Cosa ne sarà del Medio Oriente, dell’emergenza rifugiati e dell’allarme clima nell’era Trump? Le previsioni di Irin, l’istituto specializzato nell’analisi e nell’informazione delle crisi umanitarie a livello globale
Dal divieto d’ingresso nel Paese ai musulmani, agli elogi alla tortura, fino alla riduzione del cambiamento climatico a un’invenzione della Cina per rendere gli Stati Uniti meno competitivi, le dichiarazioni di Trump hanno fatto tremare gran parte della società civile mondiale. Cosa accadrà però adesso che è diventato presidente? Continueranno le provocazioni e i toni di ferro? Irin, l’istituto specializzato nell’analisi e nell’informazione delle crisi umanitarie a livello globale, ha provato ad analizzare le sfide che aspettano il neoeletto presidente, cercando di capire quali sarebbero le misure che vorrebbe adottare.
Siria, Iraq e Yemen
Se in campagna elettorale, Trump aveva predicato l’intenzione di “distruggere l’Isis”, non è mai sceso nei dettagli del piano strategico che intende adottare. In un dibattito aveva affermato che: “La prima cosa da fare è liberarci dell’Isis, prima ancora di pensare alla Siria,” sostenendo inoltre che un coinvolgimento più profondo nel conflitto siriano provocherebbe la “Terza guerra mondiale” e trascinerebbe gli Stati Uniti in uno scontro diretto con gli alleati di Assad, Iran e Russia. Non è però chiaro queste affermazioni potrebbero essere tradotte nel concreto, non solo in Siria, ma anche in Iraq, dove le truppe americane sono, tra l’altro, attualmente impegnate nella battaglia per la riconquista di Mosul. Lo stesso Trump ha affermato che i suoi piani per combattere lo Stato Islamico rimarranno segreti. Non si è parlato molto dello Yemen durante la campagna elettorale, eppure rappresenta un’altra catastrofe umanitaria in Medio Oriente, con 1,3 milioni di profughi, 14,2 milioni di persone a rischio denutrizione e un coinvolgimento degli Stati Uniti a sostegno della coalizione guidata dall’Arabia Saudita. All’inizio di ottobre, dopo alcuni attacchi arei della coalizione sui civili, la Casa Bianca aveva annunciato che avrebbe iniziato un processo di revisione dell’impegno americano (già precedentemente ridotto, secondo dichiarazioni ufficiali del governo), affermando che l’appoggio militare ai sauditi non è “un assegno in bianco” con cui possano fare quello che vogliono. Secondo Irin, la posizione di Trump in merito al conflitto, non sarebbe affatto chiara. Se da una parte infatti, il neoeletto presidente ha dichiarato preoccupazioni riguardo all’influenza iraniana nella regione, a supporto dei ribelli Houthi, le dichiarazioni rilasciate in merito risultano ancora confuse.
Afghanistan
Obama l’aveva promesso ma il piano di pace è fallito. L’esercito afghano, allo stremo, non è stato in grado di far fronte ai talebani e alle altre milizie, il governo è ancora fragilissimo e le truppe americane rimangono nel Paese, al momento sono circa 10mila e quello in Afghanistan, iniziato nel 2001 dall’allora amministrazione Bush, è diventato il conflitto più lungo della storia americana. Né Trump, né Clinton avevano presentato un piano particolarmente chiaro per l’Afghanistan e, secondo Irin, il motivo sarebbe riconducibile al fatto che nel Paese rimane “un pantano da cui nessun politico americano è in grado di uscire”. Se il neoeletto presidente si troverà anche questa patata bollente tra le mani, la crisi in Afghanistan tocca però anche l’Europa. Nel 2015, 213mila afghani sono arrivati sulle coste greche e italiane, 176mila di questi, hanno fatto richiesta d’asilo secondo i dati dell’Unione Europea. Tra il 50 e il 60 percento delle richieste, però sono state negate.
Cambiamento climatico
Due parole che nel programma Trump risultano praticamente inesistenti. Trump ha promesso che avrebbe stracciato l’accordo di Parigi, dichiarando tra l’altro che: “il cambiamento climatico è un’invenzione dei cinesi per renderci meno competitivi”. Ha inoltre promesso di rendere il Paese indipendente dal punto di vista energetico, ciò significherebbe incentivare il fracking e puntare sui combustibili fossili, aprendo anche nuovi impianti di estrazione, strategie che avrebbero un costo ambientale altissimo.
