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sabato 31 marzo 2018

Arrestato in Brasile un prete, Josè Amaro Lopes de Sousa, difensore dei contadini dell’Amazzonia

Vatican Insider
Padre José Amaro Lopes de Sousa, erede di suor Dorothy Stang, fermato il 27 marzo con l’accusa di violenze. Il vescovo: «Una diffamazione per delegittimare il suo impegno».

Padre Josè Amaro Lopes de Sousa, 
parroco di Santa Lucia di Anapu, 
difensore dei contadini dell’Amazzonia
È stato arrestato dalla polizia brasiliana padre Josè Amaro Lopes de Sousa, parroco di Santa Lucia di Anapu, nello Stato del Parà. Padre Amaro sta proseguendo l’opera di suor Dorothy Stang, la missionaria di origine statunitense uccisa nel febbraio 2005 per la sua azione a difesa dei contadini minacciati dai “fazendeiros”, i latifondisti bramosi di impossessarsi della terra. L’arresto è avvenuto lo scorso martedì 27 marzo.


«È una diffamazione per delegittimare il suo impegno a favore dei più poveri», denunciano in un comunicato - diffuso da Vatican News - il vescovo di Xingu, la diocesi di Anapu, monsignor Muniz Alves, la Rete ecclesiale panamazzonica e Caritas Ecuador.

Da parte sua il missionario comboniano padre Dario Bossi, tra i coordinatori della rete continentale latinoamericana Iglesias y Minerìa, sottolinea che «da tempo padre Amaro era minacciato e questo arresto lo consideriamo una diffamazione, una criminalizzazione molto grave, in un Brasile che vede aumentare la violenza e anche la repressione nei confronti dei difensori dei diritti umani».

«C’è bisogno di una mobilitazione e di un sostegno internazionale per chi difende i diritti umani in Brasile, in modo che questi siano una traduzione concreta oggi del Vangelo in queste terre», aggiunge il missionario. Perché, conclude, «qui nel Nord del Brasile la concentrazione illegale di terra è uno dei peccati sociali più gravi».

Migranti: agenti francesi irrompono in presidio Bardonecchia. "Rainbow4Africa": denuncia quanto accaduto 'violati diritti umani'

Ansa - Piemonte
Irruzione degli agenti della Dogana Francese, ieri sera, nella sala della stazione di Bardonecchia dove opera Rainbow4Africa.

L'irruzione della polizia francese a Bardonecchia
Lo denuncia la stessa associazione, impegnata ad assistere i profughi che sempre più numerosi scelgono le Alpi nel tentativo di attraversare la frontiera. "Un presidio sanitario è luogo neutro, rispettato anche nei luoghi di guerra", sostengono i volontari, che parlano di "comportamento irrispettoso dei diritti umani nei confronti di un ospite nigeriano".

Violenti scontri a Gaza: 16 palestinesi uccisi dall'esercito israeliano. Oltre mille feriti

La RepubblicaL'Autorità nazionale palestinese (Anp) ha chiesto l'intervento della comunità internazionale dopo la violentissima battaglia al confine con la Striscia dove ha preso il via la 'Grande marcia del ritorno' che commemora gli scontri del marzo 1976. La mobilitazione durerà fino al 15 maggio, giorno della Nakba. Fonti diplomatiche: all'Onu riunione d'urgenza a porte chiuse del Consiglio di Sicurezza.


Ramallah - Sedici morti e più di mille feriti nella Striscia, secondo il ministero della Sanità. Tra le vittime, la più giovane ha 16 anni. È il bilancio, ancora provvisorio secondo fonti mediche di Gaza, degli scontri tra palestinesi e forze della sicurezza israeliane scoppiati al confine tra il sud della Striscia e Israele, dove ha preso il via la 'Grande marcia del ritorno' convocata da Hamas nell'anniversario dell'esproprio delle terre arabe per creare lo Stato di Israele nel 1948. Da fonti diplomatiche si apprende che il Consiglio di Sicurezza dell'Onu, su richiesta del Kuwait, terrà una riunione d'urgenza sui tragici eventi di Gaza. La stessa fonte, coperta da anonimato, ha precisato che la riunione avverrà a porte chiuse a partire dalle 18.30 ora locale (le 00.30 in Italia).

