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sabato 3 settembre 2016

Aylan, un anno dopo non è cambiato nulla. Mediterraneo 3.167 morti solo nel 2016

Famiglia Cristiana
Il 2 settembre 2015 l'immagine di Aylan Kurdi, il bambino annegato ritrovato sulla spiaggia turca di Bodrum, provocava commozione e sdegno. Ma da allora le coste sono costellate da troppi Aylan. Solo nel 2016 sono morte 3.167 persone nel tentativo di attraversare il Mediterraneo. Dalla strage di Lampedusa del 3 ottobre 2013, il numero è arrivato a 11.112, l’ equivalente di una piccola città.
Un anno fa, il 2 settembre 2015, la foto del bambino annegato ritrovato sulla spiaggia turca di Bodrum faceva il giro del pianeta, provocando commozione e sdegno. Ci si affrettò a ricostruire la sua storia: si chiamava Aylan Kurdi, aveva 3 anni, era un curdo di Kobane, la città simbolo della resistenza in Siria all’ Isis. Era morto insieme al fratellino Galip, 5 anni, alla madre Rehan, e ad altre nove persone mentre la barca con la quale cercavano di arrivare in Grecia era affondata vicino all’ isola di Kos. Aylan non doveva morire così. Ma, in fondo, era purtroppo uno tra tanti: dal 2000 al 2015 erano stati almeno 25mila i morti nel Cimitero Mediterraneo.

Eppure, la foto sulla spiaggia di Bodrum provocò una forte emozione, che per un momento interruppe anche il flusso di stoltezze aggressive e razziste dei populisti dei vari paesi. Un silenzio rispettoso, un'esitazione, come quello dei monatti manzoniani davanti alla bambina Cecilia morta di peste nei Promessi sposi. Dobbiamo a Primo Levi l’ aver teorizzato la nostra incapacità di «pietà per molti», quando ad Auschwitz narra della squadra addetta alle camere a gas, abituata a dare la morte a migliaia di persone ogni giorno, che si trova ad un tratto a voler salvare una sola ragazza miracolosamente scampata al gas. Ai monatti, alla Squadra speciale e a tutti noi, spiegava, «non resta, nel migliore dei casi, che la pietà saltuaria indirizzata al singolo».

Quella foto scosse, almeno in parte, la coscienza europea, invitando a non rimanere voyeurs senza vergogna. Austria e Germania aprirono le frontiere ai profughi bloccati in Ungheria, accolti da centinaia di volontari che portavano cibo, bevande e giocattoli per i nuovi arrivati. In Inghilterra, nelle ore in cui la foto diventava virale, ci fu un’ impennata delle donazioni alle ong che aiutano i profughi, mentre il presidente italiano Sergio Mattarella chiese di «aprire ai migranti come si fece con l’ Est». Durò poco: tornarono le foto dei muri, fili spinati, cani della polizia. In mezzo, lo scorso marzo, ci fu anche l’ accordo tra l’ Ue ed Erdogan: tre miliardi di euro e liberalizzazione dei visti turistici in cambio di appaltare il lavoro sporco ai turchi, pratica già sperimentata in passato con la Libia di Ghedaffi.

A un anno di distanza, le coste del Mediterraneo sono costellate da troppi Aylan. Secondo l’ Alto Commissariato Onu per i Rifugiati, finora, solo nel 2016 sono morte 3167 persone nel tentativo di attraversare il Mediterraneo (erano 1850 nei primi sei mesi del 2015). Dalla strage di Lampedusa del 3 ottobre 2013, il numero è arrivato a 11.112, l’ equivalente di una piccola città. Tra i dispersi, non mancano i corpi dei neonati finiti mangiati dai pesci e corrosi dal sale. Intanto, i leader del mondo continuano a non dare risposte alla crisi dei rifugiati, che nel pianeta hanno superato i 60 milioni: dalla Seconda guerra mondiale non era mai stata raggiunta una cifra così alta. A luglio, i negoziati preparatori del vertice delle Nazioni Unite sui rifugiati del 19 settembre hanno rinviato al 2018 l’ esame della proposta del segretario generale Ban Ki-moon di un “Global compact sulla condivisione delle responsabilità sui rifugiati”.

Il 2018 è tra due anni: evidentemente c’ è tempo. «Tra pochi giorni rischiamo di assistere a un altro conclave di leader mondiali che terminerà con dichiarazioni ipocrite mentre altri bambini resteranno a soffrire», è la triste previsione di Salil Shetty, segretario generale di Amnesty International. Proprio in questi giorni, un’ altra foto ha commosso il mondo. Quella di Omran, 5 anni, divenuto il simbolo della tragedia siriana (siamo al sesto anno del conflitto) e di Aleppo, una città assediata che nel suo silenzio di morte accusa il mondo distratto. Il bambino, estratto ancora vivo dalle macerie di un palazzo, è seduto in un’ ambulanza. Ha lo sguardo ancora intontito, senza più la forza per piangere, l’ occhio sinistro mezzo chiuso dal sangue, la maglietta stropicciata con stampato sopra CatDog, il personaggio dei cartoni animati.

Il fratellino di Omran è invece morto, anche lui colpito da un “barile bomba”, le botti riempite di tritolo e pezzi di metallo per diventare ancora più mortali. Proiettili imprecisi che uccidono soprattutto civili, lasciati cadere sulle case, su tutto quello che c’ è sotto all’ elicottero o all’ aereo. Infine, a un anno dalla morte di Aylan, c’ è un’ altra immagine che va ricordata. Quella del 4 febbraio di Falak, una bimba malata di tumore all’ occhio che ha sette anni e viene da Homs, un’ altra delle città martiri siriane. Atterra con un volo Alitalia a Fiumicino: la sua famiglia è la prima dei mille profughi che arriveranno in Italia, in modo sicuro e legale, grazie al progetto dei corridoi umanitari, realizzato dalla Comunità di Sant’ Egidioinsieme alle Chiese evangeliche, alla Tavola valdese e al Governo italiano. Ai mille vanno poi aggiunti i dodici siriani, fatti salire il 16 aprile da Papa Francesco sul suo volo di ritorno dopo la visita all’ isola greca di Lesbo, che oggi sono ospiti a Roma in una struttura di Sant’ Egidio.

Ecco, è proprio qui il punto: Aylan è affogato perché non aveva altre vie per fuggire alla guerra che distruggeva la sua città. O meglio, le alternative ci sarebbero, come i corridoi umanitari – che sarebbero più sicuri, meno costosi, legali, e non finanzierebbero i trafficanti – ma si preferisce non praticarle. Dal Canada, Teema Kurdi, zia di Aylan, spiegò nelle ore successive alla morte del nipote: «Stavo cercando di fare loro da garante per il visto, e per questo amici e vicini di casa mi stavano aiutando con il deposito in banca, ma non siamo riusciti a farli venire qui. Ecco perché hanno preso una barca».

Stefano Pasta

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