L’esercito prestava soccorso agli asili-deposito. Il ministro: pensate ai nostri anziani
La divisa verde militare che i genitori hanno seppellito nel deserto prima di scappare non rappresenta per questi bambini il colore dell’oppressione. Vedevano i giovani soldati entrare dai cancelli di ferro altrimenti chiusi tutto il giorno, sapevano che il loro arrivo portava in dono risate, attenzione e una gita al parco.
Ogni alba i padri e le madri eritrei lasciano i piccoli in uno degli 80 appartamenti sparsi nel sud di Tel Aviv, due stanze che i gestori nigeriani chiamano asili nido e da queste parti tutti conoscono come i «depositi». I bimbi con meno di sei anni — sono 3 mila, nati in Israele — ci restano per 10-12 ore, qualcuno anche la notte se i turni da sguatteri tengono lontani i genitori più a lungo. «Sono ammucchiati in 50-60, lasciati stesi sul pavimento, non ci sono finestre, d’estate la temperatura raggiunge i 35-40 gradi. Non è neppure colpa di chi li amministra: è miseria che genera miseria», racconta Anat Mordechai mentre distribuisce i giocattoli che ha portato.
È una volontaria dell’organizzazione Elifelet, che cerca di migliorare le condizioni malsane dei «depositi», dove 15 bambini sono morti dal 2012. Per Anat e gli altri un grande sostegno è arrivato dalle reclute che i comandanti delle basi qua attorno mandavano a prendersi cura dei piccoli per qualche ora. L’esercito israeliano considera questi servizi tra la popolazione parte dell’educazione nei tre anni (due per le donne) di leva obbligatoria. Al punto che gli asili semiclandestini sono stati visitati anche da soldati del Sayeret Matkal, una delle unità speciali più decorate e prestigiose del Paese.
«Adesso siamo rimasti soli», dice Anat. Perché poche settimane fa Avigdor Lieberman ha telefonato a Gadi Eisenkot, il capo di Stato Maggiore, e da ministro della Difesa appena incaricato gli ha comunicato che quei turni di generosità dovevano finire: «Se i soldati hanno del tempo libero, aiutino gli anziani sopravvissuti all’Olocausto o i bisognosi israeliani. La carità dovrebbe cominciare dai compatrioti».
L’oltranzista e nazionalista Lieberman ha reagito alla foto pubblicata su Facebook da May Golan, attivista di destra con ambizioni da deputata che ha fondato l’associazione Città Ebraica e vuole «ripulire» Tel Aviv dagli «infiltrati», come la legge israeliana chiama i rifugiati eritrei o sudanesi. «Mi sono sentita tradita dall’esercito — ha scritto —. Così gli ufficiali sembrano timbrare il visto di approvazione: potete rimanere».
Gli «infiltrati» non vorrebbero rimanere e non ne arrivano più dal 2010, da quando il premier Benjamin Netanyahu ha dato ordine di costruire la barriera al confine con l’Egitto. Gli eritrei venivano contrabbandati dai beduini — per loro una merce come un’altra assieme alla droga — attraverso la penisola del Sinai, marce forzate senz’acqua e senza cibo per fuggire dalla dittatura che ad Asmara li costringe a prestare il servizio militare senza data di scadenza. L’Eritrea non è in guerra ma il presidente Isaias Afwerki sfrutta la propaganda di un altro possibile conflitto con l’Etiopia per schiavizzare attraverso la divisa l’intera popolazione.
In Israele sono rimasti bloccati quasi 33 mila eritrei, in 10 mila hanno richiesto asilo, lo status e i documenti riconosciuti dalle Nazioni Unite permetterebbero loro di andarsene in un altro Paese. Stanno ancora aspettando. «Questo Stato è stato anche fondato come rifugio per gli ebrei contro la violenza antisemita — scrive il quotidiano conservatore Jerusalem Post —. Così noi dobbiamo aiutare chi scappa dalle persecuzioni. Lasciate che i soldati vadano da quei bambini». È quello che proclama in pubblico il presidente Reuven Rivlin ed è quello che sussurra Anat: «I miei nonni hanno attraversato la stessa sciagura negli anni Quaranta. Come possiamo dimenticarlo quando sono gli altri a soffrire?».
