Lo scorso gennaio negli istituti di pena italiani si contavano quaranta piccoli detenuti. Rinchiusi dietro le sbarre insieme alle madri che stanno scontando la pena. Storie dimenticate, impossibili da dimenticare. «Mancano le strutture, ma per risolvere il problema basterebbero 900mila euro l’anno».
Dietro le sbarre senza aver commesso alcun reato. Troppo piccoli persino per conoscere il motivo della detenzione. È l’inaccettabile destino dei bambini rinchiusi insieme alle madri nelle carceri italiane.
Una realtà incredibile e ancora poco conosciuta. Si spiega anche così il silenzio che, salvo rare eccezioni, ha accompagnato l’ultimo drammatico caso di cronaca. La vicenda di una bimba di tre anni, reclusa nel carcere di Messina insieme alla mamma nigeriana e al fratellino più piccolo, ricoverata d’urgenza dopo aver ingerito del veleno per topi. Storie dimenticate, ma impossibili da ignorare. Come ha denunciato il garante dei detenuti nell’ultima relazione al Parlamento, al 31 gennaio scorso in tutto il Paese si contavano quaranta piccoli detenuti. E con loro trentacinque madri, tredici italiane e ventidue straniere. La metà erano rinchiuse nelle sezioni nido degli istituti di pena, le altre negli istituti a custodia attenuata per madri (ICAM).
Quella dei piccoli reclusi è «una criticità che chiede soluzioni», denuncia il garante. Ma soprattutto è una grande ingiustizia, perché per risolvere la questione basterebbe davvero poco. Pochi giorni fa il deputato di Possibile Andrea Maestri ha presentato una proposta di legge in cui quantifica le risorse necessarie per risolvere la situazione. «Per garantire la tutela dei bambini detenuti - racconta il parlamentare - basterebbero 900mila euro annui. Questi fondi permetterebbero una sistemazione idonea e sicura».
Anzitutto il contesto. Le situazioni in cui si trovano questi bambini, tutti minori di tre anni, sono molto diverse tra loro. Come spiega il garante, alcune sezioni “nido” delle nostre carceri rappresentano una realtà positiva. Non mancano reparti bene attrezzati, accoglienti e sufficientemente collegati con il territorio per evitare l’isolamento dei più piccoli. Purtroppo non è così dappertutto. In Italia «sussistono ancora situazioni del tutto inidonee». Il documento depositato a Montecitorio nei mesi scorsi denuncia ad esempio la situazione della casa circondariale di Avellino. «La cella nido per le madri con i bambini - si legge - è di fatto semplicemente una stanza detentiva a due, nella sezione comune femminile, priva di qualsiasi attrezzatura necessaria per ospitare bambini così piccoli». Il carcere non ha mai attivato una collaborazione con l’asilo del territorio. Mentre le madri non possono accedere alla sala nido dove lavorano diverse puericultrici. E così i bambini devono scontare a tutti gli effetti una pena di cui non hanno alcuna responsabilità. «Di fatto vivono nella sezione detentiva comune, in celle prive delle dotazioni necessarie, in un contesto difficile anche per gli adulti, senza rapporti con le scuole o le organizzazioni locali».
Invano, negli anni, si è cercato di trovare una soluzione al problema. Una legge del 2001 ha provato a risolvere la questione favorendo l’accesso delle donne con figli piccoli alle misure cautelari alternative. È una norma che ha permesso alle madri di bambini con meno di dieci anni di scontare parte della pena a casa o in un luogo di accoglienza. «Ma alcune condizioni - denuncia Maestri nella sua proposta di legge - hanno finito per tagliare fuori dal beneficio le donne appartenenti a categorie più svantaggiate, soprattutto le straniere, spesso prive di fissa dimora, che non possono accedere agli arresti domiciliari».
Quella dei piccoli reclusi è «una criticità che chiede soluzioni», denuncia il garante. Ma soprattutto è una grande ingiustizia, perché per risolvere la questione basterebbe davvero poco. Pochi giorni fa il deputato di Possibile Andrea Maestri ha presentato una proposta di legge in cui quantifica le risorse necessarie per risolvere la situazione. «Per garantire la tutela dei bambini detenuti - racconta il parlamentare - basterebbero 900mila euro annui. Questi fondi permetterebbero una sistemazione idonea e sicura».