La Grande Marcia si è aperta nella Giornata della Terra che ricorda l'esproprio da parte del governo israeliano di terre di proprietà araba in Galilea, il 30 marzo 1976. Le proteste dureranno fino al 15 maggio, anniversario della fondazione di Israele, per i palestinesi "Nakba", la "catastrofe", come la chiamano, perché molti furono costretti ad abbandonare per sempre case e villaggi.

L'esercito ha aperto il fuoco in più occasioni con colpi di artiglieria, munizioni vere e proiettili di gomma vicino alla barriera di sicurezza davanti a cui hanno manifestato 17 mila palestinesi. Dalla folla sono stati lanciati sassi e bottiglie molotov verso i militari.

Di primo mattino il colpo di artiglieria di un carro armato aveva ucciso Omar Samour, un agricoltore palestinese di 27 anni che era entrato nella fascia di sicurezza istituita dalle forze armate israeliane. Testimoni hanno raccontato che si trovava su terreni vicini alla frontiera e un portavoce dell'esercito ha spiegato l'episodio parlando di "due sospetti che si sono avvicinati alla barriera di sicurezza nel sud della Striscia di Gaza e hanno cominciato a comportarsi in maniera strana", e i carri armati hanno sparato contro di loro". 

Successivamente è stato ucciso con un colpo allo stomaco un 25enne a est di Jabaliya, nel nord del territorio costiero e altri due (fra cui un 38enne) in punti diversi della frontiera. La maggior parte dei feriti sono stati colpiti da proiettili di gomma e gas lacrimogeni.

L'Autorità nazionale palestinese (Anp) ha chiesto l'intervento della comunità internazionale. Yusef al Mahmoud, portavoce dell'Anp a Ramallah, ha chiesto "un intervento internazionale immediato e urgente per fermare lo spargimento del sangue del nostro popolo palestinese da parte delle forze di occupazione israeliane".

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venerdì 30 marzo 2018

Grecia. Crescono gli attacchi razzisti contro i rifugiati

Corriere della Sera
Crescono gli attacchi contro i migranti, i rifugiati e gli attivisti dei diritti umani in Grecia. Lo denuncia il Racist Violence Recording Network (Rvrn) nel suo rapporto annuale invitando il governo a una tolleranza zero verso la violenza. 


"Il numero delle aggressioni è cresciuto ed è compiuto da gruppi organizzati che usano la tattica del colpisci e fuggi" si legge nel testo. Sull'isola di Leros, i richiedenti asilo sono stati attaccati da motociclisti con oggetti taglienti.

Una donna incinta è stata presa di mira perché portava il velo. Ad Atene un uomo è stato aggredito alla fermata dell'autobus. L'organizzazione, che è in Grecia dal 2011 per volere delle Nazioni Unite e della commissione nazionale per i diritti umani, ha potuto constatare, sulla base delle interviste, che si sono verificati 102 attacchi nel 2017 contro i 95 del 2016 ma sicuramente le cifre sono più alte dato che molti episodi non vengono denunciati. 

L'ostilità verso i migranti e i rifugiati è cresciuta in Grecia dalla crisi economica del 2010.
Monica Ricci Sargentini

Venezuela. Violenze, malattie, denutrizione: ecco le carceri peggiori del mondo

Il Dubbio
Il paradosso è che il primo Paese moderno ad aver abolito la pena di morte è stato proprio il Venezuela nel 1863: "La legge non può condannare a morte, e nessuna autorità può eseguire una condanna a morte" ribadiva poi con orgoglio la Costituzione chavista del 1999. Eppure nel sistema carcerario venezuelano la morte è un evento quotidiano mentre la vita di un detenuto comune, oltre a contare meno di zero, assomiglia all'inferno in terra. 


Sovraffollamento, violenze, soprusi, denutrizione, disidratazione, mancanza di cure mediche, rivolte, scioperi della fame sono solo alcune delle piaghe endemiche degli istituti di pena.

