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mercoledì 30 novembre 2016

Bielorussia - Eseguito Ivan Kulesh 28 anni. Pena di morte nel cuore dell'Europa

Blog Diritti Umani - Human Rigths
Ivan Kulesh è stato eseguito, lo riferisce Andrei Paluda, coordinatore della campagna difensori dei diritti umani contro la pena di morte in Bielorussia.

Ivan Kulesh durante il ricorso alla Corte Suprema
Il 20 novembre 2015, il Tribunale regionale di Grodno presieduta dal giudice Anatol Zayats ha condannato Ivan Kulesh a morte.

I membri della famiglia del condannato Kulesh di 28 anni hanno ricevuto il 5 novembre il certificato di morte.

E' stato riconosciuto colpevole di tre omicidi, furti, rapine e tentato omicidio. Si sono evidenziate delle incongruenze tra le testimonianze e i materiali di indagine.
Kulesh era ubriaco e i crimini sono stati commessi molto tempo fa. 
Tra l'altro, i giornalisti avevano ancora molte domande sul caso che esigevano una risposta.

Il 29 marzo 2016, il ricorso di Kulesh è stato respinto dalla Corte Suprema.

ES

Fonte: VIASNA

Denunce di Amnesty e Hrw accusano la Turchia di torturare i detenuti

tpi.it
Secondo le testimonianze che iniziano a emergere, nelle carceri turche si consumano abusi e violenze di ogni tipo, ma Ankara nega con forza. Nel corso delle purghe che hanno seguito il tentativo di golpe di luglio sono state arrestate oltre 30 mila persone, inclusi membri delle forze armate e dell'ordine.
Turchia - Gli arresti di massa dopo il tentato golpe
Mentre proseguono le purghe volute dal presidente Recep Tayyip Erdogan dopo il fallimento del colpo di stato dello scorso luglio - con oltre 120 mila persone rimosse o sospese dai loro incarichi nel settore pubblico e più di 30 mila arresti - si diffondono testimonianze di violenze subite dalle persone sospettate di essere simpatizzanti, se non sostenitori, dei golpisti, e in particolare del religioso Fethullah Gulen, considerato l'ispiratore dietro al tentativo di rimuovere Erdogan.
Organizzazioni per la difesa dei diritti umani, come Amnesty International e Human Rights Watch (Hrw), hanno ricevuto quelli che ritengono essere rapporti credibili su torture di ogni tipo, inclusi stupri, perpetrati ai danni dei detenuti, in un momento in cui lo stato di emergenza consente deroghe importanti in materia di indagini e arresti, permettendo, per esempio, di estendere la custodia cautelare da quattro a 30 giorni o di negare accesso a una consulenza legale per cinque giorni.
I racconti che emergono, diffusi anche dalla Bbc, parlano di pestaggi estremamente violenti, di abusi fisici e psicologici. Dopo la pubblicazione dell'indagine di Hrw sulla violazione dei diritti umani nel paese, i ministri turchi della Giustizia e dell'Interno hanno liquidato le accuse come calunnie infondate e ribadito l'impegno di Ankara al rispetto più rigoroso dello stato di diritto. L'inviato speciale delle Nazioni Unite per la tortura lavorerà questa settimana al suo rapporto sulla situazione in Turchia, per verificare se effettivamente il governo stia infrangendo il diritto internazionale. 

La tortura, infatti, è vietata in modo assoluto senza deroghe, pure in caso di stato di emergenza o di guerra.

martedì 29 novembre 2016

Firmato il nuovo accordo per la pace tra governo della Colombia e FARC

Osservatore Romano
Passo decisivo verso una pace duratura in Colombia. Il presidente Juan Manuel Santos e il leader delle Forze armate rivoluzionarie della Colombia (Farc), Timochenko, hanno firmato ieri un nuovo accordo di pace, dopo la bocciatura della prima intesa nel referendum dello scorso 2 ottobre.

L’accordo è stato firmato durante una cerimonia che si è svolta nel teatro Colón di Bogotá. Santos e Timochenko si sono limitati a un breve discorso. «Voglio invitarvi a dare un’opportunità alla pace», ha sottolineato durante il suo intervento il presidente colombiano, ricordando brevemente le principali modifiche incluse nel nuovo accordo e rimarcando «l’urgenza della pace» nel paese. 

Mentre Timochenko ha evidenziato il sostegno dei giovani al processo di pacificazione, ribadendo la proposta di perdono alle vittime delle Farc. Il nuovo accordo tra le due parti, annunciato lo scorso 12 novembre dall’Avana, prevede modiche rispetto all’intesa precedente, considerate però insufficienti dall’opposizione, che ha appoggiato il no al referendum del 2 ottobre. 

L’intesa sarà confermata dal parlamento, ma senza che si proceda a nuove votazioni, pertanto non verrà sottoposto a referendum. Questo costituisce uno dei motivi per i quali è stato già respinto dall’opposizione guidata dall’ex presidente Álvaro Uribe, del partito Centro democratico, il quale ha definito il meccanismo adottato un «golpe contro il popolo e la democrazia». Dal canto suo, Santos ha la maggioranza nelle due Camere e può contare sul sostegno di altri partiti. Il dibattito parlamentare inizierà martedì prossimo.

74 anni Alzheimer grave e violento. Dove metterlo ... in carcere. Non supera il trauma e muore

Corriere della Sera - Milano
Arrestato a 74 anni per aver dato uno spintone alla moglie. Portato in carcere a Busto Arsizio, rilasciato dopo la relazione del perito sei giorni dopo. Non si è più ripreso: si è aggravato ed è deceduto un mese dopo


Cosa era successo in lui in carcere? «Questi malati hanno grandi difficoltà di adattamento ambientale — spiega Cinzia Negri Chinaglia, primario del centro del Trivulzio — e qualunque evento traumatico aggrava la loro situazione, figurarsi il carcere. Chiunque li prenda in carico dovrebbe esserne cosciente».

La Storia
«Tutto bene, va tutto bene» ripete canticchiando Franco mentre fissa un punto indefinito del soffitto nella stanza del giudice. È perfettamente chiaro a tutti che non capisce nulla di quello che gli succede intorno perché la sua mente, devastata a 74 anni dall’Alzheimer, vaga persa tra mondi che la scienza non è in grado di esplorare. Sarebbe dovuto bastare per farlo uscire dal carcere dopo quattro giorni, invece ce ne sono voluti altri due prima che terminasse la tortura di un’assurda detenzione che sarà l’anticamera della sua morte.

La mattina di sabato 8 ottobre scorso i Carabinieri di Busto Garolfo, comune a nord-ovest di Milano, vengono chiamati dalla figlia di Franco perché il padre ha spinto la madre che, cadendo a terra, si è rotta un femore. Malato da cinque anni, già il 9 novembre 2015 era in una fase «severa con disturbi comportamentali», certificava il responsabile del centro Alzheimer dell’ospedale di Garbagnate, il dottor Daniele Perrotta, secondo il quale Franco «necessita di assistenza e supervisione continue», è «molto irritabile» e «aggressivo verbalmente». Diventato ancora più violento, a febbraio scorso aveva aggredito la moglie che lo accudiva fratturandole un omero.