Rifugiati e immigrazione
Se Hillary Clinton aveva promesso una riforma del sistema che avrebbe aperto la possibilità di acquisire la cittadinanza a 11 milioni di persone che al momento vivono negli Stati Uniti senza documenti, l’approccio di Trump è esattamente l’opposto. Il neo presidente ha infatti dichiarato l’intenzione di sospendere immediatamente l’amnistia degli immigrati irregolari arrivati nel Paese da bambini e ai genitori dei cittadini americani. Il pugno di ferro promesso da Trump contro gli immigrati ha rappresentato un punto chiave nella sua campagna, secondo Irin da questo dipenderà molto del suo consenso tra chi lo ha votato e anche se, nel suo primo discorso dopo l’elezione, ha dichiarato che sarà il “presidente di tutti gli americani”, la promessa del divieto d’ingresso nel Paese ai musulmani, continua a pesare e a preoccupare. Nonostante sia praticamente impossibile vietare l’ingresso in un Paese ad un individuo sulla base del credo religioso, (la maggior parte dei paesi non include questa informazione nel passaporto), in quanto nuovo presidente, Trump avrà comunque il potere di determinare il numero di rifugiati che possono essere ricollocati negli Stati Uniti. Appena lunedì aveva affermato che se fosse stato eletto, avrebbe bloccato l’accesso ai rifugiati siriani, (nel 2016 il governo americano ha accolti 10mila). L’Irin solleva inoltre un tema interessante. Al momento gli Stati Uniti sono il primo finanziatore dell’UNHCR (nel 2015 hanno coperto 40% del budget), ma vista la dichiarata diffidenza di Trump nelle istituzioni multilaterali, tra cui anche le Nazioni Unite, sarà da vedere se il nuovo presidente intenderà confermare questo impegno e gli accordi presi durante il summit di New York del settembre scorso.
Cooperazione internazionale
“America first” è stato il grande slogan di Trump, durante tutta la campagna elettorale. Lo scorso giugno aveva affermato l’importanza di concentrarsi sulle infrastrutture del Paese prima di focalizzarsi sull’estero, dichiarando, letteralmente, in un comizio dello scorso giugno che: “l’America deve smettere di inviare aiuti a Paesi che ci odiano”. Un aumento del budget sugli aiuti internazionali, secondo Irin, sarebbe dunque, altamente improbabile, mentre a concretizzarsi sempre di più sono i tagli, soprattutto ora che i repubblicani hanno il controllo di entrambe le camere al congresso. Ma lo stop agli aiuti potrebbe non fermarsi qui: “l’antipatia di Trump per gli accordi commerciali minaccia alcune intese importanti come l’ African Growth e l’ Opportunity Act volti a stimolare la crescita nel continente africano.”
Estremismi
Una delle incognite più delicate rimane quella del tono usato da Trump. Bisognerà capire se, una volta diventato presidente, continuerà con i toni provocatori e le posizioni potenzialmente più dannose, come il divieto d’ingresso ai musulmani nel Paese e il sostegno della tortura (sulla pratica di waterboarding aveva dichiarato: “Mi piace parecchio. Non credo sia abbastanza dura.”) Secondo l’Irin questa retorica potrebbe rappresentare un boomerang pericoloso. “aiuta i gruppi estremisti, dallo Stato Islamico a Boko haram, fino a al-Shabab, nello sviluppare una propaganda che recluta più persone e rende ilconflitto e le crisi umanitarie ancora più profonde, dalla Nigeria all’Iraq”.
Siria, Iraq e Yemen
Se in campagna elettorale, Trump aveva predicato l’intenzione di “distruggere l’Isis”, non è mai sceso nei dettagli del piano strategico che intende adottare. In un dibattito aveva affermato che: “La prima cosa da fare è liberarci dell’Isis, prima ancora di pensare alla Siria,” sostenendo inoltre che un coinvolgimento più profondo nel conflitto siriano provocherebbe la “Terza guerra mondiale” e trascinerebbe gli Stati Uniti in uno scontro diretto con gli alleati di Assad, Iran e Russia. Non è però chiaro queste affermazioni potrebbero essere tradotte nel concreto, non solo in Siria, ma anche in Iraq, dove le truppe americane sono, tra l’altro, attualmente impegnate nella battaglia per la riconquista di Mosul. Lo stesso Trump ha affermato che i suoi piani per combattere lo Stato Islamico rimarranno segreti. Non si è parlato molto dello Yemen durante la campagna elettorale, eppure rappresenta un’altra catastrofe umanitaria in Medio Oriente, con 1,3 milioni di profughi, 14,2 milioni di persone a rischio denutrizione e un coinvolgimento degli Stati Uniti a sostegno della coalizione guidata dall’Arabia Saudita. All’inizio di ottobre, dopo alcuni attacchi arei della coalizione sui civili, la Casa Bianca aveva annunciato che avrebbe iniziato un processo di revisione dell’impegno americano (già precedentemente ridotto, secondo dichiarazioni ufficiali del governo), affermando che l’appoggio militare ai sauditi non è “un assegno in bianco” con cui possano fare quello che vogliono. Secondo Irin, la posizione di Trump in merito al conflitto, non sarebbe affatto chiara. Se da una parte infatti, il neoeletto presidente ha dichiarato preoccupazioni riguardo all’influenza iraniana nella regione, a supporto dei ribelli Houthi, le dichiarazioni rilasciate in merito risultano ancora confuse.
