Vatican Insider
Sensibilizzano l’opinione pubblica e promuovono una «resistenza non-convenzionale». Le chiese aprono le porte a dissidenti e latitanti, come nell’era Marcos
Guardare la realtà con gli occhi del Vangelo. Anche attraverso un teleobiettivo. Armato della sua inseparabile macchina fotografica, Ciriaco Santiago, religioso filippino dell’Ordine dei Redentoristi, ha trovato una forma tutta personale di missione, mentre la cronaca riporta in evidenza la campagna di esecuzioni extragiudiziali in corso contro spacciatori di droga e tossicodipendenti, con le sue drammatiche conseguenze.
Si tratta della nota crociata anti-droga lanciata dal presidente Rodrigo Duterte, che ha mietuto in otto mesi di governo oltre 7.600 vittime, 2.500 delle quali uccise dalla polizia (in presunti scontri a fuoco con i criminali), e altre 5mila giustiziate da «squadroni di vigilantes» che, secondo un recente rapporto di Amnesty International, sono al soldo delle forze dell’ordine per fare il «lavoro sporco» e ripulire le strade dalla criminalità con metodi sbrigativi, e senza passare per le lungaggini della giustizia ordinaria o di un legale processo.
Una vera e propria «Licenza di uccidere», come si intitola l’ultimo rapporto dell’Ong Human Rights Watch, pubblicato agi inizi di marzo, che parla di «crimini contro l’umanità».
Ogni sera Santiago, da provetto prete-fotoreporter, gira per i meandri della città e frequenta le aree malfamate dell’area metropolitana di Manila per documentare la violenza. Le scene ritratte sono raccapriccianti. Cadaveri abbandonati in una pozza di sangue. Corpi mutilati o con segni di torture. Adolescenti crivellati di colpi alle spalle.
«Far conoscere questa barbarie legalizzata è un lavoro umanitario, prima che di cronaca», nota fratello Santiago che intende contribuire a «coscientizzare l’opinione pubblica sulle flagranti violazioni dello stato di diritto e della legalità, per fermare la strage». «Il giornalismo può servire davvero all’interesse pubblico e al bene della comunità», spiega a Vatican Insider.
Anche perchè con le sue foto i Redentoristi hanno realizzato una mostra fotografica in grandi pannelli esposti all’ingresso del santuario di Baclaran, una chiesa molto popolare a Manila. E, accanto alla reazione di sdegno dei fedeli, non è tardata quella violenta di bande che nottetempo hanno rubato o distrutto quegli scomodi pannelli.
Il forte dissenso della Chiesa cattolica filippina verso i metodi «da giustiziere» di Duterte è ormai noto. Tanti e diversi sono stati i pronunciamenti di cardinali, vescovi e preti, e l’ultima «marcia per la vita», tenutasi un mese fa a Manila, si è trasformata in un vivace corteo di protesta di 10mila fedeli contro i metodi del presidente, promotore di un «regno del terrore» assimilabile alla dittatura di Ferdinando Marcos.
I nuovi provvedimenti legislativi annunciati dal governo – come il ripristino della pena di morte o l’abbassamento della soglia di età per la responsabilità penale fino a 9 anni – non fanno altro che aumentare l’attrito e il divario tra gerarchia cattolica e governo. La Chiesa specifica che «non è contro Duterte» ma che ritiene i diritti umani, la giustizia, il rispetto della vita valori di estrema importanza.
Ma le parole non bastano. La comunità dei battezzati ha cercato strade concrete per frenare l’ondata di esecuzioni che insanguina il paese. È nata così la campagna «Porte aperte» nelle chiese filippine, che hanno iniziato ad accogliere latitanti e tossicodipendenti che rischiano di essere uccisi a sangue freddo.
A Quezon City, quartiere della metro-Manila - la metropoli formata dall’insieme di 15 città - il carmelitano Gilbert Billena è uno dei preti-coraggio che ospitano tra le mura delle parrocchia i nuovi «rifugiati». Billena è coinvolto nell’associazione «Rise Up» («Alzatevi!»), nata proprio con lo scopo di resistere alla campagna anti-droga, definita «illegale, immorale, disumana».
Con lui vi sono altri sacerdoti che sfidano apertamente Duterte in quella che è stata definita una «resistenza non-convenzionale»: Amando Picardal dal pulpito non perde occasione per denunciare il presidente come «assetato di sangue» e «in preda al complesso del Messia»; altri come il missionario belga Hans Stapel o l’irlandese Shay Cullen sono impegnati a guidare comunità di recupero per tossicodipendenti: un’opera paradigmatica per mostrare al governo che la via per condurre una «guerra alla droga» è la sensibilizzazione culturale e la riabilitazione dei drogati, non la loro soppressione.
Da questa convinzione nasce l’impegno a ospitare i «nuovi rifugiati» nelle chiese, secondo una tradizione adottata durante l’era Marcos, quando gli edifici sacri erano porto franco per attivisti, giornalisti, politici e intellettuali dichiarati «nemici dello stato».
È quanto è accaduto pochi giorni fa alla senatrice Leila de Lima, fiera oppositrice politica di Duterte. Ex Ministro per la Giustizia nel governo del predecessore di Duterte, Benigno Aquino jr, de Lima è stata arrestata con la grave accusa di complicità con i boss del narcotraffico, sulla base di testimonianze del suo autista, e rischia l’ergastolo.
La donna, a capo della commissione per i diritti umani che da anni aveva puntato il dito contro il Presidente in carica, si dichiara innocente e grida al complotto. La vicenda segna un «passaggio di Rubicone» nell’era Duterte: inizia la repressione della dissidenza politica.
Paolo Affatato
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