Nonostante la tregua regga, le Nazioni Unite non sono riuscite a trasferire aiuti umanitari in Siria per ragioni di sicurezza. "Non vi sono notizie di convogli Onu in movimento, ha detto l'inviato Staffan de Mistura, aggiungendo di aver chiesto "rassicurazioni sul fatto che sia autisti he veicoli non vengano toccati".
Le giostre davanti ai cimiteri sono piene di bambini vestiti a festa. Non si combatte per le strade del centro di Aleppo. Nonostante la tregua entrata in vigore lunedì scorso sia stata violata ripetutamente, ieri in città si è festeggiato il secondo giorno dell’Eid al-Adha, la festa del sacrificio, in un clima relativamente sereno.
Per i musulmani si tratta di una festa tanto importante quanto il Natale per i cristiani. Nella tradizione siriana, oltre allo scambio dei doni e alle visite a casa dei parenti, ogni famiglia dedica un po’ del suo tempo per andare a trovare i propri defunti.
«Di solito si andava nel grande cimitero nella parte orientale della città – racconta Abu Omar raggiunto al telefono nel quartiere di Halab Jdide (Nuova Aleppo) sotto controllo del regime – ma ora sono sorti tanti piccoli cimiteri in ogni quartiere, per evitare i posti di blocco». Dal 2012 a oggi sono stati predisposti decine di cimiteri illegali, soprattutto nelle aree colpite dai bombardamenti e quindi rase la suolo.
Nella parte occidentale della città, ci ricorda Abu Omar con piglio ironico, «capita ancora di morire di vecchiaia o di malattia». Si muore ma si nasce anche ad Aleppo, ancora piena di bambini desiderosi di giocare. Sono scesi in strada ieri come se fosse un Eid normale, in cui si mangia lo zucchero filato e si fa la fila per andare in groppa a un somarello. I giostrai hanno posizionato le altalene e i caroselli davanti ai cimiteri, così da intrattenere i ragazzini mentre i grandi pregano tra le tombe e raccontano ai propri cari dell’ennesimo Eid di guerra, dell’ennesima finta tregua che serve solo a raccogliere le forze per ricominciare a combattere con più efferatezza di prima. «Non si sa quando finirà la guerra – sospira la moglie di Abu Omar – ma di una cosa siamo sicuri: ci vorranno almeno cento anni per far tornare Aleppo come era prima».
Per i musulmani si tratta di una festa tanto importante quanto il Natale per i cristiani. Nella tradizione siriana, oltre allo scambio dei doni e alle visite a casa dei parenti, ogni famiglia dedica un po’ del suo tempo per andare a trovare i propri defunti.
«Di solito si andava nel grande cimitero nella parte orientale della città – racconta Abu Omar raggiunto al telefono nel quartiere di Halab Jdide (Nuova Aleppo) sotto controllo del regime – ma ora sono sorti tanti piccoli cimiteri in ogni quartiere, per evitare i posti di blocco». Dal 2012 a oggi sono stati predisposti decine di cimiteri illegali, soprattutto nelle aree colpite dai bombardamenti e quindi rase la suolo.
Nella parte occidentale della città, ci ricorda Abu Omar con piglio ironico, «capita ancora di morire di vecchiaia o di malattia». Si muore ma si nasce anche ad Aleppo, ancora piena di bambini desiderosi di giocare. Sono scesi in strada ieri come se fosse un Eid normale, in cui si mangia lo zucchero filato e si fa la fila per andare in groppa a un somarello. I giostrai hanno posizionato le altalene e i caroselli davanti ai cimiteri, così da intrattenere i ragazzini mentre i grandi pregano tra le tombe e raccontano ai propri cari dell’ennesimo Eid di guerra, dell’ennesima finta tregua che serve solo a raccogliere le forze per ricominciare a combattere con più efferatezza di prima. «Non si sa quando finirà la guerra – sospira la moglie di Abu Omar – ma di una cosa siamo sicuri: ci vorranno almeno cento anni per far tornare Aleppo come era prima».