I Carabinieri trovano sul posto il 118, la guardia medica e i Vigili del fuoco. Quando riescono ad entrare, l’uomo (che si era chiuso in casa) è «particolarmente aggressivo», si legge negli atti, li insulta, cerca di colpirli, si divincola «energicamente» dopo che «l’avevano immobilizzato». Viene portato al pronto soccorso dell’ospedale di Legnano dal quale viene «dimesso con una diagnosi di “agitazione psicomotoria in demenza”». Dove metterlo? A casa non può tornare, visto che la moglie deve restare in ospedale 45 giorni e, ammesso che possa e voglia assisterlo, rischierebbe altre aggressioni. Potrebbe essere piantonato in una struttura sanitaria, ma anche questa soluzione viene scartata dal pm Chiara Monzio Compagnoli perché non sembrano essercene di disponibili. L’alternativa diventa l’infermeria del carcere di Busto Arsizio che, per quanto di buon livello, non è tarata per assistere un malato di Alzheimer.

Ma sarà davvero malato? Tutte le certificazioni già esistenti non paiono sufficienti, visto che nel pomeriggio il pm dispone una perizia psichiatrica. Deve però trascorrere l’intero fine settimana prima che al lunedì la richiesta del pm di convalidare l’arresto viene mandata al gip Luisa Bovitutti e ci vogliono altri due giorni per l’udienza in cui il giudice, mercoledì 12 ottobre, non solo convalida l’arresto ma emette anche un’ordinanza di custodia cautelare in carcere basata, tra l’altro, sulla «abitualità delle condotte criminose» nonostante sia palese che le condizioni mentali di Franco siano «gravemente compromesse in quanto egli è affetto da Alzheimer», si legge nell’ordinanza. «Eccezionali esigenze» permettono di superare la norma che vieta il carcere a chi ha più di 70 anni, e comunque Franco non può andare ai domiciliari dato che non ci sono «soggetti disposti ad accoglierlo» vista «l’estrema difficoltà della sua gestione».

Alle 21 dello stesso giorno, il perito del pm certifica l’evidenza: Franco non è in grado di intendere e volere, nemmeno lo era quando ha spinto la moglie, e non è «socialmente pericoloso». Neanche questo basta a uscire seduta stante dalla galera. Passano altri due giorni, e sono sei di fila. «C’è stato l’interesse di tutti per risolvere una situazione pazzesca, ma l’errore più grande è stato l’arresto. Doveva essere curato, non portato in carcere», dichiara il suo legale, l’avvocato Francesco Mitrano.

L’odissea non finisce. Tornato «libero», l’anziano malato viene ricoverato di nuovo a Legnano, prima in psichiatria, poi in medicina d’urgenza per disidratazione e insufficienza renale, alle quali nei giorni successivi si aggiungerà una polmonite. Il 3 novembre viene trasferito nel centro Alzheimer del Pio Albergo Trivulzio di Milano dove si spegne la mattina del 24. 

di Giuseppe Guastella

lunedì 28 novembre 2016

USA: violenze, insulti, minacce, l'America ora fa i conti con "l'ansia da Trump"

Corriere della Sera
I numeri verdi per la prevenzione dei suicidi registrano picchi di chiamate. I crimini d'odio sono aumentati. E tra le minoranze torna una paura che si credeva ormai archiviata. 


Alla National Suicide Prevention Lifeline, organizzazione che si occupa di prevenire i suicidi in America con un servizio di assistenza telefonica 24 ore al giorno, raccontano che un picco di chiamate così non si registrava dall'11 settembre. 

Molte delle persone che chiedono aiuto appartengono alla comunità Lgbt, uno dei segmenti più vulnerabili della popolazione americana, con un tasso di suicidi giovanili che va dal 30% per gay, lesbiche e bisessuali fino al 40% per i transgender.
Eppure non sono gli unici: da quando Donald Trump è stato eletto presidente degli Stati Uniti, un sentimento di paura si è diffuso tra gli esponenti delle minoranze che sono state bersaglio della sua campagna elettorale. 

Nei centri di assistenza per gli immigrati raccontano di decine di giovani latinos che si recano quotidianamente agli sportelli denunciando la fine del sogno americano. Nel loro caso, non è solo il più classico dei riferimenti: "dreamers", sognatori, è il nome con cui è conosciuta la battaglia di figli di immigrati irregolari per vedersi riconosciuta la cittadinanza americana. 
Gli episodi di violenza che si stanno moltiplicando sul territorio nazionale non aiutano certo la situazione: scuole elementari, università, strade e chiese - dalla Pennsylvania alla Florida - sono diventati teatri di bullismo, molestie, svastiche e offese contro neri, messicani, gay, musulmani.
A Brooklyn due musulmane sono state attaccate da una donna che ha provato a strappare loro con violenza il velo dal volto, ferendole.

Il finanziere miliardario, e grande donatore democratico, George Soros ha addirittura predisposto un fondo di 10 milioni di dollari per "combattere quello che sta succedendo negli Stati Uniti". Il denaro sarà destinato alle organizzazioni che si occupano di diritti civili impegnate nel combattere la nuova violenza discriminatoria.
Un terrore profondo. Che si risveglia - "Molte persone che non hanno sangue americano, o che hanno combattuto per sedere al tavolo dei diritti, si sentono in pericolo", spiega al Corriere Alison Howard, psicoterapeuta di Washington D.C. che dall'inizio della campagna elettorale ha visto aumentare "l'ansia da Trump" tra i suoi pazienti. "Il tono di odio e minaccia usato durante la campagna - continua - si è sedimentato nelle menti dei pazienti andando a toccare corde molto profonde".
Per alcuni ci sono radici familiari: "Nei pazienti che hanno avuto esperienze indirette di dittature - spiega - si risveglia quel terrore atavico di essere deportato o punito. Per altri, come gli afroamericani o le comunità Lgbt, c'è la consapevolezza della fragilità delle proprie conquiste che possono dunque essere rimesse in discussione. 

E poi ci sono le donne: molte hanno vissuto la sfida tra Clinton e Trump come un esempio degli attacchi sessisti che devono subire nella loro quotidianità. "Per questo la sconfitta della candidata democratica ha un valore simbolico enorme: nella sua vicenda ritrovano le storie di maltrattamenti e umiliazioni che provengono dal capo, dal marito, dagli sconosciuti in strada".

"Non è il momento di stare soli" - Già, ma come si supera "lo stress da Trump"? "Bisogna lavorare sul controllo, mettere in campo tutto ciò che ci fa sentire di avere potere sulla nostra vita - consiglia Alison. Per alcuni può essere partecipare alle manifestazioni, per altri stare a casa con la famiglia, per altri ancora ritrovarsi nella comunità per parlare di problemi e obiettivi comuni". Scendere nelle strade sarebbe dunque un modo per elaborare il lutto di un orizzonte tradito. "Questo non è un momento per stare da soli", spiega al Corriere la filosofa di Berkeley Judith Butler. Il timore per un futuro governato da un miliardario che ha giocato con i bassi istinti dei cittadini riguarda anche uomini e donne che, pur non appartenendo alle minoranze sotto accusa, vedono negate le speranze di progresso democratico e liberale.
Eppure c'è una differenza: "Coloro che hanno un privilegio devono combattere per chi vive nella paura", spiega l'ideologa dei gender studies, secondo cui la solidarietà è la risposta alla paura. "Noi combattiamo non solo per sopravvivere ma per vivere insieme come essere uguali". Sulla natura strumentale della paura la filosofa, autrice di Vite precarie. I poteri del lutto e della violenza, non ha dubbi: "Se non si accompagna alla solidarietà è solo uno mezzo di depoliticizzazione: chi vive nel terrore smette di essere una persona, e diventa così più vulnerabile".

di Serena Danna

Aleppo sotto i bombardamenti, i tragici tweet della bambina di 7 anni Bana Alabed

La Repubblica
Da due mesi la bambina di sette anni, con i suoi tweet è diventata uno dei simboli della vita dei migliaia di civili intrappolati nella parte orientale della città. L'ultimo messaggio: "Quando moriremo, continuate a parlare delle 200mila persone che sono ancora qui. Ciao”



L’ultima foto la mostra fra la polvere, sconvolta. Il tweet:
"Da questa notte non abbiamo più una casa. È stata bombardata ed è andata in pezzi. Ho visto persone morte e sono quasi morta anche io". 

