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martedì 15 novembre 2016

Un anno dopo: vie di fede e di pace. Oltre Bataclan

Avvenire
di Marco Impagliazzo
Un anno fa un commando jihadista fece strage al teatro Bataclan, a Parigi. L’attacco ha inaugurato una stagione in cui l’Europa occidentale è ridivenuta scenario di atti terroristici e ha fatto emergere il problema della radicalizzazione dei giovani musulmani. Dopo il Bataclan, Bruxelles, Nizza, Rouen, la Germania.


Nell’ultimo anno la convivenza tra uomini e donne di fedi diverse è sembrata più difficile. Ma se tanti hanno parlato di muri da erigere, tanti altri hanno lavorato per costruire ponti di rispetto e di dialogo. La Chiesa di Francia ha brillato per dignità e ricerca di vie di incontro. Per questo triste anniversario i vescovi francesi hanno scritto tra l’altro: «Preghiamo perché i nostri concittadini musulmani possano essere pienamente attori della nostra unità nazionale e perché tutti i cittadini crescano nella stima reciproca e nella ricerca del bene comune».

Sono parole che si uniscono a quelle di papa Francesco, che in tante occasioni ha rilevato come «il dialogo ecumenico e interreligioso non [sia] un lusso, ma qualcosa di cui il mondo, ferito da conflitti e divisioni, ha sempre più bisogno». 

Ovvero molti musulmani, uomini e donne di pace che si ribellano a che la loro religione sia presa in ostaggio da un pugno di estremisti violenti. 

Pochi mesi fa il grande imam di al-Azhar, al-Tayyib, la più alta autorità dell’islam sunnita, ha voluto rendere omaggio alle vittime dell’eccidio di Parigi, dicendo: «Noi imam dobbiamo rinnovare il nostro discorso, parlando di integrazione e coesistenza. Il musulmano è fratello del non musulmano».

Del resto, la questione è più larga. Il Bataclan ci ha insegnato che bisogna cercare insieme la sicurezza. Ad Assisi, a settembre, si è detto che le religioni devono essere alleate in nome di una pace che – sola – è santa. Ma, anche, che si deve guardare con più attenzione al vuoto che alberga nel cuore di tanti giovani occidentali, offrire loro una mano amica, una speranza, il senso di una comunità. Prima che sia troppo tardi.

Olivier Roy, orientalista francese, ha sviluppato un’analisi originale della presa del jihadismo tra i giovani europei. Ha sostenuto che i terroristi coinvolti negli attentati di Parigi non vivevano una fede comunitaria e che il loro era un «individualismo forsennato» e violento, da «eroi» solitari, in lotta contro tutto e tutti. Il jihad, per loro, era alla fin fine quanto di più simile alle «passioni tristi» e al nichilismo che i media e una vita senza reti alimentano, garantiva «il maggiore grado di rifiuto del sistema», era «l’unica causa radicale sul mercato».

Il problema non è tanto – o non è solo – quello di una necessaria vigilanza contro l’estremismo religioso. Dobbiamo renderci conto del dramma delle giovani generazioni, in particolare di quelle che vivono nelle periferie urbane, della loro emarginazione e mancanza di prospettive. Qui si insinua il radicalismo jihadista, mentre d’altra parte pesa la mancanza di padri e di maestri, l’allentarsi dei legami, lo sfocarsi delle visioni comuni.

Una donna musulmana Latifa ibn Ziaten, madre di Imad, parà francese di origine marocchina, assassinato a Tolosa nel marzo 2012 da un franco-algerino radicalizzatosi in prigione, ha scritto: «Daesh disumanizza i giovani, li svuota. Non hanno più pietà perché sono stati svuotati dell’amore. L’anno scorso ho visto più di 9mila studenti. C’è sofferenza e mancanza di speranza. I giovani che abitano nelle periferie soffrono della mancanza di […] adulti che possano dar loro una speranza, ce ne sono pochi oggi. […] Per me, la radicalizzazione ha le sue radici nella sofferenza, nell’oblio in cui è lasciata questa generazione che sta crescendo. […] È un lavoro in profondità, un lavoro da formiche. Bisogna guarire la cicatrice prima che si ampli». Oggi questa donna ha fondato un’associazione che parla ai giovani per sensibilizzarli e prevenire ogni deriva estremista.

L’anniversario del Bataclan ci deve svegliare. Non per gridare o alzare muri, ma per metterci al lavoro per colmare il vuoto di legami e di sogni che la nostra società ha finito per creare. Iniziando a riempirlo di senso, di gesti, di parole, di scelte. Lo dobbiamo alle vittime, a noi stessi. E alla generazione del futuro.

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