La donna si lamenta delle ristrettezze economiche, dell’impossibilità di fare donazioni per i poveri, un obbligo dell’Eid, dell’insicurezza per le strade. «Nel nostro quartiere si sta meglio che altrove – ammette – ma la presenza di tutti questi uomini stranieri mi mette paura». Il riferimento è ai cosiddetti shabbiaha, ovvero le milizie paramilitari del regime di Assad, composte di mercenari sciiti provenienti da Libano, Afghanistan e Iran. Per la moglie di Abu Omar sono una presenza inquietante per le strade: «Non capisco cosa dicono, sono spesso ubriachi e prendono dalla gente tutto quello che vogliono». Non si vive meglio dall’altra parte della città, a Est, dove i soprusi sulla popolazione civile vengono compiuti dai gruppi islamisti che gestiscono l’entrata dei pochi beni di prima necessità durante i lunghi periodi di assedio.
«A noi questo cessate il fuoco non ha portato alcun beneficio – lamenta un abitante della parte della Est della città – Non abbiamo ricevuto cibo, acqua, verdure, benzina, diesel, vestiti, niente di niente». Il gasolio è la preziosa materia che manda avanti i generatori di corrente, ovvero l’unica fonte di elettricità. «Croce Rossa? Caschi blu dell’Onu? Qui non si è visto nessuno», esclama l’uomo, rassegnato. «Io sono un civile – spiega – non è colpa mia se abito qui. Non ho potuto comprare giocattoli ai miei figli quest’anno. Per quanto mi riguarda è il peggior Eid della mia vita».
In effetti è stata perentoria la posizione delle Nazioni Unite: niente convogli finché non verranno garantite le condizioni di sicurezza. La tregua è stata violata in più località siriane, gli elicotteri militari continuano a sorvolare Aleppo, in alcune zone si odono spari, come testimonia Abdulrahman, soldato regolare di stanza nella base militare di Al-Amrya, nel sud Est di Aleppo. «I ribelli sono riusciti ad abbattere un palazzo a colpi di bazooka – spiega – i cecchini sono sempre in agguato da una parte e dell’altra».
Gli spari fanno da sottofondo alla nostra conversazione telefonica via Whatsapp, alle cinque del pomeriggio di ieri. D’altronde lo aveva preannunciato anche il segretario di Stato americano John Kerry che ci sarebbero stati sporadici combattimenti, «qui e lì». Ed è stato chiaro anche che il gruppo jihadista Fatah al-Sham (ex Jabat al-Nusra), non avrebbe rispettato la tregua, definita «un complotto russo- americano contro il popolo siriano ». Ma per parlare di un vero e proprio fallimento del cessate del fuoco è troppo presto. Le armi dovrebbero tacere per altri cinque lunghissimi giorni.
«A noi questo cessate il fuoco non ha portato alcun beneficio – lamenta un abitante della parte della Est della città – Non abbiamo ricevuto cibo, acqua, verdure, benzina, diesel, vestiti, niente di niente». Il gasolio è la preziosa materia che manda avanti i generatori di corrente, ovvero l’unica fonte di elettricità. «Croce Rossa? Caschi blu dell’Onu? Qui non si è visto nessuno», esclama l’uomo, rassegnato. «Io sono un civile – spiega – non è colpa mia se abito qui. Non ho potuto comprare giocattoli ai miei figli quest’anno. Per quanto mi riguarda è il peggior Eid della mia vita».
In effetti è stata perentoria la posizione delle Nazioni Unite: niente convogli finché non verranno garantite le condizioni di sicurezza. La tregua è stata violata in più località siriane, gli elicotteri militari continuano a sorvolare Aleppo, in alcune zone si odono spari, come testimonia Abdulrahman, soldato regolare di stanza nella base militare di Al-Amrya, nel sud Est di Aleppo. «I ribelli sono riusciti ad abbattere un palazzo a colpi di bazooka – spiega – i cecchini sono sempre in agguato da una parte e dell’altra».
Gli spari fanno da sottofondo alla nostra conversazione telefonica via Whatsapp, alle cinque del pomeriggio di ieri. D’altronde lo aveva preannunciato anche il segretario di Stato americano John Kerry che ci sarebbero stati sporadici combattimenti, «qui e lì». Ed è stato chiaro anche che il gruppo jihadista Fatah al-Sham (ex Jabat al-Nusra), non avrebbe rispettato la tregua, definita «un complotto russo- americano contro il popolo siriano ». Ma per parlare di un vero e proprio fallimento del cessate del fuoco è troppo presto. Le armi dovrebbero tacere per altri cinque lunghissimi giorni.
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