Da due mesi, Bana Alabed, sette anni, con i suoi tweet è diventata uno dei simboli della vita dei migliaia di civili intrappolati nella parte orientale di Aleppo, al centro della battaglia fra i ribelli, che la controllano da oltre due anni e le forze governative appoggiate dall’aviazione russa, che da una decina di giorni a questa parte hanno lanciato una durissima offensiva per riconquistarla e nel fine settimana hanno ripreso il controllo di due zone decisive, isolando di fatto i ribelli.


di Francesca Caferri

"Pena e Speranza. Carceri, riabilitazione, esecuzione della pena, riforme possibili"

La Stampa
Si è tenuto il 24 novembre, al carcere di Regina Coeli, il secondo incontro promosso dal "Cortile dei Gentili" in collaborazione con Mario Marazziti, presidente della Commissione Affari sociali, su "Pena e Speranza". 


Carceri, riabilitazione, esecuzione della pena, riforme possibili". Un'iniziativa, questa, voluta per arrivare a toccare con maggiore concretezza la realtà oggetto del dialogo e soprattutto per dare voce ai primi interessati, i detenuti, coloro che vivono la quotidianità del carcere con tutte le sue criticità.

A introdurre l'incontro il ministro della Giustizia Andrea Orlando, che ricordando le parole di papa Francesco in occasione del "Giubileo dei Carcerati", ha ribadito che la dignità della persona è insopprimibile e che i diritti fondamentali non possono essere messi tra parentesi.
A rispondere alle domande dei detenuti in parte è stato anche il cardinale Gianfranco Ravasi, che ha evidenziato come il Cortile dei Gentili sia un simbolo emblematico per la loro vita, inteso come spazio dove ognuno possa esprimere le proprie ragioni, in un dialogo alla pari: "Ecco perché le vostre domande sono molto significative qui oggi. Sono la vostra voce".
Ha concluso con la parabola tibetana del viandante nel deserto, che narra di un uomo che all'orizzonte, lungo la pista che sta percorrendo, vede profilarsi una figura che avanza: sembra una belva. Purtroppo non c'è scampo nel deserto, deve proseguire. La figura, mano a mano meno lontana, si rivela essere quella di un uomo. Ma potrebbe essere un predatore, un brigante solitario. Il viandante avanza ancora, senza osare quasi alzare gli occhi, finché i due non si trovano finalmente di fronte: "Levai gli occhi, lo guardai in volto: era il mio fratello che da anni non incontravo!". "Anche noi dovremmo guardarvi in faccia e vedere in voi delle persone con una scintilla, la fiamma della speranza" ha aggiunto il Cardinale.
Si sono poi incrociate più dimensioni con l'intervento dell'imam della moschea della Magliana Sami Salem, tra cui quella religiosa e quella culturale: "Trovo questo incontro giustissimo e fortissimo. Un primo passo per abbattere i pregiudizi. Io non vengo in carcere per dare speranza, ma per avere da voi la speranza. Ma devo entrare qui dentro come imam e non come mediatore interculturale".
Sono poi seguiti l'intervento di Fiamma Satta, che ha raccontato loro cosa ha significato per lei la perdita di bisogni primari equiparabili alla libertà, come l'autonomia e la salute, quello di Nicoletta Braschi, che ha ribadito il messaggio dello storico film "La vita è bella", in cui Roberto Benigni voleva che suo figlio e sua moglie fossero attraversati dalla vita e non dal trauma, e la conclusione di Santi Consolo, attuale direttore del Dipartimento dell'Amministrazione penitenziaria, che sente come dovere primario quello di trasformare le difficoltà in opportunità per i detenuti, perché la vita, comunque vada, è pur sempre un dono.

domenica 27 novembre 2016

Guerre dimenticate - Sud Sudan a rischio catastrofe umanitaria

Intersos
Nelle ultime settimane più di 40.000 persone sono arrivate in Uganda, fuggendo dal Sud Sudan. Il 90% sono donne e bambini soli, alcuni arrivati scalzi, seminudi, affamati e assetati, attraversando la foresta, camminando per giorni. Di loro non sappiamo nulla, sono massa informe di disperazione che non arriva alle nostre porte, in fuga da una guerra lontana e sconosciuta nel cuore dell’Africa.


Eppure quello che sta accadendo in Sud Sudan è una delle più gravi crisi umanitarie: è il più giovane Stato del mondo, ma almeno tre generazioni, in questo angolo di Africa grande quanto la Francia, non hanno conosciuto altro che la guerra. E all’ultima generazione, la storia non sta riservando un destino migliore: 1,6 milioni di sfollati interni costretti a fuggire per salvarsi da massacri e combattimenti, 40.000 bambini malnutriti a rischio di vita, 200.000 persone intrappolate nei campi per sfollatiin tutto il paese.

Il conflitto interno, scoppiato alla fine del 2013, ha eroso talmente tanto le risorse del paese (in cui la stabilità economica e sociale erano già precarie prima della guerra civile) che il rischio della catastrofe alimentare si sta abbattendo su 4,8 milioni di vite. La crisi ha intaccato il sistema economico e produttivo tanto che i prezzi dei beni primari sono diventati insostenibili; nei pochi mercati della capitale Juba si è arrivati a vendere i pomodori a metà perché le famiglie non possono permettersi di pagarne uno intero. La popolazione sud sudanese sta morendo di fame.

Da questo inferno, più di un milione di persone è fuggito nei paesi limitrofi, come l’Uganda. 

Come restare in un luogo diventato uno dei peggiori scenari umanitari contemporanei?

Il Sud Sudan è un paese in cui c’è tutto quello che definisce una catastrofe umanitaria: un inferno d’intrighi politici che alimentano massacri interetnici, povertà estrema, malnutrizione, assenza d’infrastrutture, di servizi, di scuole e assistenza medica. Nelle aree più colpite dal conflitto, il tasso di malnutrizione infantile raggiunge il 30%; se i bambini sopravvivono alla malnutrizione, ci sono arruolamento forzato, matrimoni precoci ed epidemie a minacciarli.

Il referendum che ha sancito l’indipendenza dal Sudan nel 2011, dopo decenni di guerra per la scissione, era stato accolto come una promessa di pace, un nuovo inizio per il paese. A questa promessa i sud sudanesi avevano creduto, soprattutto i più giovani, molti cresciuti nei paesi vicini, in grandi campi per rifugiati, nutriti dal sogno di tornare a vivere una vita normale. In tanti sono tornati dopo l’indipendenza, per costruire il paese: ma il sogno si è infranto nel dicembre 2013, quando la guerra civile ha insanguinato prima Juba, estendendosi poi a nord del paese, infiammandosi intorno ai giacimenti petroliferi tanto contesi.

