Wimi Omer è stata dichiarata colpevole del reato previsto dall'Articolo 52 del Codice penale sudanese, altre 24 donne in attesa di un processo con l stessa accusa. Rischiare un anno di carcere e 50 frustate per aver indossato un abito non tradizionale e ritenuto incedente per una donna musulmana. Accade in Sudan, soprattutto se sei un'attivista per i diritti umani del popolo del Darfur, insanguinato da un conflitto che dura da oltre quattordici anni.
L'attivista si chiama Wimi Omer ed è accusata di aver indossato un abito troppo osé. Pochi giorni fa, un giudice del Tribunale di Khartoum ha dichiarato colpevole Wimi Omer, personaggio molto noto nel Paese, del reato previsto dall'Articolo 52 del Codice penale sudanese, ovvero di indossare abiti considerati troppo osé per la morale pubblica del Paese africano guidato da un governo islamico. La sentenza, su richiesta della difesa dell'attivista, è stata rinviata alla prossima settimana nell'attesa delle testimonianze di due persone che hanno assistito all'arresto della Omer e di Nahid Jabrallah, il direttore di Seema, un centro per la formazione e la protezione delle donne e dei diritti dei bambini.
Fermata dopo una festa privata. L'episodio risale allo scorso 10 dicembre. La giovane donna, assieme ad alcune amiche aveva appena lasciato una festa privata con decine di ospiti. Un agente di polizia si è avvicinato e l'ha fermata vicino al club di El Osdra, in una zona centrale della Capitale, dove stava aspettando un taxi per tornare a casa. Prima di essere portata in cella, le sono stati sequestrati il telefono e il computer portatile. Questo fa pensare che il suo arresto non sia principalmente dovuto ai suoi vestiti, ma alle sue attività a favore dei diritti umani nella regione in cui il presidente sudanese, Omar Hassan al Bashir, combatte i ribelli che si oppongono al suo potere.
Vietati pantaloni e abiti corti. È però un dato di fatto che le donne in Sudan non possano indossare pantaloni o abiti corti. Gli agenti del servizio di Ordine pubblico possono arrestare chiunque non sia vestito in modo considerato appropriato, secondo le indicazioni della Sharia, la legge islamica. In attesa di essere giudicate per lo stesso reato, solo a Khartoum, altre 24 donne che magari hanno anche la colpa di non voler piegarsi a una tradizione che le relega in ruoli subordinati e imporre regole ingiuste e opprimenti.
Il caso di Lubna, la giornalista condannata a 40 frustate. Il primo caso che ha portato alla ribalta mondiale questa usanza fu quello di Lubna Ahmed al Hussein, una giornalista sudanese e collaboratrice delle Nazioni Unite, arrestata in un ristorante di Khartoum nel 2009 perché vestita con un abbigliamento "sconveniente", ovvero un largo pantalone, un lungo camicione e un foulard in testa? La vicenda divenne in poche ore mediatica e sfuggì al controllo delle autorità sudanesi. A suo sostegno si animò una mobilitazione internazionale, e anche Ban Ki-Moon, segretario generale delle Nazioni Unite, intervenne per chiedere la sua liberazione. Ma il massimo che ottenne fu la commutazione della pena in una multa, che lei non ha mai pagato per disobbedienza civile e ha lasciato il Paese.
Ma non tutte sono fortunate come Lubna. Se Lubna si è difesa strenuamente e pubblicamente, sfidando le regole islamiche di fronte all'opinione pubblica mondiale, molte donne si dichiarano colpevoli nella speranza di subire una quantità minore di frustate.
Le pressioni familiari e sociali sono ancora troppo forti in un Paese come il Sudan perché una donna possa decidere di ribellarsi. Dopo il caso di Lubna si sperava che l'interesse e la condanna della comunità internazionale potesse portare a un atteggiamento più morbido da parte del governo, a una riforma di un ordinamento che punisce in modo spropositato le donne. ?Ma così non è stato. La legge in Sudan non è cambiata, né il numero di donne arrestate e condannate è diminuito.
Antonella Napoli
Fermata dopo una festa privata. L'episodio risale allo scorso 10 dicembre. La giovane donna, assieme ad alcune amiche aveva appena lasciato una festa privata con decine di ospiti. Un agente di polizia si è avvicinato e l'ha fermata vicino al club di El Osdra, in una zona centrale della Capitale, dove stava aspettando un taxi per tornare a casa. Prima di essere portata in cella, le sono stati sequestrati il telefono e il computer portatile. Questo fa pensare che il suo arresto non sia principalmente dovuto ai suoi vestiti, ma alle sue attività a favore dei diritti umani nella regione in cui il presidente sudanese, Omar Hassan al Bashir, combatte i ribelli che si oppongono al suo potere.
Vietati pantaloni e abiti corti. È però un dato di fatto che le donne in Sudan non possano indossare pantaloni o abiti corti. Gli agenti del servizio di Ordine pubblico possono arrestare chiunque non sia vestito in modo considerato appropriato, secondo le indicazioni della Sharia, la legge islamica. In attesa di essere giudicate per lo stesso reato, solo a Khartoum, altre 24 donne che magari hanno anche la colpa di non voler piegarsi a una tradizione che le relega in ruoli subordinati e imporre regole ingiuste e opprimenti.
Il caso di Lubna, la giornalista condannata a 40 frustate. Il primo caso che ha portato alla ribalta mondiale questa usanza fu quello di Lubna Ahmed al Hussein, una giornalista sudanese e collaboratrice delle Nazioni Unite, arrestata in un ristorante di Khartoum nel 2009 perché vestita con un abbigliamento "sconveniente", ovvero un largo pantalone, un lungo camicione e un foulard in testa? La vicenda divenne in poche ore mediatica e sfuggì al controllo delle autorità sudanesi. A suo sostegno si animò una mobilitazione internazionale, e anche Ban Ki-Moon, segretario generale delle Nazioni Unite, intervenne per chiedere la sua liberazione. Ma il massimo che ottenne fu la commutazione della pena in una multa, che lei non ha mai pagato per disobbedienza civile e ha lasciato il Paese.
Ma non tutte sono fortunate come Lubna. Se Lubna si è difesa strenuamente e pubblicamente, sfidando le regole islamiche di fronte all'opinione pubblica mondiale, molte donne si dichiarano colpevoli nella speranza di subire una quantità minore di frustate.
Le pressioni familiari e sociali sono ancora troppo forti in un Paese come il Sudan perché una donna possa decidere di ribellarsi. Dopo il caso di Lubna si sperava che l'interesse e la condanna della comunità internazionale potesse portare a un atteggiamento più morbido da parte del governo, a una riforma di un ordinamento che punisce in modo spropositato le donne. ?Ma così non è stato. La legge in Sudan non è cambiata, né il numero di donne arrestate e condannate è diminuito.
Antonella Napoli
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