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mercoledì 31 agosto 2016

Gambia: oppositore muore in galera, ma l’Italia tratta per controllo immigrazione

Africa ExPress
In Gambia è morto un altro oppositore del regime di Yahya Jammeh. Un dirigente del “United Democratic Party”(UDP), Ibrima Solo Krummah, è morto lo scorso fine settimana all’ospedale di Edward Francis Small a Banjul, la capitale della ex-colonia britannica. Krummah è stato arrestato lo scorso 9 maggio insieme ad una trentina di altri membri e simpatizzanti del partito, per aver partecipato a due manifestazioni non autorizzate a metà aprile.
Secondo alcune organizzazioni per i diritti umani, a Krummah, e ad altri prigionieri, non sarebbero state concesse le cure mediche necessarie negli ultimi mesi. Il dirigente dell’UDP sarebbe stato trasferito in ospedale per essere sottoposto ad un intervento chirurgico. E’ deceduto tra il 19 e il 20 agosto. I leader dell’UDP hanno chiesto che venisse effettuata l’autopsia per accertare le cause della morte.

Un portavoce dell’Alto commissariato per i diritti dell’uomo (HCDH), Cécile Pouilly, durante una conferenza stampa tenutasi a Ginevra all’inizio della settimana, ha condannato aspramente la morte di Krummah e ha chiesto alle autorità gambiane di aprire un’inchiesta sulla fine di Sandeng e Krummah e sul fatto che ad entrambi sia stata rifiutata l’assistenza medica in carcere.

Il 23 luglio l’HCDH aveva già espresso la sua grande preoccupazione per la condanna inflitta ai membri del principale partito d’opposizione.

Un altro dirigente dell’UDP, Solo Sandeng, è morto in circostanze misteriose subito dopo il suo arresto, il 14 aprile 2016. In seguito al suo decesso, sono scesi in piazza oppositori del regime di Banjul, tra loro il leader dell’UPD e avvocato per i diritti umani, Ousainou Darboe, per avere risposte concrete dal governo circa la morte del loro compagno di partito Sandeng. La manifestazione è stata repressa con la violenza dalle forze dell’ordine.

Poco più di un mese fa Darboe e altri diciotto suoi compagni sono stati condannati a tre anni di carcere per aver osato chiedere chiarimenti sulla morte dell’amico. Jammeh non tollera chi si oppone alla sua politica, ai suoi dictat.

Anche il Dipartimento di Stato americano ha espresso il suo disappunto circa il maltrattamento dei prigionieri, nonché sulle accuse di tortura che il governo gambiano riserva agli oppositori. La diplomazia americana ha chiesto un trattamento umano per tutti i detenuti e la liberazione immediata di tutti i prigionieri politici.

Già in passato Jammeh è stato fortemente criticato dagli Stati occidentali per non rispettare i diritti umani fondamentali e per aver emesso leggi draconiane contro gay e lesbiche. Per questo motivo nel giugno 2015 il Ministero degli esteri del Gambia ha dichiarato Agnès Guillaud, chargé d’affaires dell’Unione Europea nel Paese, persona non grata.

Verso la fine del 2014 il governo di Banjul ha anche impedito l’accesso al braccio della morte nelle putride galere a due ispettori dell’ONU, inviati per far luce su torture e omicidi arbitrari di detenuti. Dopo il fallito colpo di Stato del 30 dicembre 2014, la situazione è andata peggiorando. Molti presunti partecipanti al golpe e i loro familiari sono spariti, compresi figli minori e anziani genitori.

Jammeh è al potere da oltre vent’anni. Prima l’ha “conquistato” con un colpo di Stato nel 1994, poi è stato rieletto, grazie a “libere e democratiche elezioni”, chiaramente truccate. Solo pochi anni fa si è convertito all’islam, forse per ottenere più consensi, visto che la maggior parte della popolazione è musulmana.

A quanto pare tutto ciò interessa poco all’Italia. Infatti il 10 maggio scorso una delegazione italiana composta da funzionari della cooperazione e della polizia scientifica sono stati ricevuti dal ministro degli interni gambiano Ousman Sonko. L’Italia ha chiesto la collaborazione del governo di Banjul per il controllo dell’immigrazione clandestina. Il nostro Paese fornirà alla ex-colonia britannica supporto tecnico per l’identificazione automatica delle impronte digitali (AFIS , acronimo inglese per Automated Fingerprint Identification System). La collaborazione prevede anche l’addestramento di ufficiali gambiani nel Paese dell’Africa occidentale e in Italia per poter controllare al meglio i confini e scoraggiare i giovani ad intraprendere i pericolosi viaggi della speranza. Naturalmente uno dei punti chiave della discussione è stato il rimpatrio dei cittadini gambiani la cui richiesta d’asilo nel nostro Paese è stata respinta.

L’Italia ha predisposto l’invio di duecentocinquanta computer, altrettanti scanner e stampanti e altro materiale logistico-scientifico. Venti militari gambiani verranno addestrati in Italia.

Durante il meeting al Ministero degli interni a Banjul è stato firmato anche un protocollo d’intesa tra il Gambia e l’Italia per il controllo dei confini. Le trattative con il governo del piccolo Paese dell’Africa occidentale per contenere l’immigrazione clandestina e il controllo delle frontiere sono state intraprese alla fine dello scorso anno, quando una delegazione del governo gambiano si è recato nel nostro Paese.

Massimo A. Alberizzi

Pakistan - Asia Bibi, una «speranza» per la libertà. Rischia la pena di morte per blasfemia

Avvenire
Resta confermata per la seconda settimana di ottobre l’udienza della Corte suprema del Pakistan per valutare la condanna a morte per blasfemia di Asia Bibi, cattolica e madre di cinque figli, in carcere a Multan da 2.626 giorni. Dopo la sospensione della pena capitale il 22 luglio 2015, la donna è in attesa di conoscere definitivamente la propria sorte, cosciente che, se i giudici supremi dovessero deliberare la sua libertà, la sua esistenza e quella della sua famiglia costretta alla clandestinità resterebbero comunque esposte alla vendetta degli estremisti.

Asia Bibi
Vi è però una tenue speranza, anche all’interno della Chiesa pachistana, che la donna veda la fine di una vicenda unica per durata e complessità. «Speriamo davvero che possa essere liberata», ha segnalato l’arcivescovo di Lahore, monsignor Sebastian Francis Shaw all’agenzia Uca News . Speranza espressa anche dall’avvocato musulmano Saif-ul-Malook, che ha rilevato la difesa dell’imputata dopo la conferma in appello della sentenza di primo grado. Una sentenza che per Malook è stata influenzata da fattori come la fede cristiana e la scarsa notorietà del suo predecessore. «Ora – prosegue Malook – ho forti speranze che possa essere rilasciata. Anch’io sono stato minacciato, ma sapevo a che cosa andavo incontro quando ho accettato l’incarico».

Meno ottimista padre Jamil Albert, attivista per i diritti umani, che ha parlato di «fede che dà speranza » ma anche di «riserve sulla legge e sui metodi di amministrare la giustizia». A sua volta, Tahir Chaudhry, presidente dell’Alleanza pachistana per le minoranze, ha confermato che la pressione sui giudici da parte degli estremisti sarà enorme, ma che spera che la Corte suprema ordini il rilascio della donna.

Continuano intanto, all’interno e all’estero le pressioni per l’abrogazione o la modifica della “legge antiblasfemia', in base alla quale è stata arrestata e condannata Asia Bibi. Nel rapporto periodico sul Pakistan pubblicato il 26 agosto e ripreso dall’ agenzia Fides, la Commissione Onu per l’eliminazione della discriminazione razziale ha chiesto a Islamabad di abrogare la legge deplorando «l’elevato numero di casi di blasfemia basati su false accuse e mancanti di relative indagini e azioni penali», mentre «i magistrati che giudicano i casi si trovano a subire intimidazioni e minacce di morte».

Il grande e silenzioso lavoro della Guardia Costiera. 6500 migranti salvati nel Mediterraneo il 29 agosto

Internazionale
Il 29 agosto circa 6.500 migranti che cercavano di raggiungere l’Italia sono stati salvati nel mar Mediterraneo, nel corso di una delle più grandi missioni di soccorso della guardia costiera. Le operazioni di salvataggio, quaranta in tutto, si sono svolte a Sabratha, a circa 20 chilometri dalla costa libica e hanno coinvolto Frontex e le due ong Medici senza frontiere e Proactiva open arms. Molti dei profughi sono eritrei e somali, tra di loro c’era anche un bambino di cinque giorni.



