Lo ha decretato ieri pomeriggio il presidente Salva Kiir e, poco dopo, lo ha condiviso il suo rivale, il vicepresidente Riek Machar.
Dal 7 luglio, quando sono ripresi gli scontri tra le forze armate rivali, centinaia di persone sono morte e migliaia hanno lasciato Juba, diretti verso le chiese e i campi allestiti dall’Onu per gli sfollati, a loro volta sotto i colpi d’artiglieria. Per chi è rimasto in città, ora il pericolo è costituito dalle insufficienti forniture di cibo e di acqua.
Il 10 e l’11 luglio colpi d’artiglieria hanno colpito le aree residenziali a ridosso del quartiere di Jebel, dove ha sede la base del vicepresidente Riek Machar. Diversi civili sono rimasti feriti e varie abitazioni hanno subito danni.
Dall’esplosione del conflitto, risalente ormai al dicembre 2013, i due leader rivali – uniti nella lotta per l’indipendenza dal Sudan e in seguito acerrimi nemici – si fanno beffe del diritto internazionale, secondo il quale è illegale tanto attaccare obiettivi civili (per non parlare dei centri profughi dell’Onu) quanto nascondere obiettivi militari all’interno di centri abitati. Per non parlare di veri e propri crimini di guerra contro le donne.
Il peggio è che, a quanto pare, i due leader non controllano più le forze a loro fedeli. Venerdì scorso i combattimenti sono ripresi proprio mentre Salva Kiir e Riek Machar erano a colloquio nel palazzo presidenziale. Inutile l’appello congiunto alla moderazione, fatto poco dopo nel corso di una conferenza stampa.
Per evitare ulteriori ostilità, sarebbe necessario un embargo completo sulle armi dirette in Sud Sudan, decretato dal Consiglio di sicurezza, cosa di cui al momento non si parla, nonostante venga sollecitato da quasi due anni. Difficile del resto, quando tra i membri permanenti siedono alcuni tra i principali fornitori globali di armi.
Dal 7 luglio, quando sono ripresi gli scontri tra le forze armate rivali, centinaia di persone sono morte e migliaia hanno lasciato Juba, diretti verso le chiese e i campi allestiti dall’Onu per gli sfollati, a loro volta sotto i colpi d’artiglieria. Per chi è rimasto in città, ora il pericolo è costituito dalle insufficienti forniture di cibo e di acqua.
Il 10 e l’11 luglio colpi d’artiglieria hanno colpito le aree residenziali a ridosso del quartiere di Jebel, dove ha sede la base del vicepresidente Riek Machar. Diversi civili sono rimasti feriti e varie abitazioni hanno subito danni.
Dall’esplosione del conflitto, risalente ormai al dicembre 2013, i due leader rivali – uniti nella lotta per l’indipendenza dal Sudan e in seguito acerrimi nemici – si fanno beffe del diritto internazionale, secondo il quale è illegale tanto attaccare obiettivi civili (per non parlare dei centri profughi dell’Onu) quanto nascondere obiettivi militari all’interno di centri abitati. Per non parlare di veri e propri crimini di guerra contro le donne.
Il peggio è che, a quanto pare, i due leader non controllano più le forze a loro fedeli. Venerdì scorso i combattimenti sono ripresi proprio mentre Salva Kiir e Riek Machar erano a colloquio nel palazzo presidenziale. Inutile l’appello congiunto alla moderazione, fatto poco dopo nel corso di una conferenza stampa.
Per evitare ulteriori ostilità, sarebbe necessario un embargo completo sulle armi dirette in Sud Sudan, decretato dal Consiglio di sicurezza, cosa di cui al momento non si parla, nonostante venga sollecitato da quasi due anni. Difficile del resto, quando tra i membri permanenti siedono alcuni tra i principali fornitori globali di armi.
Riccardo Noury
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