Afghanistan
Obama l’aveva promesso ma il piano di pace è fallito. L’esercito afghano, allo stremo, non è stato in grado di far fronte ai talebani e alle altre milizie, il governo è ancora fragilissimo e le truppe americane rimangono nel Paese, al momento sono circa 10mila e quello in Afghanistan, iniziato nel 2001 dall’allora amministrazione Bush, è diventato il conflitto più lungo della storia americana. Né Trump, né Clinton avevano presentato un piano particolarmente chiaro per l’Afghanistan e, secondo Irin, il motivo sarebbe riconducibile al fatto che nel Paese rimane “un pantano da cui nessun politico americano è in grado di uscire”. Se il neoeletto presidente si troverà anche questa patata bollente tra le mani, la crisi in Afghanistan tocca però anche l’Europa. Nel 2015, 213mila afghani sono arrivati sulle coste greche e italiane, 176mila di questi, hanno fatto richiesta d’asilo secondo i dati dell’Unione Europea. Tra il 50 e il 60 percento delle richieste, però sono state negate.
Cambiamento climatico
Due parole che nel programma Trump risultano praticamente inesistenti. Trump ha promesso che avrebbe stracciato l’accordo di Parigi, dichiarando tra l’altro che: “il cambiamento climatico è un’invenzione dei cinesi per renderci meno competitivi”. Ha inoltre promesso di rendere il Paese indipendente dal punto di vista energetico, ciò significherebbe incentivare il fracking e puntare sui combustibili fossili, aprendo anche nuovi impianti di estrazione, strategie che avrebbero un costo ambientale altissimo.
Rifugiati e immigrazione
Se Hillary Clinton aveva promesso una riforma del sistema che avrebbe aperto la possibilità di acquisire la cittadinanza a 11 milioni di persone che al momento vivono negli Stati Uniti senza documenti, l’approccio di Trump è esattamente l’opposto. Il neo presidente ha infatti dichiarato l’intenzione di sospendere immediatamente l’amnistia degli immigrati irregolari arrivati nel Paese da bambini e ai genitori dei cittadini americani. Il pugno di ferro promesso da Trump contro gli immigrati ha rappresentato un punto chiave nella sua campagna, secondo Irin da questo dipenderà molto del suo consenso tra chi lo ha votato e anche se, nel suo primo discorso dopo l’elezione, ha dichiarato che sarà il “presidente di tutti gli americani”, la promessa del divieto d’ingresso nel Paese ai musulmani, continua a pesare e a preoccupare. Nonostante sia praticamente impossibile vietare l’ingresso in un Paese ad un individuo sulla base del credo religioso, (la maggior parte dei paesi non include questa informazione nel passaporto), in quanto nuovo presidente, Trump avrà comunque il potere di determinare il numero di rifugiati che possono essere ricollocati negli Stati Uniti. Appena lunedì aveva affermato che se fosse stato eletto, avrebbe bloccato l’accesso ai rifugiati siriani, (nel 2016 il governo americano ha accolti 10mila). L’Irin solleva inoltre un tema interessante. Al momento gli Stati Uniti sono il primo finanziatore dell’UNHCR (nel 2015 hanno coperto 40% del budget), ma vista la dichiarata diffidenza di Trump nelle istituzioni multilaterali, tra cui anche le Nazioni Unite, sarà da vedere se il nuovo presidente intenderà confermare questo impegno e gli accordi presi durante il summit di New York del settembre scorso.
Cooperazione internazionale
“America first” è stato il grande slogan di Trump, durante tutta la campagna elettorale. Lo scorso giugno aveva affermato l’importanza di concentrarsi sulle infrastrutture del Paese prima di focalizzarsi sull’estero, dichiarando, letteralmente, in un comizio dello scorso giugno che: “l’America deve smettere di inviare aiuti a Paesi che ci odiano”. Un aumento del budget sugli aiuti internazionali, secondo Irin, sarebbe dunque, altamente improbabile, mentre a concretizzarsi sempre di più sono i tagli, soprattutto ora che i repubblicani hanno il controllo di entrambe le camere al congresso. Ma lo stop agli aiuti potrebbe non fermarsi qui: “l’antipatia di Trump per gli accordi commerciali minaccia alcune intese importanti come l’ African Growth e l’ Opportunity Act volti a stimolare la crescita nel continente africano.”
Estremismi
Una delle incognite più delicate rimane quella del tono usato da Trump. Bisognerà capire se, una volta diventato presidente, continuerà con i toni provocatori e le posizioni potenzialmente più dannose, come il divieto d’ingresso ai musulmani nel Paese e il sostegno della tortura (sulla pratica di waterboarding aveva dichiarato: “Mi piace parecchio. Non credo sia abbastanza dura.”) Secondo l’Irin questa retorica potrebbe rappresentare un boomerang pericoloso. “aiuta i gruppi estremisti, dallo Stato Islamico a Boko haram, fino a al-Shabab, nello sviluppare una propaganda che recluta più persone e rende ilconflitto e le crisi umanitarie ancora più profonde, dalla Nigeria all’Iraq”.
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