Il giorno prima, il 28 agosto, un’altra operazione della guardia costiera italiana aveva messo in salvo 1.100 persone sempre nella stessa zona. I trafficanti di esseri umani imbarcano nei loro pescherecci vecchi e insicuri così tante persone che è altamente improbabile che riescano a raggiungere l’Italia, a meno che non vengano soccorsi.

Secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni, nei primi sei mesi del 2016 circa 221mila migranti sono riusciti a raggiungere le coste europee, mentre 2.888 persone sono morte durante il viaggio.

martedì 30 agosto 2016

L'afonia del mondo - Sulle stragi in Yemen un silenzio letale

AvvenireNei pezzi scritti senza troppa fantasia, si dice spesso «neppure più fa notizia l’ultima strage...». Per lo Yemen, Paese massacrato ai margini di un disastrato Medio Oriente, la realtà è ancora peggiore, dato che – con qualche lodevole eccezione – le stragi che avvengono sul suo territorio non hanno mai veramente colpito le opinioni pubbliche internazionali. E tantomeno hanno spinto all’azione le cancellerie. 


Un po’ per disattenzione: sui tavoli diplomatici vi è sempre qualche questione più urgente o più importante per la sicurezza regionale; molto per colpevole indifferenza – mescolata a più di un calcolo tattico e a qualche corposo interesse – verso quanto avviene in quel povero Paese. Dal marzo dello scorso anno, una coalizione guidata dall’Arabia Saudita bombarda parti dello Yemen per combattere i ribelli sciiiti Houthi, che Riad ritiene manovrati dall’Iran, e per ripristinare militarmente il governo del presidente Abd Rabbo Mansour Hadi, scacciato dalla capitale agli inizi del 2015. Quella che doveva essere una campagna lampo del nuovo re saudita Salman si è trasformata in uno smacco strategico per gli sceicchi arabi e in un incubo per la popolazione, stretta fra bombardamenti indiscriminati, scontri di milizie, attentati terroristici sempre più sanguinosi dei gruppi jihadisti – come quello di ieri che ha fatto strage di reclute nella città di Aden – e il dilagare di malnutrizione e mancanza di cure di base. 

Lo scandalo dei bombardamenti della coalizione anti-Houthi – che colpiscono indiscriminatamente ospedali, campi profughi e quartieri civili con l’uso di armi vietate come le bombe a grappolo – non ha portato a una vittoria sul campo, ma ha contribuito a estremizzare il conflitto e ha favorito il proliferare delle forze di Aqap (al-Qaeda nella Penisola Arabica) e di gruppi terroristici che si riconoscono nel Daesh. 

Proprio questi ultimi hanno colpito ieri e sono responsabili di sanguinosi attentati (suicidi e no). Anche se, va detto, la variabile dell’estremismo religioso spesso è solo una maschera per conflitti clanico-tribali e per regolamenti di conti con figure del passato o del presente regime. L’ex presidente Saleh, ad esempio, non sembra scollegato dalla crescita dell’attività terroristica, nonostante sia vicino agli Houthi sciiti e in passato si sia sempre accreditato quale acerrimo avversario dei gruppi jihadisti.

In Occidente, i governi sono stati molto (anzi, troppo) prudenti, dato che – avendo sconfessato i sauditi nel caso del compromesso sul nucleare iraniano e in Siria – non hanno voluto umiliarli intervenendo anche sul dossier yemenita, imponendo una sospensione o almeno una limitazione dei bombardamenti. È chiaro, tuttavia, che la politica di Riad, ossessionata dal "nemico Iran" e che punta a dettare condizioni, più che a cercare accordi, non può essere la ricetta per portare a un compromesso politico in Yemen. Compromesso di cui la popolazione ha disperato bisogno. E anche la regione: fermare un conflitto tanto sanguinoso quanto inconcludente non solo aiuterebbe i civili yemeniti e eviterebbe la disgregazione di un altro Paese in un Medio Oriente già troppo sbriciolato, ma sarebbe la migliore politica per indebolire i gruppi jihadisti che si muovono oggi con impunità. Purtroppo, diversi tentativi di accordo sono finora falliti.

È evidente quindi come occorra maggior impegno da parte di tutti gli attori coinvolti. E in particolare dalle Nazioni Unite. Quanto infatti stupisce maggiormente nella vicenda è la fragorosa afonia dei vertici Onu. Certo, sarebbe stato forse troppo aspettarsi che l’attuale segretario generale – giunto alla conclusione del suo mandato – mostrasse almeno in questo frangente più determinazione e coraggio. Ma il silenzio con cui si assiste ai continui massacri è davvero intollerabile. Tanto più che vi sono sul campo validissimi funzionari del Palazzo di Vetro; senza però un pieno sostegno da parte dei vertici della diplomazia internazionale ogni iniziativa di pace è condannata a scontrarsi con chi considera lo Yemen solo una casella della grande scacchiera mediorientale. E non vede un popolo sfinito, che ha già pagato un prezzo pesantissimo ai giochi di potere interni e regionali e ai cinici calcoli di venditori di armi e di strateghi senza visione e senza morale.

Migranti: nella 'giungla' di Calais quasi 10.000 persone. Aumenta la tensione.

Ansa
La tensione è sempre più alta a Calais, porto del nord della Francia in cui si accalcano migliaia di migranti che sperano di raggiungere la Gran Bretagna. Il numero di profughi è in costante crescita, sfiora - e presto supererà - quota 10 mila. E parallelamente cresce il malcontento di abitanti, forze dell'ordine e autotrasportatori che regolarmente attraversano l'area portuale per raggiungere il tunnel sotto la Manica.

Ufficialmente, secondo l'ultimo censimento della prefettura, i migranti accampati nella 'giungla', una zona boschiva nella periferia della città trasformata in enorme accampamento di fortuna, sono 6.900, ma per le associazioni di assistenza sono molti di più. Già a fine agosto, affermano i rappresentanti dell'ong sanitaria Médecins du Monde, erano più di 9 mila, ed entro l'inizio di settembre saranno un migliaio in più.

"L'equivalente di una piccola città in Bretagna", afferma con amara ironia a Le Monde il responsabile dell'ong, Yannick Le Bihan, ricordando che a queste cifre, elevate come mai in precedenza, corrisponde uno spazio nettamente ridotto dopo gli scomgeri della primavera. Tende e ripari di fortuna si ammassano a ridosso delle casette di legno costruite lo scorso inverno dalle associazioni, tanto che in alcune parti diventa quasi impossibile camminare. Sovraffollamento e incertezza per il futuro aumentano tensioni e nervosismo, rendendo le risse tra profughi di diverse provenienze sempre più frequenti e violente. E la risposta dello Stato, rilevano le associazioni, è quasi sempre una reazione a posteriori, quando i problemi sono già diventati emergenza.

"Certo, lo Stato fa delle cose a Calais, non lo neghiamo", commenta sempre a Le Monde Vincent de Coninck, responsabile regionale del Secours Catholique. "Ma vorremmo che fosse più anticipato, meglio calcolato. Che il governo smettesse di correre dietro a una situazione in costante mutazione". Intanto, la federazione francese degli autostraportatori ha indetto per lunedì una manifestazione di protesta contro la scarsa sicurezza nell'area del porto di Calais e sulle bretelle autostradali che danno accesso al tunnel sotto la Manica. Due cortei di mezzi pesanti partiranno alle sette di mattina, avanzando a passo di lumaca, dalle vicine città di Dunkerque e di Boulogne-sur-Mer, e si incontreranno all'ingresso di Calais, dove i tir installeranno un blocco stradale "di durata indeterminata". Le persone che intendono sostenere la protesta sono chiamate a riunirsi, in contemporanea, a fianco dello stadio cittadino, per organizzare una catena umana.

Dopo 70 anni il Giappone risarcirà le "donne di conforto" sudcoerane

Corriere della Sera - Blog
Ci sono voluti 70 anni. Ma alla fine Giappone e Corea del Sud hanno scritto la parola fine sull’ultimo, doloroso capitolo che si trascinava dal 1945, impedendo una vera normalizzazione dei rapporti tra i due Paesi asiatici. Le donne sudcoreane sopravvissute che durante la seconda guerra mondiale furono costrette alla schiavitù sessuale da parte dell’esercito giapponese, riceveranno ciascuna un risarcimento di circa 100 milioni di won (circa 90.000 dollari). Mentre alle famiglie delle vittime decedute sarà data una somma di circa 20 milioni di won (18.000 dollari). 


