Ad Aleppo, come in tutta la Siria, siamo davanti a una tragedia senza fine, una "terra spezzata" per usare l'espressione di Scott Anderson. Mentre l'impotenza sembra la cifra della comunità internazionale e della politica, la gente muore e il paese si svuota.
Ma l'impotenza sembra parola troppo ambigua: in verità non si è voluto fare, almeno fino a qui. Alcuni vogliono questa guerra, o almeno l'hanno voluta, forze siriane e soprattutto non siriane. Credono che sia possibile vincere e combattono, o fanno combattere. Altri sono rimasti alla larga dai combattimenti sul terreno ma bombardano dall'aria, si sono schierati, hanno preso partito. Il male della guerra di Siria è ancora oggi questo: ci si schiera.
C'è dunque urgente bisogno di una terza parte, di chi non si schieri e faccia sentire la sua voce perché si arrivi a un ragionevole compromesso. Per questo serve la proposta di Steinmeier, servono gli appelli come quello drammatico di Federica Mogherini o il blocco degli aiuti deciso dal mediatore Onu De Mistrura, serve la mobilitazione sui media: è un modo di dire che esiste una parte che non si schiera e che vuole una soluzione.
Certamente, dopo tutti questi anni di guerra, tutto è molto difficile: sembra che le voci di pace siano troppo deboli. Ma la complicatezza del conflitto e le oscurità dei suoi protagonisti sul terreno, non possono essere una scusa per non occuparsene, per non parlare. Lo sappiamo da sempre, certamente dalla Seconda guerra mondiale: il silenzio contribuisce a uccidere. Quanti massacri si sono compiuti nel silenzio, che diviene complice, dei tanti che pensavano non ci fosse nulla da fare perché era troppo difficile? L'impotenza sembra dire che non c'è nulla da fare, ma non è esatto: qualcosa da fare c'è sempre. Non si può cedere all'intimidazione del silenzio. La Siria non può più aspettare. Anzi: la Siria ha diritto alla nostra fretta e alle nostre voci. Ben vengano allora finalmente appelli e proposte: ce ne vorrebbero di più, ci vorrebbe più coinvolgimento per la Siria.
Non può essere che le nostre società e la nostra politica si agitino solo quando vengono toccate direttamente, soltanto per questioni interne. Che tutto il resto possa sempre attendere. Si tratta di un modo miope di concepire il presente e cieco di intendere il futuro. La guerra di Siria non è un accadimento lontano ma ci tocca da vicino. Cambia gli equilibri del Medio Oriente le cui conseguenze si spingono fino alla vicinissima Libia. Manda in crisi la nostra concezione di democrazia, diritti e convivenza. Mette a repentaglio la pace nel Mediterraneo. Crea una piaga incurabile, simile a quella del conflitto palestinese. Mina la convivenza difficile. Produce mostri di estremismo sempre peggiori, di cui le diramazioni giungono anche nelle nostre città. Nessuno può assicurarci che, se la guerra va avanti, non nasceranno mostri peggiori dell'Isis.
Più di ogni altra cosa, il conflitto siriano sta diventando il simbolo di tutti i nostri difetti: paura, voltarsi dall'altra parte, attendismo, silenzio. Ci sono guerre impossibili, quelle che gli esperti chiamano "intractable conflicts". Tuttavia il fatto che non vi sia una soluzione politica a breve, non significa che non si possa ragionevolmente far qualcosa. Si può da subito rendere operativo un piano di difesa della vita dei profughi e delle minoranze (non bastano i campi profughi). Si può istituire alcune zone di tregua (come chiesto nell'appello di un anno fa per Aleppo da Andrea Riccardi, fondatore di Sant'Egidio, il primo a parlare). Si può convocare (soprattutto ora) una conferenza internazionale che coinvolga tutti gli attori, senza esclusione, come l'Italia - che non si è mai schierata - ha chiesto da subito, in tempi in cui nessuno nella UE e in Occidente era pronto ad accettarlo: con la presenza di Iran e Russia al tavolo negoziale. Una conferenza di questo tipo si può convocare e certamente avrebbe l'effetto di abbassare l'intensità dei combattimenti e forse di imporre una tregua. Cose da fare con urgenza perché la Siria ha diritto a tutta la nostra attenzione, alla nostra fretta, ai nostri appelli, alle nostre voci.