A nulla sono servite le pressioni internazionali che avevano portato all’accordo di pace raggiunto a settembre 2015: infranto anche quello. Il sangue ha continuato a scorrere fino al luglio scorso, quando una nuova ondata di violenze nella capitale ha tolto la vita a più di 300 persone e ne ha costrette migliaia a fuggire ancora.

Sembra non esserci pace, in Sud Sudan, per la popolazione esausta dalla guerra e dalla fame. Poche settimane fa sono bastati dei rumors, diffusi attraverso i social network, sulla presunta morte del presidente in carica Salva Kiir per gettare la capitale ancora una volta nel panico: la popolazione si è barricata in casa o è fuggita per il timore di una nuova brutale ondata di violenze.

Questo episodio mostra l’estrema fragilità della situazione, cui si sta aggiungendo la preoccupante insorgenza di gruppi ribelli e di sempre più frequenti scontri e attacchi nel sud del paese (Eastern, Central e Western Equatoria), aree che fino ad ora erano state risparmiate dal conflitto. Per questo i sud sudanesi continuano a fuggire dalla loro terra e a cercare rifugio in Uganda e negli altri paesi limitrofi.

Questo insieme di fattori lascia presagire uno scenario drammatico per i prossimi mesi, una crisi destinata a deflagrare con ancora maggiore violenza nel 2017, una catastrofe umanitaria davanti alla quale non sarà possibile voltare lo sguardo.

Nelle carceri italiane c'è un suicidio ogni 7 giorni. Alto il numero anche tra gli agenti.

openpolis .it
Lo dicono i dati del Ministero della Giustizia. Ma se si contano anche le morti meno chiare, comunque legate al disagio della detenzione, si arriva a un numero ancora più alto. Un calo si segnala in seguito alla riduzione del sovraffollamento.


L'istituto dove ce ne sono stati di più è Poggioreale. Pochi dati mettono il luce il disagio nelle carceri come quello dei suicidi, un dramma che coinvolge sia i detenuti che gli agenti di custodia. Su questi ultimi non esiste una statistica ufficiale, ma fonti sindacali parlano di almeno 100 suicidi dal 2000 ad oggi.

Il ministero della giustizia pubblica annualmente il dato dei suicidi avvenuti tra i carcerati dal 1992. Oltre al governo, anche l'associazione per i diritti dei detenuti Ristretti Orizzonti tiene traccia di questa statistica, presentando un dato che, per alcuni anni, è addirittura superiore a quello ufficiale. In base ai dati del ministero, dal 1992 in media si è suicidato un detenuto alla settimana. Entrambe le fonti segnano comunque una riduzione successiva al contenimento del sovraffollamento.

La statistica riportata da Ristretti Orizzonti nel suo dossier "Morire di carcere" non vuole sostituirsi quella ufficiale, né smentirla. L'intenzione è semmai quella di raccogliere maggiori informazioni sul profilo di chi si suicida in carcere; accanto ai suicidi accertati, comprende anche le morti meno chiare, comunque legate al disagio della detenzione. Proprio questi dati ci permettono alcune considerazioni ulteriori sui detenuti che si uccidono nelle carceri italiane.

Dal 2009 al 31 agosto 2016, le "morti di carcere" registrate dall'associazione sono state 423. Si tratta di persone in larga parte comprese tra i 25 e i 44 anni di età, anche se l'incidenza è alta anche tra i giovanissimi (20-24 anni) e attorno ai 50 anni. Il metodo di uccisione più frequente è nel 77% dei casi l'impiccamento, seguito dall'asfissia con il gas (64 casi), l'avvelenamento (20) e il soffocamento (6). Nella triste classifica degli istituti penitenziari con più suicidi dal 2009, al primo posto Napoli Poggioreale (19 casi), seguito da Firenze Sollicciano (17) e Rebibbia a Roma (14).

Pakistan - Pena di morte - Mazhar Farooq ad un passo dall'esecuzione riconosciuto innocente dopo 24 anni

Blog Diritti Umani - Human Rights
Islamabad- La Corte Suprema ha assolto 
Mazhar Farooq, un condannato a morte in un caso di omicidio dopo almeno 24 anni di prove inconcludenti.

Mazhar Farooq
La Corte Superiore ha annullato le sentenze dei tribunali subordinati e ha ordinato il rilascio immediato del detenuto Mazhar Farooq.
Il verdetto è stato dato dai tre membri della Corte Suprema presieduta dal giudice Asif Saeed Khosa.

L'accusa non è riuscita a dimostrare il crimine, li Giudici hanno aggiunto che anche la pistola recuperata non apparteneva all'imputato.

Farooq è stato accusato di un omicidio nella zona di Kasur nel 1992.  Lo avevano condannato a morte che è stata confermata da una corte suprema.

ES

Fonte: Dunya News

sabato 26 novembre 2016

Cina - Il giornalista per i diritti umani Liu Feiyue arrestato per sovversione

China Files
Liu Feiyue, fondatore del sito Minsheng Guangcha, specializzato nel denunciare violazioni dei diritti umani, è stato arrestato con l'accusa di voler sovvertire lo Stato. 

Il giornalista cinese Liu Feiyue
L'arresto, secondo quanto rivelato, è avvenuto all'inizio del mese a Suizhou, nella provincia dell'Hubei. Il sito è noto per pubblicare storie e articoli sulla detenzione di attivisti per i diritti umani e civili in Cina e per documentare casi di corruzione tra i funzionari locali. Se condannato Liu può rischiare il carcere a vita, il massimo della pena per chi è accusato di sovversione.

Unicef, a Mosul e Aleppo i peggiori assedi del dopoguerra. Migliaia i bambini intrappolati

Ansa
A Mosul e Aleppo si stanno verificando i "peggiori assedi dal dopoguerra, con migliaia di bambini intrappolati". Le stragi dei civili continuano



E' quanto ha detto Andrea Iacomini, Portavoce di Unicef Italia, sottolineando che in Siria e in Iraq non si arrestano la stragi di civili. A Mosul con la lenta avanzata delle truppe militari nelle aree urbane più densamente popolate, aumenta il rischio per le vittime più vulnerabili, soprattutto bambini. Solo negli ultimi giorni un camion bomba è stato fatto esplodere fuori da un'abitazione, uccidendo 2 bambini e ferendone 6; tra ottobre e novembre i bambini uccisi o feriti sono 52 in totale. Gli sfollati ammontano ormai a 54 mila, di cui 25 mila minori.

"Quello che sta succedendo in Iraq è inaccettabile - ha aggiunto Iacomini - l'assedio in corso a Mosul sta flagellando la popolazione ed in Siria i civili sembrano non conoscere tregua. I raid aerei dell'ultima settimana hanno distrutto tutto ciò che era rimasto di Aleppo, lasciando 250 mila persone tra cui 100 mila bambini senza cure e aggravando ulteriormente la crisi umanitaria".

In Siria negli ultimi giorni sono morti 60 civili, di cui 7 bambini soltanto nella giornata domenica, la cosiddetta giornata dell'Infanzia, ovvero l'anniversario dalla convenzione ONU firmata dagli stessi Paesi che continuano a bombardare i bambini. 

