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martedì 12 dicembre 2017

I cambiamenti climatici e 20 milioni ogni anno i rifugiati ambientali, una questione tutta da affrontare

eHabitat
“A livello globale gli spostamenti legati alle condizioni meteo colpiscono già circa 20 milioni di persone ogni anno, anche se non tutti possono essere attribuiti direttamente ai cambiamenti climatici“.

Queste le parole, riportate dall’Adnkronos qualche giorno fa, di John Slocum, ricercatore associato senior del CIDOB, Barcelona Centre for International Affairs, impegnato da anni a studiare migrazioni internazionali, sviluppo e politiche di immigrazione. Parole che il dottor Slocum ha proferito all’interno del suo intervento presso l’ottavo Forum Internazionale su alimentazione e nutrizione del Barilla Center for Food&Nutrition organizzato a Milano il 4 e 5 Dicembre scorsi.
Cambiamento climatico: cosa vuol dire?
Significa che i cambiamenti climatici, ormai sempre più tangibili e preoccupanti, stanno rendendo meno abitabili interi territori i cui abitanti dovranno spostarsi alla ricerca di luoghi più ospitali, più accoglienti, più vivibili.
Da un lato desertificazione, dall’altra aumento del livello del mare. Due conseguenze dell’innalzamento delle temperature che si sta registrando in questi ultimi anni.

Infatti il 2016 risulta essere l’anno più caldo da quando si è iniziato a rilevare le temperature globali ed è il terzo anno consecutivo con questo record. L’aumento della temperatura è di 1,1° C dall’inizio dell’era industriale (fonte: Climate Change, Migration and Displacement, Greenpeace).

Il rifugiato ambientale non rientra dunque in queste situazioni, cosa che, avverte la Spinelli, rende difficile fornire aiuto internazionale se non quando il disastro ambientale è sfociato poi in guerra o persecuzione.

Inoltre cercano rifugio, almeno inizialmente, all’interno del proprio paese: sono Internally Displaced People, mentre il rifugiato “politico” chiede asilo in un paese diverso da quello da cui proviene. Gli Internally Displaced People rischiano così di entrare in una zona d’ombra, poco visibile dalla comunità internazionale.

Emblematica la storia siriana. Il paese fu colpito tra il 2006 e il 2010 da una terribile siccità. Cause ne furono sfruttamento di terre e irrigazioni eccessive, in altri termini land grabbinge water grabbing. Quasi un milione e mezzo di siriani perse i propri mezzi di sussistenza con l’85 % di bestiame morto e la scomparsa di colture quali grano e orzo. Le prime rivolte possono essere ricondotte a questi fenomeni, a cui il conflitto geopolitico ha poi dato sviluppo e vigore.

Che fare dunque?
Secondo Slocum è necessario per i governi “superare il concetto di sicurezza nazionale che troppo spesso domina il dibattito politico.” E cita il Platform on Disaster Displacement, un’iniziativa volontaria internazionale che “promuove le buone pratiche e lo sviluppo di capacità che possono aiutare i governi e gli stakeholder a proteggere gli sfollati dai disastri naturali e dagli effetti dei cambiamenti climatici“.

Alla base rimane poi l’obbligo di mettere in pratica concretamente e su tutti i livelli le misure più adatte per ridurre le cause del cambiamento climatico a partire dalle emissioni di CO2. Livello di intervento non solo politico ma che riguarda la vita di noi tutti.

Sara Pananella

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