Davide Frattini
Ogni alba i padri e le madri eritrei lasciano i piccoli in uno degli 80 appartamenti sparsi nel sud di Tel Aviv, due stanze che i gestori nigeriani chiamano asili nido e da queste parti tutti conoscono come i «depositi». I bimbi con meno di sei anni — sono 3 mila, nati in Israele — ci restano per 10-12 ore, qualcuno anche la notte se i turni da sguatteri tengono lontani i genitori più a lungo. «Sono ammucchiati in 50-60, lasciati stesi sul pavimento, non ci sono finestre, d’estate la temperatura raggiunge i 35-40 gradi. Non è neppure colpa di chi li amministra: è miseria che genera miseria», racconta Anat Mordechai mentre distribuisce i giocattoli che ha portato.
È una volontaria dell’organizzazione Elifelet, che cerca di migliorare le condizioni malsane dei «depositi», dove 15 bambini sono morti dal 2012. Per Anat e gli altri un grande sostegno è arrivato dalle reclute che i comandanti delle basi qua attorno mandavano a prendersi cura dei piccoli per qualche ora. L’esercito israeliano considera questi servizi tra la popolazione parte dell’educazione nei tre anni (due per le donne) di leva obbligatoria. Al punto che gli asili semiclandestini sono stati visitati anche da soldati del Sayeret Matkal, una delle unità speciali più decorate e prestigiose del Paese.
«Adesso siamo rimasti soli», dice Anat. Perché poche settimane fa Avigdor Lieberman ha telefonato a Gadi Eisenkot, il capo di Stato Maggiore, e da ministro della Difesa appena incaricato gli ha comunicato che quei turni di generosità dovevano finire: «Se i soldati hanno del tempo libero, aiutino gli anziani sopravvissuti all’Olocausto o i bisognosi israeliani. La carità dovrebbe cominciare dai compatrioti».
L’oltranzista e nazionalista Lieberman ha reagito alla foto pubblicata su Facebook da May Golan, attivista di destra con ambizioni da deputata che ha fondato l’associazione Città Ebraica e vuole «ripulire» Tel Aviv dagli «infiltrati», come la legge israeliana chiama i rifugiati eritrei o sudanesi. «Mi sono sentita tradita dall’esercito — ha scritto —. Così gli ufficiali sembrano timbrare il visto di approvazione: potete rimanere».
Gli «infiltrati» non vorrebbero rimanere e non ne arrivano più dal 2010, da quando il premier Benjamin Netanyahu ha dato ordine di costruire la barriera al confine con l’Egitto. Gli eritrei venivano contrabbandati dai beduini — per loro una merce come un’altra assieme alla droga — attraverso la penisola del Sinai, marce forzate senz’acqua e senza cibo per fuggire dalla dittatura che ad Asmara li costringe a prestare il servizio militare senza data di scadenza. L’Eritrea non è in guerra ma il presidente Isaias Afwerki sfrutta la propaganda di un altro possibile conflitto con l’Etiopia per schiavizzare attraverso la divisa l’intera popolazione.
In Israele sono rimasti bloccati quasi 33 mila eritrei, in 10 mila hanno richiesto asilo, lo status e i documenti riconosciuti dalle Nazioni Unite permetterebbero loro di andarsene in un altro Paese. Stanno ancora aspettando. «Questo Stato è stato anche fondato come rifugio per gli ebrei contro la violenza antisemita — scrive il quotidiano conservatore Jerusalem Post —. Così noi dobbiamo aiutare chi scappa dalle persecuzioni. Lasciate che i soldati vadano da quei bambini». È quello che proclama in pubblico il presidente Reuven Rivlin ed è quello che sussurra Anat: «I miei nonni hanno attraversato la stessa sciagura negli anni Quaranta. Come possiamo dimenticarlo quando sono gli altri a soffrire?».
Davide Frattini
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