Circa una quarantina di penitenziari, ospitati da strutture fatiscenti, quasi sempre ex ospedali, ex scuole, ex caserme, lontani anni luce dai requisiti minimi previsti dall'ordinamento. E a nulla è servita la riforma carceraria del 2011 che si prefissava di migliorare la vita di prigionieri e secondini avviando un ambizioso piano di ammodernamento delle strutture. Nel corso degli ultimi anni la situazione è addirittura peggiorata e oggi il Venezuela conta oltre 55mila reclusi su non più di 14mila posti previsti.

Tra le testimonianze di questo universo selvaggio colpisce quella dell'imprenditore canadese Stéphan G. Zbikowski arrestato nel 1995 a Caracas per traffico di stupefacenti e spedito proprio nella prigione La Maxima di Carabobo, teatro della tragedia di ieri. Zbikowski, che ha passato tre anni a La Maxima prima di essere estradato in Quebecq, ha raccolto la sua esperienza in un libro pieno di dettagli raggelanti L'enfer derrière les barreaux: "Dormivo tra gli escrementi e l'urina dei miei compagni di cella, una barbarie. Ero l'unico bianco in tutta prigione le guardie mi picchiavano regolarmente, ho rischiato di essere ucciso decine di volte e ho visto decine di persone accoltellate davanti ai miei occhi, il rumore che fa una persona prima di venire accoltellata è qualcosa che non dimentichi mai, non so come spiegarlo, ma quando senti l'urlo della persona colpita da una lama tu già sai che questa morirà".

"Le prigioni del Venezuela sono le più violente del Sudamerica, sono controllate dalla criminalità organizzata e ogni anno centinaia di persone perdono la vita al loro interno", denunciava lo scorso anno José Miguel Vivanco, direttore di Human Right Watch per il l'America Latina. Nel 2016 sono morti oltre 500 detenuti, in gran parte per fatti di sangue (70%), ma anche per malattie e incidenti legati alle vergognose condizioni di sicurezza.

In alcuni casi l'incapacità dello Stato di mantenere l'ordine all'interno degli istituti si tramuta in una resa completa al potere delle gang che ormai controllano diverse carceri in tutto il Paese, una specie di legislazione parallela come il carcere di Tocoròn dove i cartelli hanno fatto costruire una discoteca, un centro ippico, una piscina e un ristorante, imponendo, naturalmente, il "pizzo" ai non affiliati. Stessa musica nella prigione di San Antonio che sorge sull'isola Margarita. 

A San Juan de los Morros, nello Stato di Guárico (150 km a sud di Caracas) le guardie rimangono all'esterno del perimetro, i membri delle gang girano tranquillamente armati (pistole, fucili, mitra ma anche granate) e autogestiscono tutta la vita carceraria, imponendo agli altri detenuti una gerarchia feroce e punizioni indicibili per chi non si adegua. Come notava il fotografo Oscar B. Castillo, autore di numerosi reportage nei penitenziari venezuelani, aver consegnato di fatto alcune prigioni alle gang ha migliorato la sicurezza interna: "In una delle nazioni con il tasso di criminalità più alto del mondo e con una penuria alimentare che tormenta la popolazione, dentro queste prigioni regna un certo ordine".

Daniele Zaccaria

Papa Francesco - "Se i potenti del mondo sapessero servire, quante guerre non si sarebbero fatte"

Blog Diritti Umani - Human Rights
"Piedi lavati dagli schiavi, servizio fatto da schiavi. Gesù capovolge l’abitudine storica, culturale. All’epoca come oggi chi comanda per essere un bravo capo deve servire, se tanti re, imperatori, capi di stato avessero capito questo insegnamento di Gesù, quante guerre non sarebbero state fatte."
Papa Francesco
Carcere Regina Coeli - 29/03/2018


 

Papa Francesco lava i piedi ai carcerati di Regina Coeli - Una pena senza speranza non è ne cristiana ne umana, come la pena di morte.

Avvenire
Ha incontrato i detenuti ammalati e ha lasciato in dono un altare. Parole di speranza: Gesù è venuto a servirci. E una confidenza: mi dovrò operare di cataratta


Una pena «che non è aperta alla speranza non è cristiana e non è umana». Lo ha ribadito con forza papa Francesco nel carcere di Regina Coeli, al termine della celebrazione della Messa in Coena Domini. «Ogni pena deve essere aperta all’orizzonte della speranza. - ha insistito il Pontefice - Per questo non è né umana né cristiana la pena di morte. Ogni pena deve essere aperta alla speranza, al reinserimento, anche per dare l’esperienza vissuta per il bene delle altre persone».

