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mercoledì 16 agosto 2017

Regeni, il coraggio della verità. Il ritorno dell'ambasciatore in Egitto è una resa?

La Repubblica
di Mario Calabresi
La decisione di rimandare l'ambasciatore al Cairo lascia stupiti e provoca amarezza: il governo ha cambiato idea per gestire la situazione libica con l'aiuto dell'Egitto. Ma allora perché non assumersi la responsabilità politica del gesto?


Questo giornale, insieme con la famiglia di Giulio Regeni, ha sempre pensato che fosse stato giusto richiamare l’ambasciatore al Cairo. E che non lo si dovesse rimandare finché non si fosse ottenuta la verità sul rapimento, la tortura e l’uccisione di un giovane italiano che era in Egitto per portare a termine un dottorato di ricerca. La decisione, comunicata ieri sera, alla vigilia di Ferragosto, non può che lasciare stupiti e provocare amarezza. Perché dalla verità siamo ancora distanti ma soprattutto siamo lontanissimi dalla possibilità di avere giustizia. La sensazione è che ora tutto possa passare in secondo piano, che la morte di Giulio Regeni sia diventata di intralcio agli interessi nazionali.

Partiamo dall’inchiesta. In quest’ultimo anno il lavoro della Procura di Roma e dei nostri investigatori è stato esemplare, sono state individuate responsabilità precise nella struttura dei servizi segreti egiziani, un organismo che fa capo direttamente al potente ministro dell’Interno. Ma la collaborazione della procura e delle autorità del Cairo è stata discontinua, lentissima e a tratti irridente. Ora, dopo mesi di silenzio, sono arrivati finalmente nuovi documenti, della cui bontà nessuno però è in grado di garantire. La strada sarà ancora lunga e non sappiamo se si arriverà mai al traguardo.

Tenere l’ambasciatore a Roma era considerato come il modo più efficace per fare pressione sul regime di Al Sisi. Il governo ha cambiato idea. Si può comprendere il perché. E qui entra in ballo l’interesse nazionale, che ancora una volta porta in Libia. Cercare di gestire la situazione libica e i flussi migratori senza avere rapporti diretti con l’Egitto — che è il principale sostenitore del generale Haftar e delle sue milizie — è come giocare con un braccio legato. La nostra assenza al Cairo è stata sfruttata a fondo dai francesi e si capisce l’urgenza di porre rimedio.

Ma allora perché non chiamare le cose con il loro nome? Perché non avere il coraggio di assumersi la responsabilità politica del gesto? Dire con chiarezza: abbiamo bisogno di un ambasciatore in Egitto che agisca nel pieno delle funzioni per gestire la situazione libica. Spiegarlo alla famiglia e agli italiani. Non venderlo come un modo per accelerare la verità. 

Questo non avrebbe diminuito l’amarezza di Paola e Claudio Regeni, i genitori di Giulio, e di molti che li hanno sostenuti in questi mesi, ma avrebbe evitato la sensazione di essere presi in giro. Poi se tutto ciò viene fatto alla vigilia di Ferragosto e a Camere chiuse allora quella sensazione si ingigantisce.

La responsabilità della politica ora è di dimostrare ogni giorno, con gli atti dell’ambasciatore e in ogni sede internazionale, che ottenere giustizia per Giulio Regeni è una priorità nazionale, che interesse degli italiani è anche non accettare che un proprio cittadino venga torturato e ucciso dal governo di un Paese che si professava amico. Altrimenti il gesto di ieri potrà essere definito in un solo modo: una resa.

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