L’annuncio è stato dato giovedì 25 agosto dal ministero degli esteri sudcoreano. I risarcimenti arriveranno da una fondazione lanciata dal governo sudcoreano lo scorso mese e finanziata dal governo giapponese. Seul si aspetta che il governo giapponese trasferisca presto 1 trilione di yen (9,9 milioni di dollari) a questa fondazione. 

Secondo le autorità sudcoreane, delle 196 donne sottoposte a schiavitù sessuale dai militari giapponesi ne sono sopravvissute solo 46. Il primo passo lo scorso dicembre quando il ministro degli Esteri giapponese Fumio Kishida ha espresso all’omologo sudcoreano Yun Byung-se le “profonde scuse” del governo del Giappone per il danno causato alle donne reclutate forzatamente dall’esercito nipponico: “Abe, come primo ministro del Giappone, offre nuovamente le scuse dal suo cuore e una riflessione per tutte coloro che hanno sofferto molto dolore e hanno cicatrici che sono difficili da rimarginare sia fisicamente, sia mentalmente”, ha detto. 

Le circa duecentomila giovani filippine, sudcoreane e cinesi strappate alle loro famiglie, furono costrette, a partire dagli anni Trenta fino alla conclusione della Seconda guerra mondiale, a diventare vere e proprie schiave sessuali dei soldati giapponesi, subendo stupri e sevizie per anni. Gran parte di queste disperate, una volta tornate a casa, dovettero anche affrontare l’onta e l’umiliazione di una società conservatrice. Più di un premier giapponese, negli anni, provò a esprimere «rimorso» per quanto accaduto. Ma mai con parole chiare e con l’impegno economico del governo, ragion per cui la controparte aveva sempre respinto i messaggi al mittente."

Monica Ricci Sargentini

lunedì 29 agosto 2016

USA - Vescovi del New Mexico: no alla reintroduzione della pena di morte

Il Domani d'Italia
No alla pena di morte, “una pratica moralmente insostenibile”: i vescovi del New Mexico, negli Stati Uniti, si schierano contro la proposta avanzata dalla governatrice Susana Martinez di rintrodurre nello Stato la pena capitale, abolita nel 2009. La proposta arriva dopo l’uccisione di un poliziotto in servizio ad Hatch, a metà agosto.

La vita è sacra, difenderla dal concepimento e fino alla morte naturale
“L’abrogazione della pena di morte – scrivono i presuli in una nota pubblicata sul sito dell’arcidiocesi di Santa Fe – è stata una pietra miliare che ha permesso al New Messico di passare dalla cultura della violenza alla cultura della pace, della giustizia e dell’amore”. I presuli, poi, ribadiscono l’insegnamento della Chiesa sulla sacralità della vita, da proteggere “dal concepimento nel grembo materno e fino alla morte naturale”.

Giustizia sia riparativa, non meramente punitiva
“È sempre tragico e triste – continua la nota episcopale – quando viene ucciso un membro della comunità. Ma tali atti insensati devono essere evitati attraverso un cambiamento sistematico della società, a partire dai più piccoli”. “Il crimine, infatti – affermano i presuli – può essere prevenuto investendo nel capitale sociale”. Di qui, l’appello ad una giustizia che sia davvero ripartiva e non meramente punitiva.

Sempre più Stati hanno abrogato la pena capitale
“Ci uniamo Papa Francesco ed ai suoi predecessori – si legge ancora - nel suo continuo richiamo a porre fine alla pratica della pena di morte”. Infine, i presuli ricordano che “negli ultimi cinque anni, cinque Stati americani hanno approvato una legge per abrogare la pena di morte. Ci opponiamo, quindi, alla proposta di Susana Martinez di ripristinare la pena capitale e chiediamo al legislatore di respingere la normativa”. (I.P.)

Migranti, 3.156 morti nel Mediterraneo da gennaio 2016, +509 rispetto al 2015

AGI
Roma - Circa 11 mila migranti sono stati rimpatriati dalla Libia e 3.165 invece sono morti nel Mediterraneo dal primo gennaio al 24 agosto del 2016, 509 in piu' se confrontate con i primi otto mesi del 2015



E' quanto riferisce l'Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), secondo la quale 270.576 migranti e rifugiati sono entrati in Europa via mare nel 2016 fino al 24 agosto scorso. La maggior parte di essi, 105.342 persone, hanno raggiunto le coste greche e italiane.
Nei primi otto mesi del 2015 invece gli arrivi in Europa attraverso il Mediterraneo erano stati 354.618, una cifra leggermente superiore rispetto a quella registrata quest'anno. Per la maggior parte si trattava di migranti provenienti dalla Turchia sbarcati in Grecia.

Intanto il governo tedesco prevede l'arrivo di circa 300.000 migranti in Germania nel 2016, una cifra inferiore ad un terzo di quella del 2015, quando furono circa 1,1 milioni. Lo riferisce l'Ufficio federale per i migranti e i rifugiati all'edizione domenicale della Bild. "Siamo preparati a una cifra compresa tra 250.000 e 300.000 rifugiati quest'anno", ha spiegato il direttore dell'ufficio, Frank-Juergen Weise. "Possiamo assicurare servizi ottimali di accoglienza fino a 300.000 persone", ha aggiunto.

domenica 28 agosto 2016

28 agosto 1963 - Martin Luther King pronuncia il famoso discorso: "I have a dream"

Blog Diritti Umani - Human Rights

“I have a dream!” Sono le celebri parole pronunciate da Martin Luther King davanti ad una platea di 200 mila persone, radunate davanti al Lincoln Memorial di Washington, in occasione di una manifestazione di protesta e di difesa dei diritti civili. Una dura condanna della segregazione razziale combattuta dal pastore protestante e attivista che, nel suo famoso discorso, esprime un preciso desiderio: “che un giorno questa nazione si sollevi e viva pienamente il vero significato del suo credo: "Riteniamo queste verità di per se stesse evidenti: che tutti gli uomini sono stati creati uguali"


Egitto - Malek Adly libero dopo 114 giorni in isolamento. Si occupò del caso Regeni

Il Manifesto
Egitto. Dopo tre mesi e mezzo l'avvocato e attivista per i diritti umani sarà rilasciato. Era stato il primo a seguire il caso di Giulio Regeni, cercandolo nelle stazioni di polizia il 25 gennaio, quando scomparve

L'avvocato egiziano Malek Adly
Dopo 114 giorni di detenzione l’avvocato egiziano Malek Adly sarà scarcerato. Attivista per i diritti umani e responsabile della Rete degli avvocati dell’Egyptian Center for Economic and Social Rights, era stato arrestato il 5 maggio scorso, uno degli oltre 1.300 detenuti prima e dopo le manifestazioni del 15 e 25 aprile contro la cessione delle isole Tiran e Sanafir all’Arabia Saudita da parte del Cairo.

Tre mesi e mezzo in isolamento che hanno gravato sulle sue condizioni di salute, come denunciato più volte dalla moglie Asmaa, senza un letto dove dormire né cure mediche, senza la possibilità di uscire nemmeno per l’ora d’aria. E senza mai arrivare di fronte ad un giudice: una pratica molto comune quella delle detenzione preventiva, che interesserebbe 10mila degli attuali 60mila prigionieri politici egiziani.

Ieri, dopo campagne locali e internazionali che ne chiedevano il rilascio, la corte penale di South Benha ha rigettato l’appello mosso dalla procura all’ordine di scarcerazione di giovedì: Adly sarà liberato. Secondo fonti interne al tribunale, le procedure di rilascio richiederanno qualche giorno.

Non si ferma però l’inchiesta che pesa su di lui e altre centinaia di attivisti e semplici cittadini: è accusato del tentativo di rovesciare il governo, di incitamento alle violenze e di diffusione di notizie false in merito all’accordo di cessione.

Malek Adly è stato tra i primi in Egitto a denunciare pubblicamente la scomparsa e l’uccisione di Giulio Regeni, esponendosi come Ahmed Abdallah, consulente legale della famiglia del ricercatore e in carcere dal 25 aprile. Già poche ore dopo la sparizione di Giulio, il 25 gennaio, Adly è stato contattato dagli amici del giovane e ha fatto il giro delle stazioni di polizia del Cairo per avere sue notizie.

