Gravi i dati su hiv ed epatite B e C, tra i carcerati. Gli esperti lanciano l’allarme: “i Lea (Livelli essenziali di assistenza) vengano applicati subito anche nelle carceri”
Due detenuti su tre sono malati, mentre la metà è inconsapevole della patologia di cui è affetto. Sono questi alcuni dei dati più preoccupanti emersi ieri a Roma, durante il congresso della Società italiana di medicina penitenziaria (Simspe) e della Società per le malattie infettive.
È urgente, quindi, la necessità che “i Lea vengano applicati subito anche nelle carceri”, dicono gli oltre 200 esperti durante l’incontro, chiedendo così un nuovo approccio per la salute nei penitenziari. I Livelli essenziali di assistenza (Lea), ovvero i servizi che il Servizio sanitario nazionale è tenuto a fornire a tutti i cittadini, entreranno così nelle carceri. “È un punto di svolta perché fino a oggi la sanità penitenziaria è stata attendista, mentre l’obiettivo oggi è di farla diventare proattiva, con una presa in carico di tutte le persone che vengono detenute”, spiega Sergio Babudieri, direttore delle malattie infettive dell’Università degli Studi di Sassari e direttore scientifico di Simspe.
“Bisogna prendere in carico i detenuti da quando entrano in carcere, con screening e test, e non più soltanto quando c’è una malattia conclamata”.
Nel corso del 2016 sono passati all’interno dei 190 istituti penitenziari italiani oltre 100mila detenuti: dall’indagine è emerso chiaramente che un detenuto su 3 non è malato. Mentre i dati più allarmanti riguardano proprio le malattie infettive: secondo quanto stimato, infatti, i detenuti con l’hiv sono circa 5mila, i portatori attivi del virus dell’epatite B si aggirano intorno ai 6.500, mentre tra i 25mila e i 35mila sono i detenuti affetti da epatite C. Per quanto riguarda i carcerati stranieri (circa il 34% della popolazione carceraria italiana) oltre la metà è portatrice latente di tubercolosi.
Come sottolineano gli esperti, uno dei benefici che si potrebbero avere dall’introduzione dei Lea riguarda coloro che sono affetti dall’epatite C: infatti, da giugno l’Agenzia italiana del farmaco ha reso possibile la prescrizione dei nuovi farmaci innovativi che eradicano il virus.
“Bisogna prendere in carico i detenuti da quando entrano in carcere, con screening e test, e non più soltanto quando c’è una malattia conclamata”.
Nel corso del 2016 sono passati all’interno dei 190 istituti penitenziari italiani oltre 100mila detenuti: dall’indagine è emerso chiaramente che un detenuto su 3 non è malato. Mentre i dati più allarmanti riguardano proprio le malattie infettive: secondo quanto stimato, infatti, i detenuti con l’hiv sono circa 5mila, i portatori attivi del virus dell’epatite B si aggirano intorno ai 6.500, mentre tra i 25mila e i 35mila sono i detenuti affetti da epatite C. Per quanto riguarda i carcerati stranieri (circa il 34% della popolazione carceraria italiana) oltre la metà è portatrice latente di tubercolosi.
Come sottolineano gli esperti, uno dei benefici che si potrebbero avere dall’introduzione dei Lea riguarda coloro che sono affetti dall’epatite C: infatti, da giugno l’Agenzia italiana del farmaco ha reso possibile la prescrizione dei nuovi farmaci innovativi che eradicano il virus.
E va da sé che gli oltre 30mila detenuti potrebbero usufruirne per guarire e per non contagiare altri nel momento del ritorno alla libertà. “È una sfida impegnativa” spiega Babudieri. “Si tratta di un quantitativo ingente di individui, soggetti peraltro a un continuo turn-over e talvolta restii a controlli e terapie. Un lavoro enorme, di competenza della salute pubblica: senza un’organizzazione adeguata. Pur avendo i farmaci a disposizione, si rischia di non riuscire a curare questi pazienti”.
Inoltre, bisogna sottolineare che per quanto riguarda l’hiv, servirebbe più conoscenza sulla prevenzione. Infatti secondo i risultati della ricerca “Free to live well with hiv in prison”, condotta all’Università Ca’ Foscari in collaborazione con la Simspe, il virus e le sue modalità di trasmissione sono ancora poco conosciute, sia dai carcerati che dal personale.
Inoltre, bisogna sottolineare che per quanto riguarda l’hiv, servirebbe più conoscenza sulla prevenzione. Infatti secondo i risultati della ricerca “Free to live well with hiv in prison”, condotta all’Università Ca’ Foscari in collaborazione con la Simspe, il virus e le sue modalità di trasmissione sono ancora poco conosciute, sia dai carcerati che dal personale.
Sebbene l’indagine da una parte abbia evidenziato che lo stigma nei confronti dei malati sia diminuito, dall’altra evidenzia numerose criticità e paure infondate: per fare qualche esempio, circa il 60% dei partecipanti ha ammesso di ritenere possibile il contagio attraverso lo scambio di saliva e in molti credono ancora che il virus possa essere contratto condividendo gli spazi o i sanitari con i sieropositivi.
Quasi nessuno, invece, presta attenzione a comportamenti a rischio, come lo scambio di spazzolini da denti e di rasoi, che possono rappresentare un vettore di trasmissione. E ancora: praticamente nessuno non si rende conto che una rissa è un evento a forte rischio, perché in caso di colluttazioni e spargimento di sangue le possibilità di contagio sono reali.
Marta Musso
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