io per fortuna avevo mia madre a occuparsi di lei, ma molti condannati non hanno nessuno, e i loro figli - dimenticati dallo Stato - finiscono per strada, cadono in mano ai criminali, alla fame e allo sfruttamento sessuale. Io mi occupo di loro, faccio in modo che abbiano una possibilità, che vadano a scuola e che capiscano che i genitori non li hanno abbandonati».
Monica Perosino
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