Quando il corpo di Giulio è stato ritrovato, il 3 febbraio, si è offerto di seguire come legale le indagini, smentendo fin da subito le prime dichiarazioni dei vertici egiziani secondo cui i responsabili erano semplici criminali.

Adly era anche nel team di avvocati che ha preparato il ricorso contro la decisione del presidente al-Sisi di cedere Tiran e Sanafir durante la visita di re Salman al Cairo. Una cessione che ha creato non pochi problemi al regime egiziano: oltre alle proteste di massa (le prime dal luglio 2013 quando con un golpe al-Sisi depose il presidente eletto Morsi), il 21 giugno il Consiglio di Stato ha annullato l’accordo per violazione della sovranità nazionale.

Ovviamente il governo ha subito fatto appello (la corte si riunirà il 30 agosto), mentre le centinaia di persone detenute per aver protestato contro quella decisione restano dietro le sbarre. Nel frattempo prosegue spedita la macchina della propaganda: il Ministero della Cultura ha annunciato la pubblicazione di un libro, corredato di mappe e documenti storici, per dimostrare che le due isolette sul mar Rosso si trovano in acque saudite.

Grecia: Unicef, bloccati 27.500 bambini rifugiati con gravi esigenze: istruzione, protezione

Ansa Med
Roma - In Grecia ci sono quasi 27.500 bambini migranti e rifugiati bloccati e il numero continua ad aumentare. Lo denuncia l'Unicef. I minori non accompagnati sono almeno 2.250, ma solo un terzo vive in alloggi formali. 


Secondo l'Agenzia delle Nazioni Unite per l'Infanzia, con l'improvviso aumento degli arrivi, centinaia di bambini rifugiati e migranti sono bloccati in Grecia con gravi esigenze che riguardano l'istruzione e la protezione.

Sono arrivate più persone nelle prime tre settimane di agosto, sottolinea l'Unicef, che in tutto il luglio 2016: 1.920 a luglio; 2.289 al 24 agosto. Questo nuovo afflusso arriva in un momento in cui la Grecia sta lottando per far fronte a un sistema di welfare in difficoltà a causa della crisi economica in atto, lasciando bambini migranti di fronte a una doppia crisi. 

In totale, i bambini rappresentano circa il 40% della attuale popolazione bloccata.
"In Grecia c'è una reale percezione che le famiglie di rifugiati siano sempre costrette a una lunga attesa. Aspettano che la loro richiesta di asilo sia giudicata, che sia presa una decisione in merito al loro trasferimento in altri paesi Europei, che i bambini possano ricevere una corretta istruzione e campi da gioco, che possano avere un alloggio adeguato, sono semplicemente in attesa di sapere quale sarà il loro futuro - afferma Laurent Chapuis, coordinatore Unicef per la risposta alla crisi dei rifugiati e dei migranti in Grecia - per i bambini questa attesa è un'eternità - molti provengono da paesi lacerati da conflitti come Siria, Afghanistan e Iraq hanno perso tutto, compreso l'accesso all'istruzione e anni di scolarizzazione e sono ancora una volta "sospesi".
"L'istruzione è uno dei più efficaci modi per proteggere i bambini da ogni forma di violenza - aggiunge - questo significa che tutti noi dobbiamo unire le forze per aumentare gli sforzi del governo per fare ritornare i bambini a scuola a settembre".

sabato 27 agosto 2016

La povertà infantile: prospettive drammatiche per il futuro dell'Africa

Blog Diritti Umani - Human Rights
I bambini africani potrebbero costituire quasi la metà dei più poveri nel mondo entro il 2030 se le tendenze attuali non saranno invertite. Questo è ciò che prevede L'Istituto di sviluppo d'oltremare (ODI) nel suo ultimo rapporto. Tassi di fertilità elevati e disuguaglianza economica del continente sono la causa di questa previsione.

Un bambini al lavoro in Costa d'Avorio
Sapevamo già che i bambini africani sono particolarmente vulnerabili alla povertà. Nel mese di giugno, l'UNICEF lo ha già messo in rilievo nel suo rapporto. L'organismo delle Nazioni Unite ha individuato 247 milioni di bambini africani che vivono in povertà multidimensionale, vale a dire, privi del minimo necessario per la sopravvivenza. Ovvero due bambini su tre bambini sono in condizioni di estrema povertà.

Per l'ODI le prospettive per il 2030 sono ancora più drammatiche. L'Africa potrebbe quindi contare oltre il 40% di bambini al di sotto della soglia di povertà. La demografia è un problema, in primo luogo. La mortalità infantile è in diminuzione. I tassi di fertilità rimangono elevati rispetto agli standard internazionali. La Nigeria, per esempio, rappresentano solo il 6% di tutte le nascite nel mondo tra il 2015 e il 2030. Secondo l'ODI, se questo tasso di crescita della popolazione non è accompagnato da politiche economiche sane, le giovani generazioni pagheranno il prezzo .

La povertà economica aumenta il rischio per la sopravvivenza e lo sviluppo di questi bambini. Come la malnutrizione e la rapida entrata nel mercato del lavoro. L'organizzazione invita pertanto i governi africani e la comunità internazionale a prendere in seria considerazione questo problema.


Fonte: RFI

Il fatto che il Califfo al Baghdadi fu detenuto nel carcere di Abu Ghraib merita una riflessione

La Stampa
The Intercept: il leader dell'Isis, Abu Bakr al Baghdadi, prigioniero per dieci mesi in Iraq. 
Il leader dell'Isis Abu Bakr al-Baghdadi è stato detenuto ad Abu Ghraib, il famigerato carcere alla periferia Ovest di Baghdad, quello delle pile di prigionieri nudi e umiliati, terrorizzati dai cani, torturati dai secondini iracheni e dai militari americani. 

Foto simbolo delle torture e umiliazioni 
avvenute nel carcere di Abu Ghraib
Finora era emerso che l'autoproclamato Califfo era stata detenuto dal febbraio al dicembre 2004 in un altro campo di prigionia, Camp Bucca, vicino a Bassora. Una vera "scuola della jihdad", dove ex ufficiali fedeli a Saddam Hussein e islamisti avevano stretto legami e di fatto posto le basi per la nascita dello Stato islamico.
Abu Ghraib ha però giocato un ruolo molto più importante nell'alimentare sentimenti anti-occidentali e fornire carburante alla propaganda jihadista. Un clima che ha portato ampi settori della comunità sunnita, specialmente nelle province di Baghdad e dell'Anbar a schierarsi con Al-Qaeda e poi con l'Isis. 

A scoprire che Al-Baghdadi è stato prigioniero ad Abu Ghraib è stato The Intercept, quotidiano online fondato e diretto da Glenn Greenwald, l'avvocato e collaboratore del Guardian che pubblicò per primo i materiali raccolti da Edward Snowden sull'Nsa. Le prime cifre della matricola US9IZ-157911CI indicano i detenuti del carcere. E fonti militari, secondo "The Intercept", hanno confermato che Al-Baghdadi ha passato lì "la maggior parte" della sua detenzione.

di Giordano Stabile

Francia - Burkini: Consiglio di stato revoca divieto. Il diritto sconfigge la demagogia.

Il DubbioIl Consiglio di Stato francese ha sospeso le ordinanze del sindaco di Cannes e di un'altra ventina di sindaci che - sostenuti e incitati di partiti politici, anche nazionali - avevano proibito alle donne musulmane di usare, sulle spiagge, il cosiddetto "burquini", e in pratica avevano ordinato loro di spogliarsi. 

Polizia di Nizza costringe una donna con il burkini a spogliarsi
Il presidente francese - socialista e laico - Francoise Hollande, ha applaudito l'iniziativa dei sindaci, in nome della cultura occidentale e dell'identità francese. Noi su questo giornale, con alcuni articoli (tra i quali quelli di Tiziana Maiolo, di Angela Azzaro e di Angiolo Bandinelli) ci eravamo chiesti se il nocciolo duro di questa cultura occidentale e francese alla quale ci si richiama, non sia la tolleranza, che è il contrario esatto del divieto e dell'imposizione. 

Ci era sembrato che tradurre in divieti la cultura "dei lumi" fosse molto contraddittorio, e forse anche illegale. E questo senza entrare nella discussione su come fronteggiare alcune manifestazioni anti-moderne e maschiliste della cultura islamica, che producono oppressione e sottomissione della donna. Il consiglio di Stato francese ci ha confermato che l'idea che ci eravamo fatti non era sbagliatissima. 