C'è dunque urgente bisogno di una terza parte, di chi non si schieri e faccia sentire la sua voce perché si arrivi a un ragionevole compromesso. Per questo serve la proposta di Steinmeier, servono gli appelli come quello drammatico di Federica Mogherini o il blocco degli aiuti deciso dal mediatore Onu De Mistrura, serve la mobilitazione sui media: è un modo di dire che esiste una parte che non si schiera e che vuole una soluzione.
Certamente, dopo tutti questi anni di guerra, tutto è molto difficile: sembra che le voci di pace siano troppo deboli. Ma la complicatezza del conflitto e le oscurità dei suoi protagonisti sul terreno, non possono essere una scusa per non occuparsene, per non parlare. Lo sappiamo da sempre, certamente dalla Seconda guerra mondiale: il silenzio contribuisce a uccidere. Quanti massacri si sono compiuti nel silenzio, che diviene complice, dei tanti che pensavano non ci fosse nulla da fare perché era troppo difficile? L'impotenza sembra dire che non c'è nulla da fare, ma non è esatto: qualcosa da fare c'è sempre. Non si può cedere all'intimidazione del silenzio. La Siria non può più aspettare. Anzi: la Siria ha diritto alla nostra fretta e alle nostre voci. Ben vengano allora finalmente appelli e proposte: ce ne vorrebbero di più, ci vorrebbe più coinvolgimento per la Siria.
Non può essere che le nostre società e la nostra politica si agitino solo quando vengono toccate direttamente, soltanto per questioni interne. Che tutto il resto possa sempre attendere. Si tratta di un modo miope di concepire il presente e cieco di intendere il futuro. La guerra di Siria non è un accadimento lontano ma ci tocca da vicino. Cambia gli equilibri del Medio Oriente le cui conseguenze si spingono fino alla vicinissima Libia. Manda in crisi la nostra concezione di democrazia, diritti e convivenza. Mette a repentaglio la pace nel Mediterraneo. Crea una piaga incurabile, simile a quella del conflitto palestinese. Mina la convivenza difficile. Produce mostri di estremismo sempre peggiori, di cui le diramazioni giungono anche nelle nostre città. Nessuno può assicurarci che, se la guerra va avanti, non nasceranno mostri peggiori dell'Isis.
Più di ogni altra cosa, il conflitto siriano sta diventando il simbolo di tutti i nostri difetti: paura, voltarsi dall'altra parte, attendismo, silenzio. Ci sono guerre impossibili, quelle che gli esperti chiamano "intractable conflicts". Tuttavia il fatto che non vi sia una soluzione politica a breve, non significa che non si possa ragionevolmente far qualcosa. Si può da subito rendere operativo un piano di difesa della vita dei profughi e delle minoranze (non bastano i campi profughi). Si può istituire alcune zone di tregua (come chiesto nell'appello di un anno fa per Aleppo da Andrea Riccardi, fondatore di Sant'Egidio, il primo a parlare). Si può convocare (soprattutto ora) una conferenza internazionale che coinvolga tutti gli attori, senza esclusione, come l'Italia - che non si è mai schierata - ha chiesto da subito, in tempi in cui nessuno nella UE e in Occidente era pronto ad accettarlo: con la presenza di Iran e Russia al tavolo negoziale. Una conferenza di questo tipo si può convocare e certamente avrebbe l'effetto di abbassare l'intensità dei combattimenti e forse di imporre una tregua. Cose da fare con urgenza perché la Siria ha diritto a tutta la nostra attenzione, alla nostra fretta, ai nostri appelli, alle nostre voci.
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