«A scuola i ragazzi sono integrati ma non sono cittadini», commenta Eraldo Affinati, tra i primi firmatari dell'appello: «ogni docente ha di fronte ogni mattina dei ragazzi immigrati e gli parla di cittadinanza. A scuola la contraddizione fra la realtà e la legge attuale è lampante».
Ce lo siamo chiesto come genitori: come fai, guardando negli occhi tuo figlio, a spiegargli che il suo amico del cuore, il suo compagno di banco, quello che fin dall’asilo ha fatto tutto con lui – asilo, scuola, compiti, calcio, pomeriggi sul divano a giocare alla Play – non è italiano come lui?
Se lo chiedono, con le stesse parole, gli insegnanti: come posso guardare negli occhi Ibrahim, Ghada, Roel - presi come pulcini in prima elementare e visti crescere giorno dopo giorno nella tua classe - e dirgli che non sono cittadini come i loro compagni?
Se si parte dalla realtà, da una qualsiasi classe italiana, il dibattito politico attorno allo ius soli - rimandanto per l’ennesima volta – appare per quello che è, surreale. Eraldo Affinati è insegnante e scrittore e insieme alla moglie ha fondato la scuola Penny Wirton per insegnare la lingua italiana ai migranti, con ormai 30 sedi in Italia: «ieri mi ha chiamto un mio allievo della Città dei Ragazzi, ora è laureato in giurisprudenza, ma ancora non è cittadino italiano», dice subito al telefono.
Affinati è fra i primi firmatari dell’appello di docenti ed educatori per lo ius soli e lo ius culturae lanciato da pochi giorni insieme a Franco Lorenzoni, maestro elementare e Coordinatore della Casa-laboratorio di Cenci. È un appello di docenti ed educatori per lo ius soli e lo ius culturae, con adesioni che «aumentano di momento in momento, sono migliaia», spiega Affinati.
«Noi insegnanti guardiamo negli occhi tutti i giorni gli oltre 800mila bambini e ragazzi figli di immigrati che, pur frequentando le scuole con i compagni italiani, non sono cittadini come loro», esordisce l’appello: «Ci troviamo così nella condizione paradossale di doverli educare alla “cittadinanza e costituzione”, seguendo le Indicazioni nazionali per il curricolo - che sono legge dello stato - sapendo bene che molti di loro non avranno né cittadinanza né diritto di voto. Questo stato di cose è intollerabile. Come si può pretendere di educare alle regole della democrazia e della convivenza studenti che sono e saranno discriminati per provenienza? Per coerenza, dovremmo esentarli dalle attività che riguardano l’educazione alla cittadinanza, che è argomento trasversale, obbligatorio, e riguarda in modo diretto o indiretto tutte le discipline e le competenze che siamo chiamati a costruire con loro».
Appelli alla politica, perché non si lasci terminare la legislatura senza approvare la legge che riforma la cittadinanza, ce ne sono molti (qui ad esempio la campagna di Casa della Carità), ma «lo specifico di questo appello è che nasce dal mondo scuola e proprio nella scuola si sente la stortura e la contraddizione della situazione attuale. A scuola i ragazzi sono integrati ma non sono cittadini», commenta Affinati, «ogni docente ha di fronte ogni mattina dei ragazzi immigrati, pienamente ingrati quando sono in classe ma non cittadini. A scuola la contraddizione è lampante».
Chi ha scritto l’appello non ha pensato a una semplice raccolta di firme: insegnanti ed educatori il 3 ottobre - data dedicare alla memoria delle vittime dell’emigrazione - si appunteranno sul vestito un nastrino tricolore «per indicare la nostra volontà a considerare fin d’ora tutti i bambini e ragazzi che frequentano le nostre scuole cittadini italiani a tutti gli effetti» e in tutte le classi e le scuole dove è possibile ragioneranno «insieme alle ragazze e ragazzi del paradosso in cui ci troviamo, perché una legge ci invita “a porre le basi per l’esercizio della cittadinanza attiva”, mentre altre leggi impediscono l’accesso ad una piena cittadinanza a tanti studenti figli di immigrati che popolano le nostre scuole».
«Noi insegnanti guardiamo negli occhi tutti i giorni gli oltre 800mila bambini e ragazzi figli di immigrati che, pur frequentando le scuole con i compagni italiani, non sono cittadini come loro», esordisce l’appello: «Ci troviamo così nella condizione paradossale di doverli educare alla “cittadinanza e costituzione”, seguendo le Indicazioni nazionali per il curricolo - che sono legge dello stato - sapendo bene che molti di loro non avranno né cittadinanza né diritto di voto. Questo stato di cose è intollerabile. Come si può pretendere di educare alle regole della democrazia e della convivenza studenti che sono e saranno discriminati per provenienza? Per coerenza, dovremmo esentarli dalle attività che riguardano l’educazione alla cittadinanza, che è argomento trasversale, obbligatorio, e riguarda in modo diretto o indiretto tutte le discipline e le competenze che siamo chiamati a costruire con loro».
Appelli alla politica, perché non si lasci terminare la legislatura senza approvare la legge che riforma la cittadinanza, ce ne sono molti (qui ad esempio la campagna di Casa della Carità), ma «lo specifico di questo appello è che nasce dal mondo scuola e proprio nella scuola si sente la stortura e la contraddizione della situazione attuale. A scuola i ragazzi sono integrati ma non sono cittadini», commenta Affinati, «ogni docente ha di fronte ogni mattina dei ragazzi immigrati, pienamente ingrati quando sono in classe ma non cittadini. A scuola la contraddizione è lampante».
Chi ha scritto l’appello non ha pensato a una semplice raccolta di firme: insegnanti ed educatori il 3 ottobre - data dedicare alla memoria delle vittime dell’emigrazione - si appunteranno sul vestito un nastrino tricolore «per indicare la nostra volontà a considerare fin d’ora tutti i bambini e ragazzi che frequentano le nostre scuole cittadini italiani a tutti gli effetti» e in tutte le classi e le scuole dove è possibile ragioneranno «insieme alle ragazze e ragazzi del paradosso in cui ci troviamo, perché una legge ci invita “a porre le basi per l’esercizio della cittadinanza attiva”, mentre altre leggi impediscono l’accesso ad una piena cittadinanza a tanti studenti figli di immigrati che popolano le nostre scuole».
Sara De Carli
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