E soprattutto ha confermato che il diritto è il diritto e non deve adattarsi alle emozioni del momento. La sentenza del Consiglio di Stato è chiarissima, esplicitamente dichiara che non si possono inventare le regole facendosi condizionare dall'emergenza, e ci ha detto che quel divieto è illegale e viola le libertà essenziali garantite dalle leggi e dalla Costituzione. 

Sapete che questo giornale non è mai tenero coi magistrati. Stavolta dobbiamo dire che la contrapposizione tra magistratura e politica è molto limpida: la magistratura dalla parte del diritto, la politica dalla parte della demagogia

venerdì 26 agosto 2016

Ungheria costruirà nuova barriera su confine sud. Orban: migranti sono veleno

Ansa Med
L'Ungheria costruirà una nuova barriera fortificata anti-migranti lungo i suoi confini meridionali: lo ha annunciato oggi il primo ministro Viktor Orban alla radio statale.

Presto ci sarà un "maggior bisogno di sicurezza", ha detto Orban, che in precedenza aveva paragonato i migranti al "veleno".

La barriera fortificata, ha aggiunto, sarà in grado di fermare "diverse centinaia di migliaia di persone" se necessario, ha aggiunto senza specificare quando cominceranno i lavori.

Iraq: approvata amnistia generale, presto la liberazione di 42mila detenuti

Nova
Il parlamento iracheno presieduto da Salim al Jubouri ha approvato oggi una legge per la concessione dell'amnistia generale a tutti i detenuti. Lo ha riferito una fonte parlamentare irachena ad "Agenzia Nova". 

Carcere iracheno
La normativa, secondo il sito "Iraqi Day", consentirà la liberazione di 42mila detenuti, inclusi quelli accusati di violenze settarie. I partiti sciiti si erano opposti inizialmente alla legge per il timore riguardo alle ripercussioni sulla società irachena. 

Per i sunniti invece la normativa rappresenta "una soluzione alla grave situazione" in cui versa il paese. "Consideriamo le riforme come una tutela dei diritti umani e della dignità - aveva detto il presidente Jubouri nei giorni scorsi. Per questo la presentiamo come una delle riforme chiave per il paese". Un esponente sciita aveva chiarito che l'opposizione degli sciiti alla legge non era dettata da motivazioni politiche, ma dalla preoccupazione che la normativa potesse permettere la liberazione di terroristi dello Stato islamico e di al Qaeda.

Terremoto seppellisce anche notizia dell'espulsione di massa di 48 migranti di Ventimiglia in Sudan

Blog Diritti Umani - Human Rights
Proprio il giorno in cui l'Italia è stata colpita da  tremendo terremoto e, com'è giusto, tutti i media sono stati concentrati a documentare gli sviluppi della tragedia che era in atto.  Ma ... a Ventimiglia si stava realizzando una operazione inusuale e con seri dubbi sulla sua legalità. Una espulsione di massa di 48 migranti provenienti dal Sudan con un volo Egyptair. Il Sudan, paese da cui accogliamo il 60% delle domande di asilo politico è stato ritenuto "paese sicuro" per questa operazione .

Il Fatto Quotidiano
Migranti, prima espulsione di gruppo: 48 presi a Ventimiglia e rispediti in Sudan. “Ma Khartoum viola diritti umani”



"Ma Khartoum viola diritti umani". L'operazione organizzata in gran segreto, manifestazione di protesta a Malpensa mentre i migranti venivano dirottati - a quanto trapela - a Torino-Caselle. È il primo frutto del memorandum firmato il 4 agosto con il Paese africano. Protestano le associazioni umanitarie. Alessandra Ballerini (legale Caritas): "Deportazione di massa, la loro vita ora è in pericolo". Possibile chiama in causa Alfano: "Ci dica se operazione è legittima".

Quarantotto migranti provenienti dal Sudan, fermi a Ventimiglia nella speranza di passare il confine e raggiungere i propri familiari, sono stati rimpatriati oggi. Il volo charter, destinato alla capitale Khartoum, è stato operato da Egyptair. Secondo le informazioni trapelate nella tarda serata di ieri, il volo doveva partire alle 12.45 dall'aeroporto di Milano Malpensa, dove quell'ora sono arrivati alcuni manifestanti per esprimere solidarietà ai migranti, ma il volo sarebbe invece partito dall'aeroporto di Torino-Caselle intorno alle 13. 

Si tratta della prima espulsione diretta di questo genere: "Dei ragazzi partiti con quell'aereo ne conoscevamo bene due", spiegano a ilfattoquotidiano.it alcuni attivisti giunti a Malpensa da Ventimiglia. Ci dicono i nomi dei migranti, ci raccontano le loro storie: "Fino a ieri erano al Centro della Croce Rossa, si sentivano al sicuro e stavano preparandosi per la richiesta di asilo".
A quanto si può ricostruire in assenza di conferme ufficiali, i sudanesi sono stati prelevati nei giorni scorsi da Ventimiglia e sono stati accompagnati nella giornata di ieri alla Questura di Imperia, dove il giudice di pace ha convalidato, per ciascuno di loro, il decreto di espulsione. Per Alessandra Ballerini, avvocato di fiducia della Caritas di Ventimiglia, esperta in diritto dell'immigrazione: "Si tratta di una deportazione di massa verso un Paese dov'è certa la violazione dei loro diritti fondamentali, dov'è in pericolo la loro stessa vita. Con questa operazione il nostro Paese si rende complice di tutte le violazioni che saranno poste in essere da questi regimi".

Nel 2015 il 60% dei sudanesi richiedenti asilo ha ricevuto la protezione umanitaria in Italia. Se quindi, da una parte, il nostro Paese riconosce la drammaticità della situazione in Sudan, dall'altra, con questo accordo, accredita la repubblica governata dalla dittatura militare di Omar al Bashir come "paese terzo sicuro", verso il quale rimpatriare i richiedenti asilo che si vedono negare il diritto alla protezione.
Risale al 4 agosto la firma del "Memorandum of Understanding" tra l'Italia e il Sudan - di cui ha scritto il sito di "Nigrizia" - che prevede la collaborazione nella gestione delle migrazioni e delle frontiere, con articoli dedicati proprio al rimpatrio dei cittadini "irregolari". 

Nelle scorse settimane il governo italiano ha chiesto al Sudan di inviare una sua delegazione a Ventimiglia, è stato lo stesso Ministro degli Esteri sudanese Gharib Allah Khidir, la scorsa settimana, ad annunciarlo al Sudan Tribune: "Abbiamo accettato la proposta dell'Italia e inviato una delegazione di agenti al confine franco-italiano allo scopo di identificare e avviare il rimpatrio dei nostri concittadini". Resta da chiarire come sia possibile il coinvolgimento di agenti dei paesi di origine nell'identificazione dei migranti, dal momento che le regole della Convenzione di Ginevra lo vietano espressamente.

In Sudan si moltiplicano le persecuzioni contro i cristiani e, come ha denunciato l'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati "centinaia di persone già riconosciute come aventi diritto di protezione internazionale vengono espulse dal governo nelle carceri di Etiopia ed Eritrea, dove la tortura è la prassi". 

Non bastasse, in Sud Sudan è in atto un conflitto armato tra gli eserciti delle etnie dinka e nuer, combattuto anche con il reclutamento di bambini soldato. Lo stesso Governo italiano, lo scorso anno, ha inviato un contributo di 545.000 dollari al Sudan per supportare i campi profughi destinati ai rifugiati del conflitto.