Anzitutto il contesto. Le situazioni in cui si trovano questi bambini, tutti minori di tre anni, sono molto diverse tra loro. Come spiega il garante, alcune sezioni “nido” delle nostre carceri rappresentano una realtà positiva. Non mancano reparti bene attrezzati, accoglienti e sufficientemente collegati con il territorio per evitare l’isolamento dei più piccoli. Purtroppo non è così dappertutto. In Italia «sussistono ancora situazioni del tutto inidonee». Il documento depositato a Montecitorio nei mesi scorsi denuncia ad esempio la situazione della casa circondariale di Avellino. «La cella nido per le madri con i bambini - si legge - è di fatto semplicemente una stanza detentiva a due, nella sezione comune femminile, priva di qualsiasi attrezzatura necessaria per ospitare bambini così piccoli». Il carcere non ha mai attivato una collaborazione con l’asilo del territorio. Mentre le madri non possono accedere alla sala nido dove lavorano diverse puericultrici. E così i bambini devono scontare a tutti gli effetti una pena di cui non hanno alcuna responsabilità. «Di fatto vivono nella sezione detentiva comune, in celle prive delle dotazioni necessarie, in un contesto difficile anche per gli adulti, senza rapporti con le scuole o le organizzazioni locali».
Invano, negli anni, si è cercato di trovare una soluzione al problema. Una legge del 2001 ha provato a risolvere la questione favorendo l’accesso delle donne con figli piccoli alle misure cautelari alternative. È una norma che ha permesso alle madri di bambini con meno di dieci anni di scontare parte della pena a casa o in un luogo di accoglienza. «Ma alcune condizioni - denuncia Maestri nella sua proposta di legge - hanno finito per tagliare fuori dal beneficio le donne appartenenti a categorie più svantaggiate, soprattutto le straniere, spesso prive di fissa dimora, che non possono accedere agli arresti domiciliari».
È di pochi anni dopo l’intervento del legislatore che ha introdotto nuovi modelli detentivi più adatti ai bambini. Si tratta degli istituti a custodia attenuta per madri (ICAM), gestiti dall’amministrazione penitenziaria. Ma soprattutto delle case famiglia protette, affidate ai servizi sociali e agli enti locali. Una realtà, quest’ultima, rimasta praticamente inapplicata. Ad oggi l’unica struttura esistente si trova a Roma, è stata creata nel 2015 grazie all’intesa tra il Comune e il Dap, il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. È proprio dall’esperienza di questa casa famiglia protetta che il deputato Maestri quantifica le risorse necessarie per risolvere il problema dei bambini dietro le sbarre. Utilizzando immobili confiscati alla criminalità, lo Stato potrebbe finanziare la gestione e le attività di sostegno delle strutture con 150mila euro annui. Sulla presenza di bambini in carcere, il deputato è in possesso di dati più recenti. Citando il ministero della Giustizia, Maestri spiega che lo scorso 30 settembre negli istituti di detenzione italiani risultavano recluse trentadue detenute straniere con trentasei figli. Per ospitare questi nuclei familiari, stima, basterebbero altre sei strutture da distribuire sul territorio nazionale. Per un totale di 900mila euro l’anno.
Le storie dei bambini in carcere svelano un altro tema poco dibattuto. La detenzione femminile. Oggi le donne rinchiuse negli istituti penitenziari italiani rappresentano una realtà quasi marginale. Sono poco meno di 2.500, il 4,2 per cento dell’intera popolazione carceraria.
Le storie dei bambini in carcere svelano un altro tema poco dibattuto. La detenzione femminile. Oggi le donne rinchiuse negli istituti penitenziari italiani rappresentano una realtà quasi marginale. Sono poco meno di 2.500, il 4,2 per cento dell’intera popolazione carceraria.
Ma è proprio l’esiguità del numero che comporta un ingiustificato inasprimento della pena. «La detenzione - denuncia il garante - da sempre è pensata al maschile e applicata alle donne che, proprio per la loro scarsa rilevanza numerica, rischiano di diventare invisibili e insignificanti per il sistema penale». I quattro penitenziari femminili del Paese possono accogliere solo 537 detenute, rinchiuse tra Trani, Rebibbia, Pozzuoli e Venezia. E così la maggior parte di loro sono ospitate nei circa 50 reparti femminili che si trovano all’interno di istituti maschili. «Reparti marginali, in cui le donne hanno meno spazio vitale, meno locali comuni, meno strutture e minori opportunità rispetto agli uomini». Citando le esperienze raccolte dal noto programma “Radio Carcere”, qualche tempo fa un’interrogazione parlamentare del senatore Francesco Campanella ha denunciato la difficile condizione femminile dietro le sbarre. «All’interno delle carceri italiane, oltre agli spazi carenti, poca igiene e sovraffollamento, le donne sono costrette a vivere la detenzione con l’assenza di ginecologi o pediatri spesso irreperibili, difficoltà a procurarsi assorbenti e saponi per l’igiene intima». Condizioni ancora più dure, senza alcuna ragione. Tragicamente incivili, per quanto riguarda le madri dei bambini più piccoli.
di Marco Sarti
di Marco Sarti
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