Tra i cunicoli della capitale afghana dove si rifugiano i disperati. Boom della droga dopo il ritiro della Nato: dal 2014 raccolti record.
Kabul: Il muezzin chiama alla preghiera ma qui sotto nessuno l’ascolta. Dalla piatta lingua d’asfalto che attraversa il cuore di Kabul sbucano come file di formiche, sguardi assenti su gambe incerte. La discesa è veloce, la salita ripidissima.
Qui abita l’esercito dei drogati d’oppio. Centinaia di visi scavati su mandibole sdentate, scheletri di abiti un tempo beige vanno e vengono dal ventre della città. Un flusso incessante che rallenta solo quando sul marciapiede c’è un corpo sdraiato, lo si nota appena sotto il tondo del pakol (berretto afghano) per via dell’erba alta. Scavalcare i cadaveri rallenta il via vai, ma nessuno si lamenta. Dai bordi della strada, nei punti in cui le corsie si allargano, basta buttare l’occhio verso il basso per scoprire che c’è una Kabul parallela. Gli uomini accovacciati preparano la dose per loro stessi e per i bambini incollati addosso. Allungano le mani, si spingono come a contendersi una merenda troppo ghiotta.
Dei due milioni di afghani sotto la soglia di povertà, 1,3 sono bambini. In un Paese in cui la produzione di oppio raggiunge l’80% del totale mondiale, non può stupire se 1,6 milioni di abitanti ne è dipendente. In questa miseria umana non mancano le donne.
Una di loro stringe un neonato, fuma oppio, contrae i muscoli del viso e poi espira svuotando i polmoni sulle labbra del piccolo che risponde con un misto di tosse e lacrime.
Poi d’improvviso s’addormenta di un sonno profondo. L’oppio allenta i morsi allo stomaco trasmettendo per qualche minuto un fittizio senso di sazietà. Gruppetti di fortunati si fanno la loro dose sdraiati, sotto l’asse di un wc che regala un’ombra.
L’aria pesa di discarica. Residui di frutta sono piatto prelibato per i topi. Si fatica a trattenere la nausea, anche a distanza, in questo luglio in cui il caldo amplifica odori e rumori. Un anziano ripiegato sulla sua barba si accarezza le ginocchia e poi fa perno con le mani, per alzarsi. Incurva la schiena per trovare la stabilità, si aggiusta il kurta e affronta la salita, masticando palline d’oppio. Non fa caso agli sguardi estranei. Non vede. O non gli importa. C’è invece chi non gradisce la curiosità occidentale. Un giovane urla, gesticola e le sue scarpe lucide si avvicinano a passo svelto. «È uno spacciatore. È meglio andarcene» sentenzia Asif, aprendo velocemente lo sportello dell’auto. Lo sguardo patinato di Massud, il «leone dei Panjshir» assiste da un cartellone pubblicitario allo sciame di mendicanti che avvolge l’auto. Non sono più solo i bambini con occhi grandi a bussare contro i vetri. Dieci anni fa erano loro i soli protagonisti di questa infinita questua.
Oggi gli angoli delle strade sono colorati di burqa azzurri: donne, senza uomini. Ci sono soprattutto loro a chiedere qualcosa, qualsiasi cosa, con il viso e il corpo nascosti e una mano sempre tesa in avanti. «C’è molta più fame di qualche anno fa. La situazione sta precipitando e le famiglie non sanno più come sopravvivere - spiega Asif, 40 anni, impiegato con tre figli - Sono fortunato ma so guardarmi attorno. E quello che vedo non mi fa dormire». Dopo il ritiro delle truppe Nato nel 2014 la situazione è precipitata. Mentre il resto del Paese, soprattutto la provincia di Helmand, ha «festeggiato» la notizia con un raccolto di oppio da record (18 chili per ettaro, proprio nel 2014), nella capitale le ricadute sono state disastrose.