Dopo il "Processo di Khartoum" di fine 2014, da qualche mese il Sudan ha intensificato i rapporti con l'Ue "per risolvere alle radici le cause della migrazioni". "Come si può dire che in Sudan è garantita la tutela dei diritti umani? Come possiamo mettere in pericolo la vita di queste persone rimpatriandoli forzatamente?", si chiede Luigi Manconi, senatore Pd e presidente dell'associazione "A Buon Diritto". "Non possiamo correre il rischio di rimpatriare nessuno senza adeguate garanzie sulla sua incolumità". Fino a oggi, i trasferimenti coatti erano avvenuti solo all'interno dei confini italiani, dal confine verso hotspot e centri di accoglienza del Sud Italia.
Le operazioni si ripetono da maggio: interventi della polizia di Ventimiglia, trasferimenti verso l'aeroporto con le corriere della Riviera Trasporti, voli operati da Mistral Air (compagnia delle Poste Italiane) e Bulgarian Air Charter. Non si conosce il costo di queste operazioni, ma la loro efficacia è messa pesantemente in dubbio: "I migranti trasferiti non vogliono stare in Italia, dopo pochi giorni li rivediamo qui" testimoniano gli operatori della Croce Rossa, che a Ventimiglia gestiscono il primo vero e proprio "campo di transito" in Italia. A definirle per primo "operazioni ipocrite" è stato Antonio Suetta, vescovo di Ventimiglia e Sanremo che aveva dichiarato al Fatto Quotidiano: "Vogliono far passare per accoglienza politiche di respingimento e deportazione e chi li sostiene viene criminalizzato, è un martirio".
"Se quanto riportato fosse confermato" scrivono i deputati Giuseppe Civati, Elly Schlein e Andrea Maestri (Possibile), "sarebbero ipotizzabili gravissime violazioni di legge ed in particolare il divieto di espulsioni/respingimenti collettivi, nonché la violazione della Convenzione di Ginevra, della Costituzione italiana, del Testo Unico sull'Immigrazione. (...) Chiediamo che il Ministro Alfano chiarisca immediatamente i fatti e fornisca la prova della legittimità dell'operazione, se effettivamente programmata".

giovedì 25 agosto 2016

Rio 2016 - L'atleta dell'Etiopia Feyisa Lilesa con il suo gesto rischia la morte nel suo paese

Blog Diritti Umani - Human Rights
Medaglia d'argento nella maratona, l'atleta etiope Feyisa Lilesa ha mostrato il suo sostegno per gli oppositori del governo del suo paese. Un gesto e le parole pronunciate potrebbero costargli la vita.



Dopo aver tagliato il traguardo, il giovane ha corso mostrando i pugni sopra la testa. Ha poi spiegato il significato di questo gesto in una conferenza stampa, dando i brividi ai giornalisti.

"E 'un segno di sostegno ai manifestanti che sono stati uccisi dal governo del mio paese. Fanno lo stesso segno lì. Volevo mostrare che non ero d'accordo con quello che sta succedendo, non ho parenti e amici in carcere. Il governo sta uccidendo il mio popolo, il popolo Oromo, senza risorse. "Ha spiegato Feyisa.

L'atleta ha intenzione di rimanere un po 'in Brasile, nella speranza di ottenere un visto per raggiungere il Kenia o gli Stati Uniti.

"E 'molto pericoloso nel mio paese. Forse dovrei andare in un altro paese. Ho dimostrato per tutte le persone che non sono libere ", ha aggiunto.

Oromo dimostrano regolarmente dal novembre 2015 contro un progetto di esproprio della terra. Decine di manifestanti sono stati uccisi tra il 7 e 8 agosto in questa regione meridionale del paese.

27 anni fa muore Jerry Essan Masslo la sua morte cambiò la storia dell'immigrazione in Italia

Blog Diritti Umani - Human Rights
L'uccisione a Villa Literno di Jerry Essam Masslo, rifugiato sudafricano, divenne simbolo della violenza razziale nel nostro Paese, tanto da segnare il dibattito politico in corso negli anni '90

Jerry Essan Masslo
Arrivato in Italia nel 1988 dal Sudafrica dove esisteva ancora l'apartheid, Jerry Essan Masslo ebbe riconosciuto lo status di rifugiato solo dalle Nazioni Unite e non dall'Italia (all'epoca era previsto solo per i migranti dell’Europa dell’Est). Dopo essere stato accolto alla Tenda di Abramo, centro della Comunità di Sant'Egidio a Roma, dove frequentò la Scuola di lingua italiana, la mensa della Comunità e la Chiesa battista, Jerry Masllo nell'estate del 1989 andò a Villa Literno per la raccolta dei pomodori. Qui la sera tra il 24 e il 25 agosto, nella casupola abbandonata dove viveva con i suoi amici, si oppose all'aggressione di alcuni giovani che volevano derubarli, e per questo fu sparato e ucciso. 

Il funerale di Jerry Essan Masslo a Villa Literno
"La sua morte sconvolge l'Italia - ricorda Daniela Pompei della Comunità di Sant’Egidio - Per la prima volta i funerali di un nero sono trasmessi dalla Rai: alle esequie sono presenti il vicepresidente del Consiglio dei ministri Claudio Martelli e altre autorità. Le associazioni e i sindacati si mobilitano. Nell’ottobre del 1989 si svolge a Roma la prima grande manifestazione antirazzista con la partecipazione di oltre 150 mila persone. Questo anniversario si colloca nei giorni in cui si dibatte se continuare o meno l’operazione Mare Nostrum. La memoria vigile e partecipe di un giovane profugo morto ucciso cinque lustri fa è un atto dovuto a lui e ai tanti che oggi muoiono cercando vita speranza e futuro in Europa. Il volto, il nome, la storia, la morte di Jerry può, oggi come allora, restituire respiro e spessore a un dibattito troppo spesso poco lungimirante e forse troppo animato da egoismi nazionali".  

Dopo la morte di Jerry Masllo la legge Martelli, tra le altre cose, eliminò la clausola geografica e in Italia si poté chiedere asilo provenendo da qualsiasi Paese del mondo. Lunedì sarà ricordato in una Villa Literno profondamente cambiata, dove i lavoratori stagionali convivono pacificamente con la popolazione locale, e i loro bambini frequentano la scuola.

Oggi che l'Europa è meta di tanti uomini, donne e bambini che fuggono da guerra e persecuzioni da tanti angoli della terra, Jerry Masslo con la sua morte contribuì in modo rilevante a cambiare la legislazione italiana nel merito e iniziò a far capire all'opinione pubblica i problemi che si portavano con se i profughi che chiedono ospitalità in terre che vivono nella pace e nella sicurezza.




Sisma - Nella gara di solidarietà anche decine di richiedenti asilo. "Ricambiamo la solidarietà"

ONUItalia
Ascoli Piceno – Venti richiedenti asilo, quasi tutti nordafricani, ospiti di una struttura gestita dal GUS (Gruppo di Umana Solidarietà) a Monteprandone (Ascoli Piceno), sono partiti volontari alla volta di Amandola, uno dei centri marchigiani colpiti dal terremoto, in supporto alla Protezione civile comunale, per prestare soccorso alla popolazione.

“Sono stati loro – ha detto Paolo Bernabucci del Gus – a chiedere di poter dare una mano in questo momento tragico per la regione che li ospita”, riporta oggi l’ANSA. Il GUS è una Ong, che nasce come associazione di volontariato nel 1993, nel nome di Guido Puletti, giornalista morto in Bosnia. La storia dei venti di Monteprandone e’ una di quelle di “solidarietà’, bellissime e commoventi” di cui ha parlato oggi il premier Matteo Renzi. Storie non solo italiane, come quella di altri 75 richiedenti asilo ospiti dello Sprar (Servizio di protezione richiedenti asilo e rifugiati) a Gioiosa Ionica.

“Stiamo cercando di capire come aiutare i richiedenti asilo a fare il versamento e a chi ma vorremmo sottolineare questo piccolo ma rilevante gesto di aiuto tra popoli, da parte di chi si è sentito accolto in Italia e vuole in qualche modo ricambiare la solidarietà”, ha annunciato Giovanni Majolo, coordinatore dello Sprar nella cittadina calabrese. I 75 sono ospiti delle strutture di accoglienza nella cittadina calabrese gestite dalla Rete dei comuni solidali, Recosol: “Rinunciamo al pocket money di oggi, per darlo ai terremotati”; hanno deciso i profughi. Tradotto, 2,50 euro a testa, il 14% delle loro entrate settimanali, per un totale di 187,5 euro.

Il terremoto d’altra parte non ha risparmiato le strutture di accoglienza a migranti e rifugiati. Ad Amatrice sono crollate tutte le cinque strutture presenti sul territorio comunale. Tra i migranti ospitati nella cittadina distrutta, quattro erano rimasti feriti, mentre un altro e’ tuttora disperso. Sono intanto già stati attivati i trasferimenti in altre strutture per i 24 beneficiari di protezione rimasti senza strutture di accoglienza: per 16 di loro è già stato disposto il trasferimento. 

mercoledì 24 agosto 2016

I giovani musulmani del Burkina Faso contro l'estremismo

Zenit
Centinaia di giovani africani di religione musulmana, impegnati nei rispettivi Paesi nella lotta a ogni fondamentalismo, si sono riuniti nei giorni scorsi a Ouagadougou, capitale del Burkina Faso, per un convegno dal titolo ‘Contributo alla prevenzione dell’estremismo violento’ che ha avuto l’obiettivo di mettere in guardia sui pericoli contenuti nella radicalizzazione e nell’estremismo violento soprattutto nelle nuove generazioni.

