L’odissea dei profughi in fuga da uno dei peggiori regimi del mondo. A Roma, nel centro di accoglienza della Croce rossa, l’indagine sui motivi alla base di una migrazione storica
Non basta leggere o studiare, raccogliere interviste o documenti per capire l’Eritrea del XXI secolo, inquadrarla nelle impietose statistiche che ne fanno uno dei peggiori luoghi al mondo dove nascere e vivere o descrivere le follie del suo presidente padrone – Isaias Afewerki – che l’ha ridotta allo stremo.
Bisogna ascoltare le storie di chi, a ritmo di 5mila al mese, fugge da quel Paese maledetto.
Incontrare i fuggitivi nei campi profughi appena al di qua del confine etiope, in attesa di un resettlement, o incrociare gli occhi di quelli che hanno provato a organizzarsi da soli il ricollocamento, mettendosi nelle mani dei trafficanti e raggiungendo – spesso per puro miracolo – la sponda nord del Mediterraneo. «Ti ricordi di quel barcone che era partito da Tripoli con a bordo più di 400 persone e che è arrivato quasi vuoto un po’ di mesi fa? – domanda Samuel, un asmarino di 33 anni appena accolto al presidio umanitario della Croce rossa italiana (Cri) allestito a Roma, zona Tiburtina – Beh, io sono tra i pochissimi a essersi salvato. Ho chiuso gli occhi mentre il mare era in tempesta, quando il barcone era ancora pieno e li ho riaperti a riva».
Probabilmente svenuto per i tanti giorni trascorsi in mare senza nutrirsi, bevendo pochissimo, dormendo ancora meno, cui si è aggiunto il terribile spavento causato dalla tempesta, Samuel ha scoperto di essere ancora vivo tra le braccia di un operatore umanitario che ha tratto in salvo lui e solo altre otto persone dal barcone naufragato. Spiega così il progetto che lui e centinaia intraprendono ogni giorno: «Non si può vivere in Eritrea, manca tutto. Io ero nell’esercito, una paga misera, nessun futuro per la mia famiglia e mai notti tranquille. E poi l’angoscia per i figli che prima o poi dovranno arruolarsi e abbandonare ogni prospettiva futura, il terrore che qualcuno ti denunci alla polizia segreta. Un inferno».
«Io volevo studiare – parla un ottimo inglese Freweini, una ragazza di 24 anni – ma l’unico modo per andare avanti era passare per le scuole gestite dai militari e iniziare l’addestramento. Dopo i primi 12 mesi, mi hanno mandato in caserma e sono stata militare per sei anni, poi non ce l’ho fatta più, ho scelto di scappare per Senai», indica un bimbo di appena un anno e mezzo. Con lui in braccio è passata per il Sudan, il deserto del Sahara, l’Egitto «meno pericoloso della Libia» e ha attraversato il mare. Nel passaggio tra una barca e l’altra, «il bambino mi è sfuggito mentre procedevo con l’acqua fino al collo e per un attimo ho pensato di averlo perso».
Gli eritrei, in realtà, sono abituati a resistere e vincere. Ancora parte dell’Etiopia, hanno offerto un decisivo contributo nella guerra che ha condotto alla cacciata del dittatore Mengistu Haile Mariam e del suo Derg (1991). Fin dagli anni ’60 hanno combattuto per affrancarsi dall’annessione operata dall’Etiopia e conquistato, nel 1993, la totale indipendenza. Ma la guerra decisiva, quella per la libertà e lo sviluppo, questo popolo la sta inesorabilmente perdendo.
«Nel nostro centro – spiega Lino Posteraro, responsabile attività sociali della Cri di Roma – accogliamo soprattutto eritrei. Hanno tutti storie molto pesanti sia per quanto riguarda la vita nel loro paese che relative al viaggio. Ufficialmente dovrebbero essere ricollocati in qualche paese europeo così come stabilito dalla Ue, ma le operazioni di resettlement riuscite, fino a ora, sono pochissime. E allora attendono qui da noi, senza chiedere asilo, perché sperano di lasciare al più presto l’Italia per raggiungere loro parenti o conoscenti nel nord Europa».
A complicare le cose, ci si mette il noto regolamento di Dublino, che costringe i migranti a presentare domanda di asilo nel primo paese di approdo. Pochi di quelli incontrati vogliono fermarsi in Italia. Ma, come dimostra la vicenda di Como di questi giorni (gruppi di eritrei accampati nei pressi della stazione nella speranza di varcare il confine con la Svizzera e proseguire il loro viaggio, ndr), molti rischiano di rimanere incagliati nella burocrazia e l’incapacità di accoglienza europee. «Si corre così il pericolo concreto di creare delle zone grigie dei diritti – denuncia in una nota padre Camillo Ripamonti, presidente del Centro Astalli - in cui, nell’attesa di riuscire a continuare il viaggio, i migranti non chiedono asilo e non usufruiscono dei servizi di prima accoglienza, aspettando in condizioni precarie che qualcosa accada. È indispensabile introdurre un “Sistema Comune d’Asilo Europeo” e meccanismi di condivisione di responsabilità a livello europeo basati su una distribuzione proporzionale delle richieste di asilo».
