Come dire, se è un palestinese a compiere una strage, è un terrorista; se è un norvegese bianco, biondo e dagli occhi azzurri non può che essere pazzo!
Come sempre accade in queste occasioni, i fatti di Macerata hanno prodotto danni collaterali di cui si finisce per non parlare: hanno ferito e offeso centinaia di migliaia di persone che vivono l’esperienza del disturbo mentale. Le parole follia, malattia mentale, psichiatria, psicosi, borderline hanno occupato i giornali, le radio, le televisioni. Sulle reti poi un vero tzunami. Fatti di sangue feroci e criminali accostati a quelle parole assolvono tutti: la malattia occupa la scena.
La malato di mente, si sa è incomprensibile, è imprevedibile, è pericoloso. Se il ragazzo di Macerata avvolto nel tricolore è un malato di mente è lecito temere che le persone che vivono l’esperienza del disturbo mentale possono fare del male in qualsiasi momento. È lecito prendere distanza. È quanto mai necessario avere paura. È da incoscienti non invocare misure per la sicurezza e la difesa sociale. Gli argini costruiti con fatica per fronteggiare la velenosità dello stigma e del pregiudizio crollano in un baleno sotto il fiume in piena delle parole irresponsabili di tanti commentatori e di troppi politici indegni. Un’ ombra oscura e soffocante cala su tutte le persone che l’esperienza del disturbo mentale la vivono davvero.
Il 22 luglio 2011 Anders Behring Breivik, un giovane poco più che trentenne, incensurato, bello, biondo, occhi azzurri, organizza, con estrema professionalità, un’incursione in un raduno di giovani socialisti. Uccide settantasette persone tra giovani e poliziotti, e fa molti feriti. Preso dalla polizia, afferma di aver agito per la difesa della cristianità, di voler estirpare le ideologie del socialismo democratico che favoriscono l’ingresso nell’Europa cristiana dei musulmani, degli islamici, degli induisti, dei neri. È un pazzo o un criminale politico?
Due perizie psichiatriche vengono richieste dal tribunale. Una si pronuncia perun disturbo schizofrenico, un’infermità mentale; l’altra riconosce il giovane sano di mente. Il collegio giudicante, che ritiene sano di mente, condanna Breivik alla massima pena stabilita dalla Costituzione norvegese: ventun anni di carcere e un’eventuale ulteriore limitazione della libertà in caso di non ravvedimento. Una sentenza e una condanna che molti interpretano come il riconoscimento, finalmente, della responsabilità che trattiene il giovane all’interno di un ambito di normalità, di una dimensione politica, di una restituzione di senso.
La sentenza scandalizza molti psichiatri e le crescenti politiche e culture di destra e francamente fasciste. Le conoscenze neuroscientifiche – dicono – potrebbero dimostrare la presenza della malattia mentale e quanto quel giovane uomo fosse determinato nel suo agire da condizionamenti biologici e genetici. La sentenza – per molti di loro – riporta indietro di secoli, prima che la pietà e la scienza ci permettessero di riconoscere in gesti così efferati non altro che la malattia mentale, la pericolosità sociale, l’obbligo della società di difendersi e i manicomi criminali.
La malato di mente, si sa è incomprensibile, è imprevedibile, è pericoloso. Se il ragazzo di Macerata avvolto nel tricolore è un malato di mente è lecito temere che le persone che vivono l’esperienza del disturbo mentale possono fare del male in qualsiasi momento. È lecito prendere distanza. È quanto mai necessario avere paura. È da incoscienti non invocare misure per la sicurezza e la difesa sociale. Gli argini costruiti con fatica per fronteggiare la velenosità dello stigma e del pregiudizio crollano in un baleno sotto il fiume in piena delle parole irresponsabili di tanti commentatori e di troppi politici indegni. Un’ ombra oscura e soffocante cala su tutte le persone che l’esperienza del disturbo mentale la vivono davvero.
Il 22 luglio 2011 Anders Behring Breivik, un giovane poco più che trentenne, incensurato, bello, biondo, occhi azzurri, organizza, con estrema professionalità, un’incursione in un raduno di giovani socialisti. Uccide settantasette persone tra giovani e poliziotti, e fa molti feriti. Preso dalla polizia, afferma di aver agito per la difesa della cristianità, di voler estirpare le ideologie del socialismo democratico che favoriscono l’ingresso nell’Europa cristiana dei musulmani, degli islamici, degli induisti, dei neri. È un pazzo o un criminale politico?
Due perizie psichiatriche vengono richieste dal tribunale. Una si pronuncia perun disturbo schizofrenico, un’infermità mentale; l’altra riconosce il giovane sano di mente. Il collegio giudicante, che ritiene sano di mente, condanna Breivik alla massima pena stabilita dalla Costituzione norvegese: ventun anni di carcere e un’eventuale ulteriore limitazione della libertà in caso di non ravvedimento. Una sentenza e una condanna che molti interpretano come il riconoscimento, finalmente, della responsabilità che trattiene il giovane all’interno di un ambito di normalità, di una dimensione politica, di una restituzione di senso.
La sentenza scandalizza molti psichiatri e le crescenti politiche e culture di destra e francamente fasciste. Le conoscenze neuroscientifiche – dicono – potrebbero dimostrare la presenza della malattia mentale e quanto quel giovane uomo fosse determinato nel suo agire da condizionamenti biologici e genetici. La sentenza – per molti di loro – riporta indietro di secoli, prima che la pietà e la scienza ci permettessero di riconoscere in gesti così efferati non altro che la malattia mentale, la pericolosità sociale, l’obbligo della società di difendersi e i manicomi criminali.
Alcuni propongono di analizzare il genoma, si troverebbero – continuano – i segni che hanno condizionato inesorabilmente quel gesto: Breivik non poteva fare che quello che ha fatto. Come dire, se è un palestinese a compiere una strage, è un terrorista; se è un norvegese bianco, biondo e dagli occhi azzurri non può che essere pazzo!
Peppe Dell'Acqua
Peppe Dell'Acqua
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