Venuti da otto nazioni della regione, i partecipanti – spiega L’Osservatore Romano – hanno chiesto ai governi di giocare pienamente il loro ruolo offrendo opportunità di impiego e di formazione, al fine di evitare che i giovani cadano nelle grinfie del terrorismo.

È questa un’emergenza – spiega l’Organizzazione della gioventù musulmana in Africa occidentale (Ojemao) — soprattutto per paesi come Togo, Benin, Mali, Guinea, Niger, Costa d’Avorio, Senegal e Burkina Faso, dove i terroristi e alcuni predicatori radicali hanno preso il sopravvento.

Il timore è che altre regioni africane possano subire il fascino dei fondamentalisti, con la creazione di organizzazioni che utilizzino il pretesto della fede per “giustificare” i loro crimini. L’Ojemao è particolarmente attiva in Niger dove, fra l’altro, gli aderenti promuovono delle iniziative di solidarietà islamica.

Bolivia - Fra i migranti climatici di La Paz: “Le nostre Ande muoiono di sete”

La Stampa
La siccità e la desertificazione hanno messo in ginocchio intere regioni del Paese

Un pescatore di etnia Urus nel bacino prosciugato del lago Poopò
«Coltivavamo quinoa e patate. Allevavamo lama. Poi è arrivata la grande siccità e la nostra vita è cambiata». Il mondo stravolto dai cambiamenti climatici ha la faccia cotta dal sole, le braccia nerborute e le mani callose di Nayra. Questa donna di 44 anni, nata e cresciuta a Tarata, un villaggio nel cuore delle Ande della Bolivia, è stata strappata dalla sua terra con il marito e i tre figli. Oggi vende snack e bibite su un rabberciato carretto in una strada di La Paz. «Abbiamo aspettato la pioggia per oltre un anno, poi ci siamo arresi e ce ne siamo andati. Qui mi sento straniera». «Il mio unico sogno - continua Nayra - è tornare a casa, ma so che non succederà».

In Bolivia il cambiamento climatico non è una minaccia su un futuro remoto né una crociata ambientalista. Nel Paese emblema dell’America Latina più povera il surriscaldamento globale è una drammatica realtà che ha già cambiato (in peggio) la vita delle famiglie. Centinaia, forse migliaia ogni mese: nessuna statistica conteggia i profughi climatici boliviani, costretti ad abbandonare le loro terre e a rifugiarsi nelle città. Vivono nelle baracche che spuntano nelle periferie di La Paz, Santa Cruz, Chocabamba. Un popolo di fantasmi. Eugenio è uno di loro: di giorno venditore ambulante, ogni sera torna nel suo tugurio a El Alto. Indaga l’orizzonte con occhi gonfi di nostalgia e rassegnazione: «Pachamama (Madre terra in lingua quechua, ndr.) ci dona la vita, ma ora si vendica per tutto il male che l’uomo sta facendo».

La quinoa che non cresce
Ci sono due Bolivie. A est la natura lussureggiante della giungla amazzonica, descritta da Jonathan Franzen nel romanzo «Purity»: un miracolo di biodiversità tra alberi, fiumi e cascate. A ovest, invece, c’è l’altopiano: deserti, terra brulla e geyser contornati da maestose cime vulcaniche. Questa è la zona del Paese che sta pagando il prezzo più alto per il surriscaldamento globale. «La temperatura registrata nell’ultimo anno è di due gradi sopra la media», quantifica l’ultimo report del governo. L’agricoltura è in ginocchio. «La quinoa è una pianta eccezionale, basta un acquazzone affinché germogli», spiega Rumi Araya, ex minatore, oggi bracciante agricolo. «Il problema è che non piove più». E così anche il cereale di gran moda sulle tavole vegetariane d’Occidente fatica a crescere. Mentre i cespugli scompaiono e gli animali muoiono di fame.

La Paz è un ingorgo di uomini e automobili a 3.600 metri. Osservata dalla catena montuosa della Cordigliera Real, la capitale s’intravede appena, nascosta dalla cappa di particolato che la soffoca. Quassù, fino a qualche anno fa, dominava il ghiacciaio Chacaltaya. Oggi non esiste più. Scomparso. Per sempre. È successo in un decennio. «La cosa più grave è che quasi non ce ne siamo accorti, nessuno ha fatto nulla», denuncia spesso Evo Morales, il presidente cocalero, primo indio a guidare la Bolivia. E così ora su questa montagna brulla restano solo i piloni arrugginiti dello skilift di quella che per decenni fu la stazione sciistica più alta del mondo.

Ecatombe di pesci
L’altro emblema del Paese sconvolto dal clima impazzito è il lago Poopò. Quello che era il secondo bacino della Bolivia, è quasi prosciugato. Fino a tre anni fa misurava circa mille chilometri quadrati. Oggi resta una striminzita pozza d’acqua profonda meno di un metro. Colpa delle siccità permanenti causate dal Niño, dell’inquinamento minerario e dell’uso delle acque affluenti per irrigare le terre. Victor Hugo Vásquez, governatore del dipartimento di Oruro, ha chiesto lo stato di calamità naturale: «Il lago ha avuto i suoi cicli. Ci sono statti anni di piena e altri di siccità momentanea. Ma ormai abbiamo superato il punto di non ritorno». Nel villaggio di Llapallapani raccontano con voce strozzata l’ecatombe: «L’acqua si ritirava, i pesci crepavano. Poi è toccato ai fenicotteri. C’era tanfo di morte ovunque». Centinaia di famiglie sono state costrette ad abbandonare queste terre. C’è chi è finito a faticare nelle miniere di carbone cento chilometri più Sud e chi è andato nelle fabbriche del Salar de Uyuni, la più grande distesa di sale del pianeta sotto cui è custodito un terzo delle riserve di litio della Terra. Anche le anatre sono volate via. «Di giorno scrutavo il cielo e pregavo, la notte piangevo cercando di non farmi vedere dai miei figli», racconta un signore dal viso rotondo e gli occhi arrossati mentre mastica le foglie di coca. «Qui siamo tutti pescatori, senza lago non c’è futuro».

Allarme lagune
Nei paesaggi lunari dell’altopiano andino, la vita di per sé pare un miracolo. Migliaia di turisti, ogni anno, scendono fin qui per ammirare le lagune colorate dalle alghe. Ma anche queste pozze si stanno pericolosamente restringendo. «Ogni anno il livello dell’acqua si abbassa, se va avanti così scompariranno», dice sconsolato Vladimir, guida naturalistica che accompagna stranieri nel tour del Salar. «Io e mio fratello – racconta - lavoravamo nelle miniere di Potosì. Lui è morto in un’esplosione, ha lasciato tre figli. Il giorno dopo mi sono licenziato e me ne sono andato. Ora sento che la mia vista potrebbe cambiare di nuovo, stavolta a causa del clima. Ma vado avanti, non serve avere paura». Riesce ancora a sorridere.


Gabriele Martini

Terremoto in Italia Centrale - Numeri Utili della Protezione Civile

Blog Diritti Umani - Human Rights


Si consiglia di aprire le WIFI nelle zone colpite per aiutare i soccorsi

Per donare il sangue l'AVIS consiglia che è meglio andare nei centri trasfusionali delle proprie città.


martedì 23 agosto 2016

Nigeria - Salva uno studente accusato di blasfemia. Gli bruciano la casa, 8 morti.

Avvenire
Otto persone sono morte ieri nel Nord della Nigeria nell'incendio appiccato da un gruppo di studenti musulmani alla casa di un uomo che aveva cercato di portare in salvo uno studente cristiano accusato di blasfemia. Lo ha reso noto oggi la polizia.


Una chiesa bruciata nel nord della Nigeria
Secondo le prime ricostruzione, lo studente avrebbe fatto commenti offensivi sul profeta Maometto suscitando la rabbia dei suoi compagni di scuola che lo hanno aggredito. Un passante, di fede musulmana, è intervenuto in sua difesa, portandolo in una stazione di poliza, ma gli aggressori hanno appiccato il fuoco alla casa dell'uomo dove c'erano otto persone. "L'uomo che ha salvato lo studente e la moglie non sono tra le vittime", ha detto un portavoce della polizia.