"Gli assedi in corso ad Aleppo e soprattutto a Mosul non hanno precedenti dal secondo dopoguerra. L'Unicef continua ad intervenire per alleviare le sofferenze dei civili in questi contesti, ma non possiamo nulla contro l'impotenza globale che impedisce di fermare questo scempio", conclude la nota.

E' morto Fidel Castro

Ansa
L'ex presidente cubano, Fidel Castro, leader della rivoluzione comunista dell'isola è morto all'età di 90 anni. 


Lo ha annunciato il fratello Raul alla tv di stato cubana. "Oggi, 25 novembre, alle 10:29 della notte è morto il Comandante in Capo della Rivoluzione Cubana Fidel Castro Ruz", scrive il sito web ufficiale Cubadebate. Il corpo, ha detto Raul, sarà cremato nelle prossime ore.

venerdì 25 novembre 2016

Ue congela l'entrata della Turchia e Erdogan minaccia di usare i migranti e farli entrare nei Paesi UE

Ansa
Erdogan minaccia di far passare migranti
Leader turco rilancia dopo voto Parlamento Ue su stop colloqui



"Se l'Europa si spingerà troppo oltre, permetteremo ai rifugiati di passare dai valichi di frontiera" verso i Paesi Ue. Lo ha detto il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, tornando a minacciare una rottura dell'accordo sui migranti con Bruxelles all'indomani del voto dell'Europarlamento che chiede il congelamento dei negoziati di adesione di Ankara. " Non avete mai trattato l'umanità in modo onesto e non vi siete occupati delle persone in modo giusto. Non avete raccolto i bambini quando (dopo essere annegati, ndr) nel Mediterraneo arrivavano sulle coste. Siamo noi che stiamo nutrendo circa 3,5 milioni di rifugiati in questo Paese. Voi non avete mantenuto le promesse. Quando 50 mila rifugiati sono arrivati a Kapikule (la frontiere tra Turchia e Bulgaria, ndr) vi siete messi a urlare e a dire 'Che faremo se la Turchia apre i valichi di frontiera?', ha aggiunto Erdogan.

"Siamo pienamente impegnati a far funzionare l'accordo con la Turchia" sulla gestione dei migranti, e ci sono "continui contatti a livello politico e tecnico" con Ankara, ha commentato Maragaritis Schinas, portavoce della Commissione europea rispondendo ai giornalisti. La risoluzione votata dal Parlamento europeo "è un pezzo del puzzle", ha detto, ma occorre guardare "al quadro globale".

Il punto della situazione della tragedia del conflitto in Siria. 1 milione di siriani sotto assedio.

Internazionale
Un milione di siriani sotto assedio, l’uso del cloro nei bombardamenti su Aleppo, la ripresa degli aiuti ai profughi siriani in Giordania. Mentre la Francia sta organizzando una riunione internazionale a Parigi con alcuni gruppi dell’opposizione siriana, ecco quali sono stati i principali sviluppi del conflitto siriano degli ultimi giorni. 


Un milione di siriani sotto assedio. Il 21 novembre Stephen O’Brien, il sottosegretario generale per gli affari umanitari delle Nazioni Unite, ha fatto sapere che 974mila siriani vivono sotto assedio, contro i quasi 400mila di un anno fa e i 486mila di sei mesi fa. Negli ultimi mesi è aumentato il numero delle località dove non arriva più nulla da mangiare né ricevono aiuti umanitari. Tra queste, la parte est di Aleppo, un intero quartiere di Damasco e molte aree della Ghuta orientale, la regione agricola che circonda la capitale. Secondo O’Brien questa situazione è il frutto di tattiche “crudeli”, in particolare da parte del governo di Damasco. 

L’esercito governativo avanza su Aleppo est. Dal 15 novembre la città è di nuovo colpita da razzi, colpi di mortaio e barili esplosivi, nel corso dei più pesanti bombardamenti dall’inizio della guerra nel 2011. La nuova offensiva delle forze governative e dei loro alleati mira a riprendere il controllo della parte est della città, in mano all’opposizione dal 2012. Alcuni attivisti locali e l’Osservatorio siriano per i diritti umani, un’organizzazione che dal Regno Unito monitora l’andamento della guerra, hanno fatto sapere che il 21 novembre le forze di Damasco, appoggiate dai combattenti iraniani, russi e libanesi di Hezbollah, hanno conquistato una parte del quartiere di Masakan Hanano: un’avanzata simbolica e strategica, visto che questo fu il primo quartiere a cadere nelle mani dei ribelli. Secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani dal 15 novembre sono morte 143 persone, tra cui 19 bambini. Secondo il gruppo di soccorritori noti come Caschi bianchi, le vittime sono almeno 375. Inoltre la carenza di cibo e di carburante è drammatica, visto che non arrivano aiuti da luglio. Si calcola che gli abitanti di Aleppo che vivono sotto assedio siano almeno 275mila.

Non ci sono più ospedali funzionanti ad Aleppo est. Lo denuncia l’Organizzazione mondiale della sanità, secondo cui i centri di cura sono stati l’obiettivo di bombardamenti ripetuti da parte delle forze governative. Restano in piedi solo piccole cliniche. Gli abitanti di questa parte della città non hanno più accesso a servizi di traumatologia e non possono sottoporsi a interventi di chirurgia importanti.

Sospetti attacchi con il cloro. Secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani il 22 novembre sempre nella parte orientale di Aleppo sono stati trovati dei contenitori di agenti chimici, probabilmente cloro, sganciati dagli elicotteri governativi con barili bomba. La direzione sanitaria di Aleppo est ha fatto sapere che alcune persone hanno avuto problemi respiratori. L’11 novembre l’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche (che ha monitorato lo smantellamento dell’arsenale chimico siriano) aveva denunciato l’uso di armi chimiche impiegate dal governo di Damasco e dal gruppo Stato islamico (Is).

Riprende la distribuzione di aiuti ai profughi siriani in Giordania. Il 22 novembre le Nazioni Unite hanno annunciato che i circa 85mila siriani fermi al confine tra i due paesi riceveranno i primi aiuti da mesi (cibo, abiti invernali, coperte), dopo che è stato raggiunto un accordo con l’esercito giordano per il passaggio di convogli umanitari. I profughi, tra cui molte donne e bambini, vivono in in due campi informali in un’area desertica del nord della Giordania. Secondo le stime dell’Onu, in Giordania vivono più di 600mila profughi siriani. Il governo di Amman, invece, sostiene che sono quasi un milione e mezzo.

Un leader jihadista ucciso nella provincia di Idlib. Il portavoce del Pentagono, Peter Cook, ha annunciato che il 18 novembre è stato ucciso in un raid aereo compiuto dagli Stati Uniti vicino a Sarmada, in Siria, Abu Afghan al Masri, un esponente di primo piano di Al Qaeda. Inizialmente Al Masri si era unito ai jihadisti in Afghanistan e poi aveva raggiunto il ramo siriano dell’organizzazione, il Fronte Fatah al Sham (ex Fronte al nusra).

