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sabato 4 marzo 2017

Ucraina, la tragedia dimenticata «Una Siria nel cuore d’Europa»

Corriere della Sera
Dopo tre anni di combattimenti nell’Est del paese tra governativi e filorussi, la tregua raggiunta a metà febbraio sembra fragile. Di certo Kiev non vuole cedere il Donbass come dovette fare con la Crimea, annessa da Mosca nel 2014. Sullo sfondo, le prove d’intesa Usa-Russia e l’incapacità dell’Europa di assumere un ruolo incisivo. Il risultato è una situazione umanitaria drammatica, con milioni di profughi e lo spettro della bancarotta.



Chi ha ucciso Givi? I governativi, i rivali interni allo stesso schieramento filorusso, uomini di Mosca… Fuoco e neve nell’inverno del Donbass, ombre dietro palazzoni vuoti e finestre senza vetri. L’escalation di violenza di gennaio è rientrata ma la situazione sul campo, nelle parole degli osservatori Osce, resta «confusa» e poco promettente anche dopo il ritiro dell’artiglieria pesante dalla linea del fronte secondo le condizioni dell’ultimo cessate il fuoco concordato a metà febbraio.

La presa dell’aeroporto
Alle tregue, nell’Est dell’Ucraina stremato da tre anni di combattimenti a bassa intensità, non crede più nessuno. Givi, nome di battaglia di Mikhail Sergeievic Tolstikh, era uno dei comandanti entrati nella leggenda delle forze separatiste filorusse, distintosi nella presa dell’aeroporto di Donetsk nel gennaio 2015. Aveva 36 anni, guidava il battaglione «Somalia». Nel giorno del funerale, il 10 febbraio, le sue spoglie sono state esposte all’Opéra di Donetsk, avvolte nella bandiera del battaglione, mentre fuori centinaia di persone in coda aspettavano di rendergli omaggio. La fragile tregua negoziata nei colloqui di Minsk, in Bielorussia, franava mentre nel bacino carbonifero del Donbass si tornava a picchiare duro. Gli scontri sono riesplosi in sospetta coincidenza con la ripresa dei contatti tra il Cremlino di Vladimir Putin e il nuovo presidente degli Stati Uniti, Donald Trump. I due leader si ripromettevano di superare le spigolosità dell’ultima era Obama e si scambiavano convenevoli telefonici. A Donetsk piovevano colpi di mortaio. Putin ha subito attribuito la responsabilità delle nuove violenze a Kiev, accusata di strumentalizzare le sofferenze della popolazione per convincere Washington a non chiudere il suo ombrello protettivo sull’Est Europa. Da parte sua il governo centrale intende davvero resistere per il Donbass come non fu possibile per la Crimea, annessa nel 2014 alla Federazione russa.

Milioni di profughi
Tre anni dopo la rivolta filo-europea di Piazza Maidan, il Paese è al terzo governo e in piena crisi umanitaria. Da Kiev, e ancor più da Donetsk, Bruxelles è lontanissima. L’Ucraina è una carta di scambio svalutata nel grande gioco tra Mosca e l’Occidente. Una tragedia dimenticata. I numeri. Oltre un milione di profughi da Donbass e Crimea fuggiti all’estero; 1,7 milioni di sfollati interni; più di 5 milioni di persone coinvolte nella crisi umanitaria nei territori orientali. Di questi ultimi, 1,4 milioni sono considerati altamente vulnerabili. Organizzazione mondiale della Sanità e associazioni gestiscono le emergenze con postazioni mobili per il trattamento delle malattie trasmissibili come tubercolosi, Hiv e polio ma la situazione resta critica. Mancano farmaci e assistenza medica di base.

La coltre di silenzio
Nel Donbass gli operatori umanitari distribuiscono pane e minestre calde a una popolazione rassegnata. Al Forum Europa-Ucraina organizzato a fine gennaio dall’Istituto di Studi orientali di Varsavia nella cittadina polacca di Rzeszow, vicina al confine sud-orientale, operatori e politici ucraini denunciavano la coltre di silenzio calata sulla «Siria nel cuore d’Europa». In attesa che l’annunciato disimpegno americano prenda forma concreta, Kiev richiama la Ue alle sue responsabilità, mentre i russi invitano a non sottovalutare i possibili benefici del nuovo «approccio pragmatico e realista» dell’Amministrazione Trump alla politica internazionale. Approccio per di più marcato da forte instabilità, considerato il gioco delle parti tra Washington e Mosca che non risparmiano dichiarazioni roboanti — le più recenti sulla supremazia nucleare — per confermare i rispettivi ruoli di potenze tutrici dell’ordine mondiale post-Guerra fredda .

La paralisi europea
Iniziative politiche europee? Poco probabili. I due round negoziali di Minsk che avevano portato all’accordo sul cessate il fuoco del 2015 erano sorretti dalla mediazione franco-tedesca. Oggi a Parigi François Hollande si prepara a lasciare l’Eliseo e in prima fila tra chi non vede l’ora di prendere il suo posto c’è Marine Le Pen con il suo programma protezionista e nazionalista. Si vota pure a Berlino e Angela Merkel si barcamena tra l’improvviso rinvigorimento dei socialdemocratici trascinati da Martin Schulz e l’ascesa della destra estrema di Frauke Petry. Il dossier Ucraina dovrebbe fare capo a Bruxelles, a sua volta alle prese con crisi interne ed esterne, in primis la gestione dei flussi migratori ostacolata anche dai contrasti Est-Ovest. Tra i Paesi capofila del fronte centro-orientale contrario alla politica di spartizione dei profughi c’è la Polonia, che non perde occasione di ricordare il suo già forte impegno con gli alti numeri di immigrati… dall’Ucraina.

La bancarotta sfiorata
Miseria e violenza legate al conflitto nelle regioni orientali si aggiungono alle debolezze strutturali del sistema economico nazionale che nell’era post-sovietica non è mai decollato, ma è rimasto arretrato e ostaggio di una dilagante corruzione. Con annessa dipendenza, soprattutto energetica, dalla Russia. Il Paese fino ad oggi ha evitato la bancarotta grazie ai prestiti occidentali e al salvataggio del Fondo monetario internazionale. Il programma quadriennale da 17,5 miliardi di dollari concordato nel marzo 2015 con l’Fmi procede con il graduale scongelamento di tranche di aiuti in cambio di riforme. Riforme che il governo centrale di Kiev porta faticosamente avanti. Le misure di austerità si traducono spesso in tagli ai servizi e manovre di decentramento amministrativo che comportano alti costi sociali, ad esempio la chiusura di scuole e ospedali non più coperti dai fondi statali ma affidati ad autorità municipali a corto di risorse

Maria Serena Natale

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