Le autorità hanno imposto il coprifuoco dal tramonto all'alba nella città di Talata Mafara e la scuola è stata chiusa per scongiurare nuove violenze.

Filippine presidente Duterte minaccia di uscire dall’ONU dopo le critiche alle numerose uccisori sommarie di narcotraficanti

ONU Italia
Manila – Il discusso presidente delle Filippine Rodrigo Duterte ha minacciato un’uscita del paese dalle Nazioni Unite in risposta alle critiche dell’ONU sulle esecuzioni sommarie nei blitz della polizia nell’ambito del programma governativo di lotta al narcotraffico. 

Il presidente delle Filippine Rodrigo Duterte
Nel darne notizia l’agenzia Reuters ricorda che giovedì scorso gli esperti dell’Onu per i diritti umani avevano condannato i metodi delle autorità filippine, esortandole a prevenire le uccisioni indiscriminate e le esecuzioni sommarie dei sospetti trafficanti di droga, contro cui non vengono condotte indagini corrette ed esaustive.

Duterte si era difeso sostenendo che le morti non sono legate alle azioni della polizia e esortando le Nazioni Unite a condurre indagini più approfondite su quello che avviene nelle Filippine.

Il presidente ha criticato l’ONU e i suoi membri, compresi gli Stati Uniti, alleato molto vicino nella regione, sottolineando che le Nazioni Unite non svolgono le proprie funzioni e “si preoccupano delle ossa dei criminali”. “Non voglio offendervi. Ma potremmo essere costretti a separarci dalle Nazioni Unite. Perché dovremmo ascoltare questi sciocchi?”, ha detto in un discorso televisivo.

Duterte ha parlato anche della possibilità di creare un’organizzazione internazionale alternativa, in cui saranno invitati la Cina e altri Paesi.

Il presidente filippino Rodrigo Duterte è l’organizzatore di una campagna su larga scala contro i tossicodipendenti, così come i narcotrafficanti e dal suo insediamento alla presidenza 900 persone legate al mondo della droga sono state uccise. In particolare nelle ultime sei settimane i morti sono stati 650.

Un linguaggio diretto quello di Duterte che, insieme alle politiche sbrigative adottate per la lotta al crimine, è uno degli elementi che l’hanno portato al potere.

Germania - Piloti disobbediscono ai rimpatri forzati dei migranti: 600 casi nel 2016

Il Manifesto
Resistenza alla deportazione. Piccola cronaca della disobbedienza civile di chi si oppone al rimpatrio forzato dei migranti. Oltre 600 casi di obiezione fisica e di coscienza inceppano il piano di espulsioni del governo Merkel.

È la «politica della porta aperta» che consente di uscire dall’aereo all’ultimo minuto; il «Ce la facciamo» opposto a Mutti delle associazioni pro-asilo che cominciano a spiegare ai profughi i trucchi per aggirare i rimpatri. La prova che, come sempre, in Germania non tutti sono disposti a obbedire fino in fondo agli ordini delle autorità. A partire dai piloti dell’aviazione.

Sul sito Deutsche Welle (Dw) sono di pubblico dominio le “spigolature” della resistenza alla macchina delle espulsioni guidata dal ministro dell’interno Thomas De Maizière (Cdu). Nel primo semestre 2016, nonostante gli annunci del giro di vite sulle espulsioni (100 mila entro dicembre è la tabella di marcia del governo) i rimpatri di migranti si sono limitati a 35 mila casi certificati e non tutti andati a buon fine.

Di questi spiccano seicento «abbandonati» perché la polizia non è riuscita a completare la procedura, più che sintomatici dell’inceppo etico-legale alle deportazioni.

La situazione tipica è riassunta nella partenza dell’ultimo volo di ritorno per i profughi pronto all’allineamento sulla pista dell’aeroporto di Lipsia-Halle. «Il passeggero viene scortato da due agenti di polizia a bordo dell’aereo. Qualche minuto prima del decollo insieme ad altri rifugiati si rifiuta di partire, quindi inizia a urlare che non vuole allacciare le cinture di sicurezza. Infine spiega ai piloti che non sta viaggiando sotto la propria volontà» riporta Dw puntualmente, e ufficialmente visto che si tratta di un organo di informazione controllato dal governo. A quel punto il comandante comunica all’ufficiale di polizia che si rifiuta di decollare.

Oltre 330 deportazioni nel 2016 sono fallite perché il personale di volo ha preferito seguire le regole sulla libertà del «passeggero» che il foglio di via al migrante espulso della polizia federale. In 160 casi è intervenuto personalmente il comandante a spiegare che «non avrebbe preso a bordo nessuno se non dopo la conferma della volontà dei passeggeri di far ritorno nel “Paese sicuro” di destinazione».

Spicca il nein di 46 piloti della compagnia di bandiera Lufthansa ma anche di 23 di Air Berlin e di 20 in servizio a Germanwings. Per ben 108 volte sono riusciti a far abortire il take-off dell’aereo affittato dal governo accogliendo il rifiuto “last-minute” dei profughi al rimpatrio.

In maggioranza chi resiste è iracheno, siriano, afghano o somalo ma c’è anche chi ha il passaporto di Eritrea, Gambia, Camerun. A loro il sito w2eu fornisce le dritte per opporsi alla deportazione, una serie di «independent information for refugees» fondamentali per orientarsi nella trincea delle espulsioni: «Di solito basta un sonoro “No” quando si viene fatti sedere nell’aereo. Se non funziona, è utile iniziare gridare, buttarsi sul pavimento dell’aereo o praticare altre forme di disobbedienza passiva».

Succede così a Lipsia come a Francoforte, altro hub da cui partono i voli di ritorno dei profughi, e si può fare anche perché sulla polizia “pesa” il caso di un migrante che nel 1999 morì durante la deportazione. Da allora in Germania le forze dell’ordine hanno l’ordine scritto di «rendere il processo trasparente e in linea con i Diritti umani».

Per questo il numero di rimpatri non segue l’«accelerazione delle espulsioni» chiesta dal governo quanto dall’opposizione di Alternative für Deutschland. Come se non bastasse, in 37 dei casi abbandonati dalla polizia la deportazione non è riuscita perché «il Paese di origine ha rifiutato l’ingresso al connazionale» riporta sempre Dw.

Briciole comunque nel mare di respingimenti che non si ferma. Nonostante i relativamente pochi casi eseguiti, i rimpatri aumentano. Da gennaio a giugno in Germania si è registrato il 50% di “partenze” in più rispetto all’intero 2015. Ai confini della Baviera la polizia di frontiera ha bloccato 13.324 migranti contro gli 8.913 di 12 mesi fa.

Linciaggi, in forte aumento in America latina. In Guatemala 40 ogni anno.

L43 Blog
In America latina aumentano i casi di linciaggio non sono cosa nuova, ma son senz'altro in crescita, specie in Messico - cinquantasei casi nel 2015 - e nel Venezuela travolto dalla crisi. Ove, detto per inciso, si sono registrate ben trentasette morti, tra gennaio e aprile 2016. In ogni caso sono il Guatemala (quaranta morti l'anno, in media) e la Bolivia - forte di trenta linciaggi annuali - le Nazioni in cui la piaga è più radicata: nello Stato centramericano l'usanza avrebbe messo radici durante Guerra civile, che ha insanguinato quel Paese tra il 1960 e il 1996.

Secondo gli esperti, le cause dei linchamiento sono simili, nelle diverse Nazioni dell'Area: scarsa fiducia nelle forze dell'ordine, e nella magistratura, l'inefficienza, la corruzione e la debolezza del potere pubblico in certe zone. Raúl Rodríguez Guillén, docente presso l'Universidad autónoma metropolitana (Uam) di Città del Messico, fa riferimento anche all'esasperazione della società innanzi all'impennata della criminalità; aggiunge che però il farsi giustizia da soli finisce per erodere l'Autorità, e ciò a lungo termine è ben più grave rispetto all'aumento della delinquenza. Roberto Briceño León dell'Observatorio venezolano de violencia (Ovv) riferisce che i due terzi della popolazione locale giustificano i linciaggi, e che la pratica - che «ha un effetto catartico nella società» - ha l'aggravante di colpire a volte degli innocenti, basandosi spesso in rumors e malintesi.