In Myanmar la minoranza musulmana dei Rohingya si trova da due mesi sotto attacco dell’esercito governativo che ha spinto i profughi fino alla frontiera con il Bangladesh dove le guardie di confine hanno impedito loro l’accesso anche dal mare. Aumentati gli scontri nelle ultime settimane fra un gruppo militante della minoranza e il Tatmadaw, l’esercito governativo, nello Stato di Rakhine, dove si parla di almeno 90 morti dall’inizio di ottobre e 30mila sfollati.
A descrivere la comunità dei Rohingya e l’attuale situazione Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International, nell’intervista di Sabrina Spagnoli:
R. – I Rohingya sono una popolazione che vive prevalentemente nel nord del Myanmar; sono di religione musulmana e considerati dalla maggior parte del Paese e dal governo nient’altro che immigrati provenienti dal Bangladesh, ai quali da diversi anni è stata tolta la cittadinanza. Quindi di fatto sono degli apolidi. Fuggono da una persecuzione molto forte che si è acutizzata negli ultimi mesi. Vanno verso il Bangladesh via terra e molto spesso prendono il mare in direzione dell'Indonesia o della Malesia.
D. - Per quali ragioni il Myanmar non riconosce loro la cittadinanza?
R. - Perché ormai li considera degli stranieri a differenza di quanto sostengono i Rohingya, i quali affermano di essere una popolazione nativa. Sono considerati come dei contadini arrivati dal Bangladesh successivamente all’indipendenza di quel Paese e arrivati per di più in maniera irregolare e che dunque non hanno titolo di rimanere all’interno del Myanmar.
D. - Com’è attualmente la situazione al confine con il Bangladesh?
R. - Il Bangladesh in questi anni ha ospitato, prevalentemente in maniera irregolare, dunque tollerata, sopportata a volte, la presenza dei Rohingya. Una grande quantità di profughi in fuga dal Myanmar è stata ricacciata indietro; si calcola siano anche 500mila quelli senza protezione legale, senza documenti. Negli ultimi mesi - soprattutto dal 9 ottobre quando ci sono stati attacchi mai rivendicati contro posti di polizia dello Stato di Rakhine, quello dove vivono i Rohingya, nel nord del Myanmar - c’è stata un’ulteriore fuga di 30mila persone. A ottobre, come rappresaglia nei confronti di quegli attacchi, c’è stata una campagna che mirava alla distruzione, incendio di villaggi, uccisioni, stupri e torture. Circa 30milia, forse anche 33mila, sono arrivati di nuovo in Bangladesh e le autorità di questo Paese hanno cominciato a rimandarne indietro a centinaia.
D. - Ultimamente ci sono state tensioni fra John McKissick, capo dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati, e la capitale birmana. Qual è la natura di questa polemica?
R. - È legata al fatto che le autorità del Myanmar, tacitamente tollerano che ci sia una forte repressione nel nord del Paese o vi collaborano attivamente. Questa tensione però, a quanto pare, ha dato dei risultati di cui dobbiamo vedere la portata, perché il 1° dicembre il Presidente del Myanmar ha ordinato la creazione di una commissione di inchiesta che deve dire, entro il 31 dicembre del 2017, cosa stia succedendo nello Stato di Rakhine, che tipo di persecuzione stia colpendo i Rohingya, chi ne sono i responsabili e suggerire delle misure per riportare la calma in quell’area che è completamente sigillata; questo è stato un altro motivo di tensione tra il capo dell’Alto Commissariato Onu per i rifugiati e il governo del Myanmar.
D. - Quindi se già nel 2012 si è parlato di pulizia etnica, di fatto si sta ripetendo ancora una volta?
R. - Sì, con caratteriste pressoché analoghe, cioè una campagna di terra bruciata che costringe le persone a fuggire dai villaggi che vengono dati alle fiamme, le donne vengono stuprate, i civili vengono uccisi. La scelta è varcare il confine con il Bangladesh, ma abbiamo visto che ultimamente questo Paese li sta rimandando indietro in Myanmar. L’altra soluzione è prendere il mare, ma nel 2015 dopo un’altra campagna di persecuzione, c’è stato un eccidio in mare perché a centinaia e centinaia sono morti durante il tentativo di salvarsi prendendo il largo.
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