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martedì 10 ottobre 2017

Afghanistan. Così la Cia torturava i detenuti nel carcere di Kabul

Agi
Privazione del sonno, temperature rigide e altre torture per i sospetti terroristi. Fino alla morte. Un servizio del Guardian. Alle dieci del mattino del 20 novembre 2002 il pakistano Gul Rahman viene trovato morto nella sua cella nel carcere speciale della Cia, nei pressi di Kabul, denominato "Darkness", Tenebra.


Una struttura di venti celle utilizzata, negli anni della "Guerra al terrore", per interrogare i sospetti adepti di Al Qaeda. Ogni cella un buio cubo di cemento. I prigionieri erano incatenati a un anello di metallo sul muro in sedici di esse. Quelle normali. Nelle altre quattro, destinate alla privazione del sonno, i detenuti erano appesi per i polsi a una barra sopra le loro teste, come nelle più truci galere medievali.

Pressoché nudi, al buio, al freddo, con pochissimo cibo, sottoposti a getti di acqua gelata, con musica ad alto volume che rimbombava tra le pareti 24 ore su 24. E nemmeno il conforto di un catino di plastica per le proprie necessità corporali. Quello era un lusso consentito nelle celle normali. Rahman, che si trovava in una delle quattro celle speciali, doveva accontentarsi di un pannolone. L'unica cosa che indossava, insieme a un paio di calzini, quando la guardia ne constatò il decesso per ipotermia. Non aveva mai voluto parlare.

Un patteggiamento storico
Delle "tecniche di interrogatorio speciali" utilizzate nella prigione di Guantanamo si sa da tempo. Della sua succursale afghana si sapeva invece ben poco fino a oggi, quando la Cia - leggiamo sul Guardian - è stata costretta a desecretare i verbali del patteggiamento extragiudiziale raggiunto dalla famiglia di Rahman e due detenuti usciti vivi dalla "Tenebra", Mohamed Ben Soud and Suleiman Abdullah Salim, con John Bruce Jessen e James Mitchell, i due psicologi che avevano ideato i metodi di interrogatorio utilizzati nella struttura. Si tratta di una decisione storica: è la prima volta che sospetti jihadisti sottoposti a tortura dalla Cia vengono risarciti.

I documenti consentono di ricostruire, ora per ora, l'agonia di Rahman, morto 69 giorni dopo l'apertura del carcere. A gestirlo, con - scrive il quotidiano britannico - "una miscela di attenta pianificazione e improvvisazione impulsiva" era un uomo chiamato Matthew Zirbel che non aveva alcuna esperienza in un penitenziario e venne a sapere del suo ruolo solo tre giorni dopo essere arrivato a Kabul. Ma, secondo gli ultimi verbali desecretati, fu la visita di Jessen al carcere, dal nomine in codice "Cobalt", che segnò la sorte di Rahman.

Quando il sospetto si lamentava del freddo, si apprende da alcune registrazioni, Jessen sostenne che il detenuto stesse utilizzando una "sofisticate tecnica di resistenza di Al Qaeda". Né c'era da impietosirsi quando "diceva di non riuscire a pensare a causa del gelo" e "lamentava la violazione dei suoi diritti umani": stava fingendo. Prima di ripartire, Jessen suggerì a Zirbel di procedere con le torture fino a piegarlo. Ma Rahman stava davvero morendo di ipotermia.

Nel 2003 la stella di Jessen e Mitchell tramonta. Nei memoriali interni dell'Agenzia si legge che "sebbene questi ragazzi credano che il loro metodo sia l'unico, bisognerebbe sforzarsi di definire ruoli e responsabilità prima che la loro arroganza e il loro narcisismo sfoci in un conflitto improduttivo" e che continuare ad adottare le loro tecniche "non è decisamente opportuno". La "palese noncuranza" dei due psicologi per "l'etica condivisa da quasi tutti i loro colleghi" costringe i vertici della Cia a dirottarli verso grigi lavori di consulenza. I detenuti rimasti a Cobalt vengono trasferiti a Guantánamo. Per molti di loro sarà un deciso miglioramento.

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