Uccisi tre soldati turchi nell’ovest della Siria. La Turchia sostiene che siano morti in un bombardamento delle forze governative siriane vicino alla città di Al Bab. Altri dieci soldati sono rimasti feriti. Sono le prime vittime denunciate da Ankara dall’inizio dell’offensiva Scudo dell’Eufrate, lanciata in territorio siriano il 24 agosto, contro i combattenti del gruppo Stato islamico e le milizie curde Unità di protezione popolare (Ypg).

Filippine. Disegno di legge Duterte: bambini in carcere a 9 anni e ripristino pena di morte

Blog Diritti Umani - Human Rights
Disegno di legge sostenuto dal presidente filippino, Rodrigo Duterte. 
Entro dicembre bambini in carcere dall'età di 9 anni e ripristino della pena di morte. 
Allarme Unicef ​​e delle associazioni dei diritti dei minori.



Duterte che ha largamente vinto le elezioni presidenziali in maggio dopo una scandalosa campagna sulla sicurezza dove ha promesso di massacrare decine di migliaia di trafficanti di droga.
Ha anche promesso di colmare quella che definisce una lacuna nel sistema giudiziario che permette ai trafficanti di droga di utilizzare i minori come "muli".

UNICEF ha ricordato gli obblighi internazionali del governo filippino. Manila è firmataria della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dei bambini  dove l'età della responsabilità penale non può essere inferiore a 12 anni. E afferma: "Il carcere non è un posto per i bambini. E' allarmante mandare i bambini in istituti di pena e sarebbe una regressione dal governo filippino."

Associazioni hanno lanciato una campagna chiamata #ChildrenNotCriminals (i bambini non sono criminali) per chiedere ai rappresentanti politici di non sostenere il disegno di legge.

I difensori dei diritti del bambino hanno invitato Mr. Duterte per concentrarsi invece sulle cause della delinquenza giovanile: la povertà, l'assenza dei genitori e la mancanza di istruzione.

Quasi 2.000 persone sono state uccise dalla polizia da quando ha assunto il potere Duterte nel giugno 2016.  Ma sono 2800, i morti in circostanze poco chiare, secondo le statistiche ufficiali.

ES

Fonte: Agence Télégraphique Suisse - ATS

25 Novembre - Giornata Internazionale contro la violenza sulle donne - Ricordiamo le spose bambine

Africa Rivista
Spose bambine, l’altra faccia della violenza sulle donne
Nel mondo, più di 700 milioni di donne e bambine si sono sposate prima di aver compiuto 18 anni. Più di una su 3, circa 250 milioni, si è sposata prima dei 15 anni; a livello globale circa la metà delle ragazze tra i 15 e i 19 anni tende a giustificare chi picchia la moglie o la partner in alcune circostanze come rifiutare un rapporto sessuale; uscire di casa senza permesso, litigare, trascurare i bambini o bruciare la cena.


Sono i dati forniti dall’Unicef (Agenzia Onu che si occupa di infanzia) sulla condizione femminile. Una tragedia, quella della violenza sulle donne (oggi si celebra la Giornata mondiale contro la violenza sulle donne) che tocca da vicino anche il continente africano. 

La mente corre alle ragazze rapite da Boko Haram o usate come kamikaze in Nigeria, alle bambine fuggite dalla guerra nella Repubblica centrafricana, alle mamme e alle bambine costrette a fuggire dalle violenze della guerra in Sud Sudan, alle migliaia di ragazze eritree e somale costrette a subire violenza nel loro viaggio verso l’Europa. Ma anche alle migliaia di bambine costrette a sposarsi.

Sposarsi in età precoce comporta una serie di conseguenze negative per la salute e lo sviluppo. Al matrimonio precoce segue quasi inevitabilmente l’abbandono scolastico e una gravidanza altrettanto precoce, e dunque pericolosa sia per la neo-mamma che per il suo bambino. Le gravidanze precoci provocano ogni anno 70.000 morti fra le ragazze di età compresa tra 15 e 19 anni, e costituiscono una quota rilevante della mortalità materna complessiva. A sua volta, un bambino che nasce da una madre minorenne ha il 60% delle probabilità in più di morire in età neonatale, rispetto a un bambino che nasce da una donna di età superiore a 19 anni. E anche quando sopravvive, sono molto più alte le possibilità che debba soffrire di denutrizione e di ritardi cognitivi o fisici.

Le statistiche dicono quanto lavoro ci sia ancora da fare in questo settore. Un lavoro non solo di protezione delle donne che hanno subito violenza, ma anche culturale. «Questi dati parlano di una mentalità che tollera, perpetra e giustifica la violenza e dovrebbero far suonare un campanello d’allarme in ognuno di noi, ovunque – spiega Giacomo Guerrera il presidente dell’Unicef Italia –. I dati dimostrano quanto sia indispensabile garantire alle bambine e alle donne il diritto fondamentale a un’istruzione di qualità. 

Vorrei ricordare le parole di Malala, Premio Nobel per la pace: “Un bambino, un maestro, un quaderno e una penna possono cambiare il mondo. L’istruzione è l’unica soluzione. La scuola è un luogo reale di protezione dagli abusi, dallo sfruttamento, dai matrimoni e dalle gravidanze precoci, che mettono letteralmente a rischio la vita delle bambine e delle ragazze, soprattutto in alcuni Paesi del mondo in via di sviluppo dove le bambine e le donne sono ancora fortemente discriminate”».

giovedì 24 novembre 2016

California, Nebraska e Oklahoma affermazione della pena di morte nell'anno del minimo storico di esecuzioni in USA

Il Manifesto
Il 2016 sembrava l'anno giusto per festeggiare una sensibile regressione della pena di morte negli Stati uniti. Da una recente statistica del Pew Research Center, infatti, risulta che quello in corso è l'anno con meno esecuzioni capitali dell'ultimo quarto di secolo. Dal mese di gennaio i boia statunitensi hanno giustiziato 17 persone, con altre 3 esecuzioni previste entro la fine dell'anno, per un totale di 20, il minimo storico dal 1991, quando vennero portate a termine "soltanto" 14 esecuzioni.


Tuttavia, negli stessi giorni in cui gli Usa eleggevano il nuovo presidente, i cittadini di tre stati, California, Nebraska e Oklahoma, hanno votato anche in rispettivi referendum, i cui esiti non hanno affatto smentito i risultati che incoronavano contemporaneamente il repubblicano Trump. 

La California è lo Stato che vanta il braccio della morte più affollato, con 750 condannati. Tra la proposta referendaria 62, che chiedeva l'abolizione definitiva della pena di morte e la proposta 66 che, al contrario, auspicava addirittura l'accelerazione delle procedure per le uccisioni legalizzate, il 52% degli elettori ha votato per quest'ultima opzione. Il problema è che se adesso la proposta 66 venisse applicata alla lettera, sarebbe una vera e propria mattanza; parecchi giuristi si augurano che non sarà così, altrimenti dovremmo assistere "all'esecuzione di una persona a settimana per 14 anni".
Poi è toccato al Nebraska, dove la pena di morte era stata abolita nel maggio 2015 e reintrodotta dopo appena una manciata di mesi con il consenso del 57% dei cittadini

Infine l'Oklahoma, paese forcaiolo (percentualmente ha il numero più alto di esecuzioni in rapporto al numero di abitanti), che ha confermato la sua ferale tradizione con il 67% degli elettori. Dopo questo voto l'Oklahoma è diventato il primo Stato americano che legittima la pena capitale, includendola nella propria stessa Costituzione.

