Lettera43
Nelle carceri libiche sono detenuti decine di bambini. Il governo non vuole trattare per liberarli e la popolazione protesta contro il ritorno dei genitori. Così crescono gli estremisti del futuro.
Nelle carceri libiche sono detenuti decine di bambini. Il governo non vuole trattare per liberarli e la popolazione protesta contro il ritorno dei genitori. Così crescono gli estremisti del futuro. Il nonno di Tamim Jendoubi vive a Tadamon, uno dei sobborghi più poveri di Tunisi. Nel salotto di casa, spoglio e bersagliato dall'afa, custodisce alcune foto del nipotino.
In quegli scatti è appena un neonato, ma oggi Tamim ha già tre anni e quello che ormai è il suo parente più prossimo teme di non riconoscerlo più. Tamim è lontano, solo e prigioniero, orfano di entrambi i genitori da quando ne ha uno e mezzo. È nato ad Antalya, nel Sud della Turchia, mentre suo padre, tunisino di origine, combatteva in Siria sotto le insegne dello Stato Islamico. Quando questo soldato del Califfato si è spostato in Libia, madre e figlio lo hanno seguito per un breve periodo prima di rientrare a casa.
Ed è lì che hanno scoperto che per loro tirava una brutta aria: la polizia tunisina, infatti, perquisiva quasi quotidianamente e in maniera brutale la loro abitazione, costringendoli alla fine a riparare di nuovo al di là del confine libico. Dove nel febbraio 2016 Tamim Jendoubi ha visto mamma e papà cadere sotto le bombe di un attacco americano al campo di addestramento dell'Isis di Sabrata. Da allora, se possibile, la sua situazione è anche peggiorata: da più di un anno Tamim si trova nel carcere di Mitiga, a poca distanza dall'aeroporto di Tripoli, e suo nonno ha passato la frontiera con la Libia due volte per provare a riportarlo a casa. Senza successo.
A raccontarmi la storia di Tamim, e dei molti altri bimbi che si trovano nella stessa situazione, è Mohammed Iqbal: 40 anni, dipendente di una compagnia telefonica locale, dal 2013 lotta per riportare a casa i figli dei foreign fighter tunisini rinchiusi nelle carceri libiche. La sua è stata una vita ordinaria sino a quando, quattro anni fa, la sua esistenza venne stravolta dalla partenza di suo fratello per la Siria.
Per reagire Mohammed ha fondato la Rescue Association for Tunisian Trapped Abroad, diventando l'interlocutore tra le famiglie dei foreign fighter e il governo del suo Paese. Un problema su cui nessuno vigila e che nessuno pare intenzionato a risolvere, ma capace di mettere in mostra numeri impressionanti.
La Tunisia, infatti, è lo Stato che ha fornito in assoluto più combattenti ai jihadisti in Libia, Siria e Iraq: secondo il governo sarebbero 2.926 ma per le Nazioni Unite potrebbero essere almeno il doppio. E i figli di jihadisti reclusi nelle carceri libiche, quasi sempre in compagnia delle madri - quello di Tamim, orfano di entrambi i genitori, è un caso limite - sono moltissimi. "Negli ultimi nove mesi sono arrivate decine di nuove segnalazioni", mi racconta Iqbal in un caldo e lento pomeriggio di Ramadan sull'Avenue Bourguiba di Tunisi, il viale della rivoluzione che nel 2011 destituì il presidente Ben Ali dopo 24 anni di dittatura. "Nel carcere di Mitiga ora si contano 22 minori mentre 17 sono reclusi a Misurata".
Secondo quanto riportato lo scorso aprile da Ibtissem Jebabli, parlamentare del partito Nidaa Tounes, nella terza città libica, i minorenni reclusi hanno un'età compresa tra i 13 e i 15 anni mentre altri sette, dei quali non si conosce l'età, si trovano fuori dalla struttura penitenziaria sotto la protezione della Mezzaluna Rossa.ù
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