«L’indotto che lavorava con i militari - spiega Quhar, commerciante nato e cresciuto a Kabul - si è ritrovato a fare i conti con la mancanza dell’unica fonte di reddito. E il futuro si presenta peggiore del presente. L’Isis sta già straziando la regione di Kunar e quelle al confine con il Pakistan, ci metterà ko». Le prime vittime hanno già pagato. Faridon ha 36 anni, due figli e una casa accogliente in una via centrale. «Un mese fa, prima di quel 31 maggio, ero un altro uomo - guarda verso quella gamba che non c’è più - Erano le 8. Ero in macchina davanti all’ambasciata americana e pensavo a mio figlio, il maggiore. Studia inglese e la mattina recita una poesia. Mi rende allegro anche se non capisco il significato» sorride scuotendo la testa, poi si rifà serio. «D’un tratto ho sentito un gridare “Allahu Akbar”. Poi il botto». Nel bilancio di 90 morti e 300 feriti dell’attentato rivendicato dall’Isis, Faridon si sente «vivo a metà. Un po’ sono morto anch’io». I figli gli arricciano i capelli e poi continuano a giocare con le stampelle mimando gli spadaccini. Quelle gambe di legno chiaro non sono oggetti misteriosi. Le vedono spesso sotto le esili ascelle dei coetanei. Nel 2016 sono saltati su una mina 1636 afghani, quasi la metà bambini.
Fuori la città inghiotte i pensieri in una nuvola di smog. Un carretto taglia la strada, carico di meloni ed energy drink. Un posto di blocco, l’ennesimo. Esercizio «obbligato» con cui polizia ed esercito afghani mostrano i muscoli e un presunto controllo del territorio. Poi dritti verso la guest house. «È quasi buio. Kabul di notte non è sicura». «La notte» ripete a se stesso, con tono poco convinto.
Oggi gli angoli delle strade sono colorati di burqa azzurri: donne, senza uomini. Ci sono soprattutto loro a chiedere qualcosa, qualsiasi cosa, con il viso e il corpo nascosti e una mano sempre tesa in avanti. «C’è molta più fame di qualche anno fa. La situazione sta precipitando e le famiglie non sanno più come sopravvivere - spiega Asif, 40 anni, impiegato con tre figli - Sono fortunato ma so guardarmi attorno. E quello che vedo non mi fa dormire». Dopo il ritiro delle truppe Nato nel 2014 la situazione è precipitata. Mentre il resto del Paese, soprattutto la provincia di Helmand, ha «festeggiato» la notizia con un raccolto di oppio da record (18 chili per ettaro, proprio nel 2014), nella capitale le ricadute sono state disastrose.
«L’indotto che lavorava con i militari - spiega Quhar, commerciante nato e cresciuto a Kabul - si è ritrovato a fare i conti con la mancanza dell’unica fonte di reddito. E il futuro si presenta peggiore del presente. L’Isis sta già straziando la regione di Kunar e quelle al confine con il Pakistan, ci metterà ko». Le prime vittime hanno già pagato. Faridon ha 36 anni, due figli e una casa accogliente in una via centrale. «Un mese fa, prima di quel 31 maggio, ero un altro uomo - guarda verso quella gamba che non c’è più - Erano le 8. Ero in macchina davanti all’ambasciata americana e pensavo a mio figlio, il maggiore. Studia inglese e la mattina recita una poesia. Mi rende allegro anche se non capisco il significato» sorride scuotendo la testa, poi si rifà serio. «D’un tratto ho sentito un gridare “Allahu Akbar”. Poi il botto». Nel bilancio di 90 morti e 300 feriti dell’attentato rivendicato dall’Isis, Faridon si sente «vivo a metà. Un po’ sono morto anch’io». I figli gli arricciano i capelli e poi continuano a giocare con le stampelle mimando gli spadaccini. Quelle gambe di legno chiaro non sono oggetti misteriosi. Le vedono spesso sotto le esili ascelle dei coetanei. Nel 2016 sono saltati su una mina 1636 afghani, quasi la metà bambini.
Fuori la città inghiotte i pensieri in una nuvola di smog. Un carretto taglia la strada, carico di meloni ed energy drink. Un posto di blocco, l’ennesimo. Esercizio «obbligato» con cui polizia ed esercito afghani mostrano i muscoli e un presunto controllo del territorio. Poi dritti verso la guest house. «È quasi buio. Kabul di notte non è sicura». «La notte» ripete a se stesso, con tono poco convinto.
Laura Secci
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