 Eppure lo stesso sondaggio del Pew Research Center, soltanto il 30 settembre scorso, aveva rivelato una sensibile decrescita di consensi verso la pena di morte da parte dei cittadini americani, con il 49% che restava favorevole alla legge dell'occhio per occhio.

All'interno di queste percentuali, come riportato anche dal Comitato Paul Rougeau nel suo ultimo "Foglio di collegamento", è interessante vedere come si pongono le varie categorie della cittadinanza statunitense. Tanto per cominciare, si conferma che la maggioranza dei Repubblicani (72%) continua ad essere favorevole alla pena di morte, mentre solo il 34% dei Democratici lo è. Per quanto riguarda gli "indipendenti", la percentuale è equamente ripartita (45% a favore, 44% contrari).
Anche il sesso, la razza, il credo religioso e il livello culturale fanno pendere il piatto della bilancia da una parte o dall'altra: i maschi sono più favorevoli alla pena di morte delle femmine (55% contro 43%), i bianchi lo sono molto più degli afroamericani e degli ispanici (57%, contro rispettivamente 29% e 36%), i protestanti evangelici sono favorevoli (69%) mentre i cattolici sono quasi equamente ripartiti (43% favorevoli, 46% contrari) e, concludendo la rassegna, le persone che hanno conseguito almeno la licenza della scuola superiore sono meno "forcaiole" di quelle meno colte (43% contro 51%).
Come se non bastasse, però, adesso anche il New Mexico si è messo nella scia della triade di Stati tornati a quei fasti medievali che permettono ai governi di disporre della vita dei propri cittadini. Nel New Mexico la pena di morte era stata abolita da sette anni, ma l'attuale Governatrice repubblicana, Susana Martinez, sta facendo di tutto per ripristinarla, pretendendo che il Parlamento del suo Stato approvi la legge per la reintroduzione già a gennaio

In tema di diritti umani, sembra che negli Usa tutte le più rosee aspettative si siano infrante nella manciata di poche settimane ed ora, con l'avvento di Donald Trump, forse ci sarà da aspettarsi il peggio.

di Marco Cinque

Libano - Si costruisce un muro intorno a un campo profughi palestinese

La Repubblica
Beirut - Le autorita' libanesi hanno dato ufficialmente il via alla costruzione di un muro alto circa 4 metri attorno ad Ain al Hilweh, il piu' grande campo di profughi palestinesi di tutto il Libano (ospita piu' di 120000 persone, aumentate dall'inizio della guerra in Siria), situato nel distretto di Sidone, nel sud del paese. 



Il muro, secondo il quotidiano locale online al Modon, dovrebbe essere completato nei prossimi 15 mesi. La sua costruzione e' risultato di un accordo tra le varie fazioni armate palestinesi all'interno del campo e le autorita' libanesi, che ha l'obiettivo di 'contenere' all'interno di Ain al Hilweh i frequenti scontri armati tra esercito libanese e fazioni armate palestinesi. 

'Verranno costruite anche quattro torri di osservazione sul perimetro del muro', ha aggiunto Abu Ahmad Faysal, un esponente di Hamas all'interno del campo, intervistato dal quotidiano locale Daily star. 

'La costruzione del muro mira a porre un freno alle schermaglie tra gli abitanti del campo e l'esercito'. Nonostante l'approvazione del progetto da parte delle leadership palestinesi, sui social si e' scatenata la protesta di molti palestinesi, che temono un peggioramento delle gia' precarie condizioni di vita degli abitanti del campo. Molti - specialmente coloro che vivono nella zona sud del campo, che vedranno costruito il muro a pochi metri dalle loro abitazioni - hanno ribattezzato il progetto 'il muro della vergogna', con vari riferimenti a misure intraprese nei confronti dei palestinesi da Israele. .

mercoledì 23 novembre 2016

Iran - Regista Keywan Karimi, 1 anno di carcere e 223 frustate e nessuno ne parla

Il Manifesto
Keywan Karimi, autore del documentario Writing on the City e di Drum, suo esordio nella finzione presentato nell'ambito della 31esima edizione della Settimana della Critica di Venezia, è rassegnato. Il suo calvario, fatto di convocazioni, interrogatori e minacce, trova la sua brutale conclusione nella conferma di un anno di prigione a causa del suo documentario che racconta la storia della repubblica islamica a partire dalla rivoluzione sino al secondo mandato di Ahmadinejad. 

Keywan Karimi
Accusato di oltraggio all'Islam e offesa allo Stato, Karimi si è visto prima condannato a sei anni di carcere, poi ridotti a uno, e a 223 frustate.

Più volte Karimi ha denunciato il suo sentirsi isolato dal mondo del cinema, non solo iraniano. E adesso il silenzio che circonda la sua condanna è ancora più insostenibile perché si associa inevitabilmente a un sentimento di impotenza e frustrazione. "Non ho paura di andare in prigione", spiegava al telefono. "Mi spaventano le frustate. Non so come potrò reagire. Sono molto spaventato. All'idea di vivere per un anno in prigione mi ci posso abituare, ma le frustate mi fanno paura. Non so che fare". 

L'assurdità di parlare con una persona, un artista, un creatore, un cineasta, un poeta, minacciato di carcere e frustate, è atroce. I limiti di un pensiero, occidentale e non solo, che di fronte a queste violazioni dei diritti fondamentali non può fare altro che restare impotente, è una delle molte contraddizioni della nostra "libertà". 

"Non capisco perché la gente non parla del mio caso", mi dice Karimi. "Per Panahi si sono mobilitati tutti. Io invece sono solo...". A questa domanda, legittima, di Karimi, si può rispondere parzialmente, anche se resta comunque inaccettabile, che il suo essere curdo pesa come un macigno sulla sua situazione e sul silenzio del resto del mondo.

"Sì, temo anche io che il mio essere curdo pesi molto nella mia situazione...". Ora, nell'incertezza di fonti ufficiali, e nell'impossibilità di raggiungere Keywan Karimi, per accertarsi della sua incolumità, non resta che aumentare ulteriormente la vigilanza democratica e tentare di sensibilizzare al massimo il mondo civile e culturale nei confronti della situazione di Keywan Karimi. Inquieta inoltre la coincidenza fra le date dell'arresto del regista e il festival del documentario che fra qualche settimana inizia a Tehran. Come a volere lanciare un monito a quanti, cineasti e artisti, in prossimità anche delle prossime elezioni, pensavano di far sentire la loro voce.
Chiudere gli occhi non è possibile. A meno che non sia voglia essere complici di questo crimine. Mi raccomando", chiede Keywan Karimi, "fai tutto quello che puoi per fare sapere della mia situazione. Ho bisogno di tutto l'aiuto possibile".

di Giona A. Nazzaro

Russia: la legge sulle Ong ha 4 anni, la società civile è ridotta al silenzio

Corriere della Sera
E' il quarto anniversario dell'entrata in vigore in Russia della legge sugli "agenti stranieri". Fortemente voluta dal presidente Putin ed entrata in vigore il 21 novembre 2012 con l'obiettivo di ostacolare, stigmatizzare e in definitiva ridurre al silenzio le voci critiche delle Ong, la legge ha fatto pagare un prezzo elevato alla società civile russa in termini di chiusura delle sedi di organizzazioni non governative (Ong), attacchi alla reputazione, riduzione dei finanziamenti, intimidazioni e controlli. 

