A 55 chilometri da Raqqa vivono con le madri vedove dei foregin fighter. Dopo l’indottrinamento a 11 anni doveva cominciare l’addestramento militare
Ziad sbuca dalla tenda che chiude la porta della sua casupola nel campo profughi di Ain Issa, 55 chilometri a Nord di Raqqa. Ha tre anni, i capelli lunghi fino alle spalle, castano chiari, e occhi che guardano dritti verso il nuovo mondo. Da meno di due mesi vive in questa distesa di ghiaia bianca infuocata, dove le tende in pieno giorno si trasformano in forni. Ziad e un’altra decina di bambini se ne stanno un po’ in disparte, nella casetta in muratura, accanto a quella dell’amministrazione. Sono i «bambini dell’Isis», nati nel Califfato, figli di combattenti stranieri e spose della jihad, senza patria e senza padri, tutti morti o fatti prigionieri.
Dietro la tenda c’è una porta in metallo e le quattro mura assomigliano a una prigione. Ci sono tre donne in rigoroso niqab nero, con la veletta sul naso. Gli sguardi bastano a raccontare molto. La fine di un’utopia folle e sanguinaria che ha trasformato in vittime anche i suoi seguaci, a partire da donne e bambini. La mamma di Ziad è una libanese di 25 anni, Nur al-Hoda. Il padre, tunisino, si è consegnato ai combattenti curdi all’inizio dell’assedio di Raqqa, assieme a due compagni e alle famiglie. Ora sono in un limbo, in attesa di poter tornare in patria, con i figli che non hanno una nazionalità.
Un piccolo esercito
I bambini del califfato, che hanno visto la luce sotto i tre anni e passa di regno di Abu Bakr al-Baghdadi, sono centinaia di migliaia, e forse diecimila quelli nati dai foreign fighters. Al campo di Ain Issa se ne stanno per i fatti loro isolati. I segni del trauma della guerra sono evidenti. Lo sguardo duro, l’aggressività fra di loro, la diffidenza verso lo «straniero». «Cercavamo il Paradiso in terra e abbiamo trovato solo il male». A parlare è Kaddouja Homri, tunisina di 29 anni, la leader del piccolo gruppo: «Quelli volevano soltanto tre cose: l’imarat, l’argent e les femmes», cioè il potere, i soldi e le donne. Quelli sono i capi dell’Isis, una «mafia» formata dagli sceicchi della tribù locale degli Shawir e dagli emiri stranieri, maghrebini, iracheni e del Golfo.
Kaddouja parla un francese fluente, imparato «chiacchierando su Skype con le mie cognate in Francia». Per definire l’Isis però usa una parola araba, Daula, cioè lo «Stato», perché nel califfato l’Isis era semplicemente lo «Stato». È una scelta significativa. Potrebbe usare il dispregiativo Daesh, ma non lo fa. Kaddouja è arrivata in Siria nel 2013 con suo marito, «professore di matematica». Tutti e due nati e cresciuti a Tunisi ma «senza il sogno di un avvenire». La «rivoluzione» siriana diventa il loro orizzonte: una società islamica giusta e «uguale per tutti». Abu Baraka, il marito, si unisce subito all’Isis e tutti e due si trasferiscono ad Aleppo, dove nasce la loro figlia Baraa. Daula, lo «Stato», controllava allora «quasi tutta Aleppo ma poi sono cominciati gli scontri con Ahrar al-Sham e Jyash al-Khor, l’Esercito libero siriano». Abu Baraka muore in battaglia e Kaddouja si ritrova da sola nel califfato nascente.
Raqqa, invece, è appena stata conquistata e trasformata in capitale ed è lì che Kaddouja viene trasferita. «Ci tenevano segregate al Panorama, un grande albergo. C’era un’emira, marocchina, Um Adam, a dirigere tutto. Ci controllava, picchiava, e decideva tutto per noi, anche chi dovevamo sposare, il nostro primo compito era dare figli al califfato». Kaddouja, tramite un’amica, riesce a risposarsi con un altro combattente tunisino e insieme hanno tre figli: le piccole Sajada e Aysha, e Daoud, un anno appena, il maschio. Al Panorama ci sono anche due italiane. Una nata da genitori maghrebini, un’altra, Silian, con padre italiano. «Ora sono scappate a Mayadin - racconta Kaddouja - i capi di Daula sono tutti là assieme agli “immigrati” e le famiglie».
A Raqqa è rimasto soltanto «il wali, il governatore della provincia, Abu Loqman Shawir, della tribù locale». Ma dentro la città vecchia, nascosti dentro i tunnel, ci potrebbero essere ancora «migliaia» di combattenti. E migliaia e migliaia di civili, compresi tantissimi bambini. «Daula controllava tutto, ed era interessantissimo ai bambini. C’erano scuole private, al costo di 4 mila lire siriane (8 dollari) al mese. Tutto era sorvegliato, prepararsi alla jihad era la prima cosa, poi lo studio del Corano, poi matematica, arabo, ma anche inglese e francese. C’erano anche le scuole normali, dove andavano i locali, ma sempre con lo stesso programma». La realtà delle scuole del califfato è però ben diversa. I bambini non imparano nulla, se non la preparazione ideologica alla jihad.