Così come ragionare globalmente su questo fenomeno che ormai riguarda un numero sempre crescente di individui nel pianeta. Per l’Unhcr, infatti, nel 2015 sono stati oltre 65 milioni i migranti forzati nel mondo, una cifra che fa impallidire quella raggiunta durante la II guerra mondiale (50 milioni). «Appena passato il confine sono finito nel campo profughi di Hitsats – racconta il giovanissimo Nurhssien, 19 anni appena compiuti – ma dopo due settimane sono scappato: ti danno 15 kg di cereali e dormi sotto una tenda con altre persone. Ero solo, ho provato a fare amicizia, ma è tutto difficile. Allora ho preso contatto con un trafficante, sono fuggito di notte e, dopo aver lavorato un po’ in Etiopia, ho pagato (in tutto, compreso il tratto dall’Eritrea, 6.000 dollari, ndr) e sono arrivato in Sicilia qualche giorno fa».
Luca Attanasio
Probabilmente svenuto per i tanti giorni trascorsi in mare senza nutrirsi, bevendo pochissimo, dormendo ancora meno, cui si è aggiunto il terribile spavento causato dalla tempesta, Samuel ha scoperto di essere ancora vivo tra le braccia di un operatore umanitario che ha tratto in salvo lui e solo altre otto persone dal barcone naufragato. Spiega così il progetto che lui e centinaia intraprendono ogni giorno: «Non si può vivere in Eritrea, manca tutto. Io ero nell’esercito, una paga misera, nessun futuro per la mia famiglia e mai notti tranquille. E poi l’angoscia per i figli che prima o poi dovranno arruolarsi e abbandonare ogni prospettiva futura, il terrore che qualcuno ti denunci alla polizia segreta. Un inferno».
«Io volevo studiare – parla un ottimo inglese Freweini, una ragazza di 24 anni – ma l’unico modo per andare avanti era passare per le scuole gestite dai militari e iniziare l’addestramento. Dopo i primi 12 mesi, mi hanno mandato in caserma e sono stata militare per sei anni, poi non ce l’ho fatta più, ho scelto di scappare per Senai», indica un bimbo di appena un anno e mezzo. Con lui in braccio è passata per il Sudan, il deserto del Sahara, l’Egitto «meno pericoloso della Libia» e ha attraversato il mare. Nel passaggio tra una barca e l’altra, «il bambino mi è sfuggito mentre procedevo con l’acqua fino al collo e per un attimo ho pensato di averlo perso».
Gli eritrei, in realtà, sono abituati a resistere e vincere. Ancora parte dell’Etiopia, hanno offerto un decisivo contributo nella guerra che ha condotto alla cacciata del dittatore Mengistu Haile Mariam e del suo Derg (1991). Fin dagli anni ’60 hanno combattuto per affrancarsi dall’annessione operata dall’Etiopia e conquistato, nel 1993, la totale indipendenza. Ma la guerra decisiva, quella per la libertà e lo sviluppo, questo popolo la sta inesorabilmente perdendo.
«Nel nostro centro – spiega Lino Posteraro, responsabile attività sociali della Cri di Roma – accogliamo soprattutto eritrei. Hanno tutti storie molto pesanti sia per quanto riguarda la vita nel loro paese che relative al viaggio. Ufficialmente dovrebbero essere ricollocati in qualche paese europeo così come stabilito dalla Ue, ma le operazioni di resettlement riuscite, fino a ora, sono pochissime. E allora attendono qui da noi, senza chiedere asilo, perché sperano di lasciare al più presto l’Italia per raggiungere loro parenti o conoscenti nel nord Europa».
A complicare le cose, ci si mette il noto regolamento di Dublino, che costringe i migranti a presentare domanda di asilo nel primo paese di approdo. Pochi di quelli incontrati vogliono fermarsi in Italia. Ma, come dimostra la vicenda di Como di questi giorni (gruppi di eritrei accampati nei pressi della stazione nella speranza di varcare il confine con la Svizzera e proseguire il loro viaggio, ndr), molti rischiano di rimanere incagliati nella burocrazia e l’incapacità di accoglienza europee. «Si corre così il pericolo concreto di creare delle zone grigie dei diritti – denuncia in una nota padre Camillo Ripamonti, presidente del Centro Astalli - in cui, nell’attesa di riuscire a continuare il viaggio, i migranti non chiedono asilo e non usufruiscono dei servizi di prima accoglienza, aspettando in condizioni precarie che qualcosa accada. È indispensabile introdurre un “Sistema Comune d’Asilo Europeo” e meccanismi di condivisione di responsabilità a livello europeo basati su una distribuzione proporzionale delle richieste di asilo».
Così come ragionare globalmente su questo fenomeno che ormai riguarda un numero sempre crescente di individui nel pianeta. Per l’Unhcr, infatti, nel 2015 sono stati oltre 65 milioni i migranti forzati nel mondo, una cifra che fa impallidire quella raggiunta durante la II guerra mondiale (50 milioni). «Appena passato il confine sono finito nel campo profughi di Hitsats – racconta il giovanissimo Nurhssien, 19 anni appena compiuti – ma dopo due settimane sono scappato: ti danno 15 kg di cereali e dormi sotto una tenda con altre persone. Ero solo, ho provato a fare amicizia, ma è tutto difficile. Allora ho preso contatto con un trafficante, sono fuggito di notte e, dopo aver lavorato un po’ in Etiopia, ho pagato (in tutto, compreso il tratto dall’Eritrea, 6.000 dollari, ndr) e sono arrivato in Sicilia qualche giorno fa».
Luca Attanasio
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