Dal 2012, 148 Ong sono state inserite nel registro degli "agenti stranieri" e 27 di loro hanno cessato le attività. Soggetti che svolgono un importante ruolo nella difesa dei diritti della gente comune o che in molti casi forniscono servizi che lo stato non garantiva, come la difesa legale, il monitoraggio ambientale o il sostegno psicologico alle vittime di discriminazione o di violenza hanno visto bloccato o rischiano di vedersi bloccare un vitale contributo al benessere del paese: Ong considerate impegnate in "attività politiche", sono state infatti etichettate come agenti stranieri. 

A finire nelle maglie della legge sono state Ong impegnate nei campi della discriminazione, della protezione delle donne e delle persone lesbiche, gay, bisessuali, transgender e intersessuate (Lgbti), della conservazione della memoria storica, della ricerca accademica, della giustizia penale e della riforma del sistema penitenziario, dei diritti dei consumatori e di questioni ambientali. In alcuni casi l'applicazione della legge ha dato esiti surreali. Mentre la legge afferma chiaramente che "le attività per proteggere il mondo vegetale e animale" non dovrebbero essere considerare "politiche", almeno 21 Ong ambientaliste sono finite nel registro degli "agenti stranieri". 

Tra queste l'Ong "Dront" che ha sede a Nizhnii Novgorod. "Dront" ha chiesto di essere tolta dal registro ma la sua richiesta è stata rifiutata in quanto riceve "finanziamenti dall'estero". In realtà, le tre donazioni citate erano: 500 rubli dall'Ong russa "Bellona-Murmansk" per un abbonamento alla rivista; un prestito, restituito ancora prima del giudizio, da parte di un'altra Ong ambientalista finita nel registro degli agenti stranieri; e, ancora più sorprendente, un finanziamento da parte di "Sorabotnichestvo" una fondazione della Chiesa ortodossa russa che però riceve piccole donazioni da Cipro. 

L'Unione delle donne del Don ha invece subito una sistematica e accanita persecuzione. Questa Ong è stata tra le prime a finire nel registro degli agenti stranieri. Così, le attiviste hanno creato una nuova Ong, la Fondazione delle donne del Don ma anche questa, nell'ottobre 2015, è stata dichiarata agente straniero. Il 24 giugno 2016 alla presidente Valentina Cherevatenko è stata notificata l'apertura di un'indagine per violazione dell'articolo 330.1 del codice penale, per aver "consapevolmente evaso gli obblighi" ai sensi della legge sugli agenti stranieri. 

Se sarà giudicata colpevole, la donna rischia fino a due anni di carcere. Le autorità russe dovrebbero essere abbastanza forti da accettare critiche costruttive da parte dei gruppi della società civile e da imparare a lavorare con loro, non contro di loro. La legge sugli agenti stranieri mostra invece la loro debolezza e la paura che fa una società civile indipendente. 

di Riccardo Noury

30 Novembre - "Città per la vita" Per dire si alla vita e combattere la pena di morte

Blog Diritti Umani - Human Rights
Il 30 novembre più di 2000 città accendono la speranza di un mondo senza pena di morte. 

A Roma appuntamento il 30 Novembre 
al Colosseo - Arco di Costantino ore 18.30


Diamo voce a chi vuole una giustizia per la vita. Unisciti alla campagna promossa da Sant'Egidio. L'hashtag  è: 
Notizie a aggiornamenti:





martedì 22 novembre 2016

Turchia: governo ritira legge su matrimonio bambine

Blog Diritti Umani - Human Rights
Dopo la forte reazione di sdegno contro la proposta di legge del partito di Erdogan che avrebbe legalizzato lo stupro dei minori con il matrimonio di spose bambine, il disegno di legge è stato ritirato. All'ondata di sdegno hanno parteicipato attivamente molti lettori di questo blog.


ANSAmed
Ankara -Il governo turco ci ripensa e ritira la proposta che avrebbe legittimato - secondo le critiche - i matrimoni per le bambine e che sarebbe dovuta andare in Parlamento oggi per l'approvazione. 

Lo riferiscono fonti dell'esecutivo. Sarà invece sottomessa, per un ulteriore esame, ad una commissione composta da tutti i partiti. Le legge avrebbe consentito un matrimonio riparatore in caso di stupro di una bambina, anche al di sotto dei 16 anni, età minima consentita per le nozze.

Birmania - L'esercito ha ucciso almeno 25 Rohingya contrastando con eccessiva violenza una protesta

Il Post Internazionale
La minoranza di fede musulmana non gode dei diritti di cittadinanza ed è protagonista di un'insurrezione cui l'esercito ha risposto con eccessiva violenza


L’esercito birmano ha ucciso almeno 25 persone in un villaggio rohingya, l’etnia musulmana protagonista di un’insurrezione nell’ovest del paese, domenica 13 novembre 2016.

Secondo quando reso noto dalle forze armate birmane, le persone uccise erano insorti armati di machete e mazze di legno.

Nella giornata di sabato 12 novembre, l’esercito ha lanciato alcuni attacchi con elicotteri militari sui villaggi rohingya nello stato di Rakhine con l’obiettivo di debellare i miliziani, ma immagini e video pubblicati sui social media mostrano tra le vittime anche donne e bambini.

Nel corso del weekend centinaia di persone sono state costrette ad abbandonare le proprie case.

Secondo la Bbc, le informazioni riportate dai media di stato circa l’insurrezione rohingya devono essere valutate con molta cautela, dato che non è possibile verificarle in modo indipendente.

La risposta delle forze armate alle istanze rohingya, una minoranza marginalizzata che non gode dei diritti di cittadinanza, è stata criticata da più parti ma, sorprendentemente, non dal premio Nobel per la pace nonché leader del paese Aung San Suu Kyi.

Venezuela: Foro Penal; 108 prigionieri politici ancora in carcere

voce.com.ve
I prigionieri politici, quelli rinchiusi nelle carceri venezuelane, sono ben 108. Tra questi anche Antonio Ledezma, ex Sindaco di Caracas; Betty Grossi, detenuta nel Sebin; il giovane Raul Emilio Baduel, figlio del generale la cui azione fu determinante nella liberazione dell'estinto presidente Chàvez detenuto nell'isola La Orchila durante il tentativo di "golpe" nel 2002; e l'avvocato Marcello Crovato.


Stando all'avvocato dell'autorevole Ong "Foro Penal Venezolano" fino al mattino del 21 novembre, nelle carceri sparse per il Venezuela, erano ben 108 i prigionieri politici. Alfredo Romero, Direttore della Ong, ha reso noto, attraverso il suo account Twitter, che negli ultimi giorni è stato liberato solamente Rosmit Mantilla. L'accordo preso con il Governo, nell'ultimo incontro avvenuto con l'accompagnamento del Vaticano, sarebbe stato la liberazione della metà dei prigionieri politici.

Alcuni dirigenti dell'Opposizione, specialmente i militanti delle frange più estreme e radicali, considerano che i prigionieri politici sono "ostaggi" in mano del governo che li usa per ricattare il Tavolo dell'Unità. 

Ancora una volta, corre voce della prossima liberazione dell'ex Sindaco di Caracas, l'italo-venezuelano Antonio Ledezma. La famiglia mantiene il massimo riserbo mentre in seno al partito Alianza Bravo Pueblo nè confermano nè smentiscono.