A poche decine di metri dalla casupola dei figli dei foreign fighters c’è la tenda della famiglia di Ahmad Ahmad, 42 anni, piccolo commerciante del quartiere di Al-Jalah a Raqqa. Ahmad è fuggito un mese fa dai combattimenti, ha cinque figli, il più piccolo di tre anni. Nessuno di loro è in grado di leggere e scrivere. «Daesh all’inizio sembrava debole, poi ha conquistato Raqqa in due ore, non ci potevano credere. La prima cosa che hanno fatto è stato chiudere le scuole e arrestare tutti gli insegnanti che non si adeguavano alle loro idee. Potevi mandare i figli solo nelle loro madrase. Io sono riuscito a tenerli a casa. Meglio analfabeti che educati in quel modo, a uccidere».
Kaddouja parla un francese fluente, imparato «chiacchierando su Skype con le mie cognate in Francia». Per definire l’Isis però usa una parola araba, Daula, cioè lo «Stato», perché nel califfato l’Isis era semplicemente lo «Stato». È una scelta significativa. Potrebbe usare il dispregiativo Daesh, ma non lo fa. Kaddouja è arrivata in Siria nel 2013 con suo marito, «professore di matematica». Tutti e due nati e cresciuti a Tunisi ma «senza il sogno di un avvenire». La «rivoluzione» siriana diventa il loro orizzonte: una società islamica giusta e «uguale per tutti». Abu Baraka, il marito, si unisce subito all’Isis e tutti e due si trasferiscono ad Aleppo, dove nasce la loro figlia Baraa. Daula, lo «Stato», controllava allora «quasi tutta Aleppo ma poi sono cominciati gli scontri con Ahrar al-Sham e Jyash al-Khor, l’Esercito libero siriano». Abu Baraka muore in battaglia e Kaddouja si ritrova da sola nel califfato nascente.
Raqqa, invece, è appena stata conquistata e trasformata in capitale ed è lì che Kaddouja viene trasferita. «Ci tenevano segregate al Panorama, un grande albergo. C’era un’emira, marocchina, Um Adam, a dirigere tutto. Ci controllava, picchiava, e decideva tutto per noi, anche chi dovevamo sposare, il nostro primo compito era dare figli al califfato». Kaddouja, tramite un’amica, riesce a risposarsi con un altro combattente tunisino e insieme hanno tre figli: le piccole Sajada e Aysha, e Daoud, un anno appena, il maschio. Al Panorama ci sono anche due italiane. Una nata da genitori maghrebini, un’altra, Silian, con padre italiano. «Ora sono scappate a Mayadin - racconta Kaddouja - i capi di Daula sono tutti là assieme agli “immigrati” e le famiglie».
A Raqqa è rimasto soltanto «il wali, il governatore della provincia, Abu Loqman Shawir, della tribù locale». Ma dentro la città vecchia, nascosti dentro i tunnel, ci potrebbero essere ancora «migliaia» di combattenti. E migliaia e migliaia di civili, compresi tantissimi bambini. «Daula controllava tutto, ed era interessantissimo ai bambini. C’erano scuole private, al costo di 4 mila lire siriane (8 dollari) al mese. Tutto era sorvegliato, prepararsi alla jihad era la prima cosa, poi lo studio del Corano, poi matematica, arabo, ma anche inglese e francese. C’erano anche le scuole normali, dove andavano i locali, ma sempre con lo stesso programma». La realtà delle scuole del califfato è però ben diversa. I bambini non imparano nulla, se non la preparazione ideologica alla jihad.
A poche decine di metri dalla casupola dei figli dei foreign fighters c’è la tenda della famiglia di Ahmad Ahmad, 42 anni, piccolo commerciante del quartiere di Al-Jalah a Raqqa. Ahmad è fuggito un mese fa dai combattimenti, ha cinque figli, il più piccolo di tre anni. Nessuno di loro è in grado di leggere e scrivere. «Daesh all’inizio sembrava debole, poi ha conquistato Raqqa in due ore, non ci potevano credere. La prima cosa che hanno fatto è stato chiudere le scuole e arrestare tutti gli insegnanti che non si adeguavano alle loro idee. Potevi mandare i figli solo nelle loro madrase. Io sono riuscito a tenerli a casa. Meglio analfabeti che educati in quel modo, a uccidere».
L’indottrinamento
L’Isis «stava sempre addosso ai bambini, a quattro anni cominciavano “i corsi” per imparare “il vero islam”, a partire da 11 anni li portavano nei loro campi, per prepararli alla jihad e insegnarli a sparare, le famiglie hanno lottano per tenerli con sé, ma non tutti ce l’hanno fatta».
L’Isis «stava sempre addosso ai bambini, a quattro anni cominciavano “i corsi” per imparare “il vero islam”, a partire da 11 anni li portavano nei loro campi, per prepararli alla jihad e insegnarli a sparare, le famiglie hanno lottano per tenerli con sé, ma non tutti ce l’hanno fatta».
Molti bambini «partivano per il fronte senza nemmeno salutare i genitori, sembravano impazziti, l’onore più grande era diventare “martiri” ma il vero martirio lo abbiamo vissuto noi padri». Fin dalla sua nascita, nell’aprile del 2013, l’Isis ha portato avanti il suo progetto di indottrinamento. Per un ex combattente, ora «pentito» e in carcere, «ancora due anni così e si formerà un esercito di adolescenti che nessuno potrà più recuperare». La corsa a liberare Raqqa, e quel che resta del califfato in Siria e Iraq, è anche una corsa contro il tempo, prima che la legione dei «bambini dell’Isis» diventi adulta.
Giordano Stabile
Inviato ad Ain Issa
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