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mercoledì 24 agosto 2016

Bolivia - Fra i migranti climatici di La Paz: “Le nostre Ande muoiono di sete”

La Stampa
La siccità e la desertificazione hanno messo in ginocchio intere regioni del Paese

Un pescatore di etnia Urus nel bacino prosciugato del lago Poopò
«Coltivavamo quinoa e patate. Allevavamo lama. Poi è arrivata la grande siccità e la nostra vita è cambiata». Il mondo stravolto dai cambiamenti climatici ha la faccia cotta dal sole, le braccia nerborute e le mani callose di Nayra. Questa donna di 44 anni, nata e cresciuta a Tarata, un villaggio nel cuore delle Ande della Bolivia, è stata strappata dalla sua terra con il marito e i tre figli. Oggi vende snack e bibite su un rabberciato carretto in una strada di La Paz. «Abbiamo aspettato la pioggia per oltre un anno, poi ci siamo arresi e ce ne siamo andati. Qui mi sento straniera». «Il mio unico sogno - continua Nayra - è tornare a casa, ma so che non succederà».

In Bolivia il cambiamento climatico non è una minaccia su un futuro remoto né una crociata ambientalista. Nel Paese emblema dell’America Latina più povera il surriscaldamento globale è una drammatica realtà che ha già cambiato (in peggio) la vita delle famiglie. Centinaia, forse migliaia ogni mese: nessuna statistica conteggia i profughi climatici boliviani, costretti ad abbandonare le loro terre e a rifugiarsi nelle città. Vivono nelle baracche che spuntano nelle periferie di La Paz, Santa Cruz, Chocabamba. Un popolo di fantasmi. Eugenio è uno di loro: di giorno venditore ambulante, ogni sera torna nel suo tugurio a El Alto. Indaga l’orizzonte con occhi gonfi di nostalgia e rassegnazione: «Pachamama (Madre terra in lingua quechua, ndr.) ci dona la vita, ma ora si vendica per tutto il male che l’uomo sta facendo».

La quinoa che non cresce
Ci sono due Bolivie. A est la natura lussureggiante della giungla amazzonica, descritta da Jonathan Franzen nel romanzo «Purity»: un miracolo di biodiversità tra alberi, fiumi e cascate. A ovest, invece, c’è l’altopiano: deserti, terra brulla e geyser contornati da maestose cime vulcaniche. Questa è la zona del Paese che sta pagando il prezzo più alto per il surriscaldamento globale. «La temperatura registrata nell’ultimo anno è di due gradi sopra la media», quantifica l’ultimo report del governo. L’agricoltura è in ginocchio. «La quinoa è una pianta eccezionale, basta un acquazzone affinché germogli», spiega Rumi Araya, ex minatore, oggi bracciante agricolo. «Il problema è che non piove più». E così anche il cereale di gran moda sulle tavole vegetariane d’Occidente fatica a crescere. Mentre i cespugli scompaiono e gli animali muoiono di fame.

La Paz è un ingorgo di uomini e automobili a 3.600 metri. Osservata dalla catena montuosa della Cordigliera Real, la capitale s’intravede appena, nascosta dalla cappa di particolato che la soffoca. Quassù, fino a qualche anno fa, dominava il ghiacciaio Chacaltaya. Oggi non esiste più. Scomparso. Per sempre. È successo in un decennio. «La cosa più grave è che quasi non ce ne siamo accorti, nessuno ha fatto nulla», denuncia spesso Evo Morales, il presidente cocalero, primo indio a guidare la Bolivia. E così ora su questa montagna brulla restano solo i piloni arrugginiti dello skilift di quella che per decenni fu la stazione sciistica più alta del mondo.

Ecatombe di pesci
L’altro emblema del Paese sconvolto dal clima impazzito è il lago Poopò. Quello che era il secondo bacino della Bolivia, è quasi prosciugato. Fino a tre anni fa misurava circa mille chilometri quadrati. Oggi resta una striminzita pozza d’acqua profonda meno di un metro. Colpa delle siccità permanenti causate dal Niño, dell’inquinamento minerario e dell’uso delle acque affluenti per irrigare le terre. Victor Hugo Vásquez, governatore del dipartimento di Oruro, ha chiesto lo stato di calamità naturale: «Il lago ha avuto i suoi cicli. Ci sono statti anni di piena e altri di siccità momentanea. Ma ormai abbiamo superato il punto di non ritorno». Nel villaggio di Llapallapani raccontano con voce strozzata l’ecatombe: «L’acqua si ritirava, i pesci crepavano. Poi è toccato ai fenicotteri. C’era tanfo di morte ovunque». Centinaia di famiglie sono state costrette ad abbandonare queste terre. C’è chi è finito a faticare nelle miniere di carbone cento chilometri più Sud e chi è andato nelle fabbriche del Salar de Uyuni, la più grande distesa di sale del pianeta sotto cui è custodito un terzo delle riserve di litio della Terra. Anche le anatre sono volate via. «Di giorno scrutavo il cielo e pregavo, la notte piangevo cercando di non farmi vedere dai miei figli», racconta un signore dal viso rotondo e gli occhi arrossati mentre mastica le foglie di coca. «Qui siamo tutti pescatori, senza lago non c’è futuro».

Allarme lagune
Nei paesaggi lunari dell’altopiano andino, la vita di per sé pare un miracolo. Migliaia di turisti, ogni anno, scendono fin qui per ammirare le lagune colorate dalle alghe. Ma anche queste pozze si stanno pericolosamente restringendo. «Ogni anno il livello dell’acqua si abbassa, se va avanti così scompariranno», dice sconsolato Vladimir, guida naturalistica che accompagna stranieri nel tour del Salar. «Io e mio fratello – racconta - lavoravamo nelle miniere di Potosì. Lui è morto in un’esplosione, ha lasciato tre figli. Il giorno dopo mi sono licenziato e me ne sono andato. Ora sento che la mia vista potrebbe cambiare di nuovo, stavolta a causa del clima. Ma vado avanti, non serve avere paura». Riesce ancora a sorridere.


Gabriele Martini

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