Nel corso del rito il vescovo di Roma ha lavato i piedi a dodici detenuti provenienti da sette diversi Paesi: quattro italiani, due filippini, due marocchini, un moldavo, un colombiano, un nigeriano e uno della Sierra Leone. Otto di loro sono di religione cattolica; due musulmani; uno ortodosso e uno buddista.

Nell’omelia papa Francesco ha ricordato che lavando i piedi ai suoi, compito ai suoi tempi riservato agli schiavi, «Gesù capovolge l’abitudine storica, culturale di quell’epoca - anche questa di oggi -», affermando che chi «comanda, per essere un bravo capo, sia dove sia, deve servire». E ha aggiunto: «Io penso tante volte - non a questo tempo perché ognuno ancora è vivo e ha l’opportunità di cambiare vita e non possiamo giudicare, ma pensiamo alla storia - se tanti re, imperatori, capi di Stato avessero capito questo insegnamento di Gesù e invece di comandare, di essere crudeli, di uccidere la gente avessero fatto questo, quante guerre non sarebbero state fatte».

Gesù «viene a servirci», ha proseguito papa Francesco. Egli «non si chiama Ponzio Pilato. Gesù non sa lavarsi le mani». E «il segnale che ci serve oggi qui, al carcere di Regina Coeli», ha aggiunto, è «che ha voluto scegliere 12 di voi, come i 12 apostoli, per lavare i piedi». «Oggi io, che sono peccatore come voi, ma rappresento Gesù, sono ambasciatore di Gesù», ha aggiunto. «Oggi, - ha rimarcato - quando io mi inchino davanti a ognuno di voi, pensate: "Gesù ha rischiato in quest’uomo, un peccatore, per venire da me e dirmi che mi ama". Questo è il servizio, questo è Gesù: non ci abbandona mai; non si stanca mai di perdonarci. Ci ama tanto. Guardate come rischia, Gesù».

La visita di Papa Francesco a Regina Coeli ha avuto un carattere strettamente privato. Non c’è stata diretta televisiva e la Radio Vaticana si è limitata a trasmettere in diretta la lettura del Vangelo di Giovanni e l’omelia del Pontefice e le sue parole finali, nonché le accorate e commosse parole di ringraziamento della direttrice Silvana Sergi e il «grazie, grazie, grazie» di un detenuto, Alessandro. Proprio dopo queste parole il Pontefice ha sottolineato che una pena senza speranza non è umana, né cristiana. E ha invitato i detenuti a «rinnovare lo sguardo». «Questo fa bene, - ha aggiunto facendo una confidenza - perché alla mia età, per esempio, vengono le cataratte, e non si vede bene la realtà: l’anno prossimo dovremo fare l’intervento». Dunque, ha aggiunto, «non stancatevi mai di rinnovare lo sguardo. Di fare quell’intervento di cateratte all’anima, quotidiano».

Al suo arrivo il Papa ha incontrato i detenuti ammalati in infermeria. Quindi ha presieduto la liturgia che segna l’inizio del Triduo Pasquale. Lo ha fatto nella "Rotonda" del carcere - come già fecero Giovanni XXIII nel 1958, Paolo VI nel 1964 e Giovanni Paolo II nel 2000 - su un altare che poi ha lasciato in dono. L’opera, in bronzo, dello scultore Fiorenzo Bacci, era stata donata al Papa all’udienza generale del 12 novembre 2016. Il Papa ne ha fatto cenno nell’omelia («Guardate questa immagine tanto bella: Gesù chinato tra le spine, rischiando di ferirsi per prendere la pecorella smarrita»). Prima di far rientro in Vaticano, il Pontefice ha incontrato alcuni detenuti della VIII Sezione.

Quella di stasera è stata la quarta volta che Papa Francesco ha celebrato la Messa in Coena Domini in un istituto di pena. Lo aveva già fatto nel 2013 nel Carcere minorile di Casal del Marmo, nel 2015 a Rebibbia e lo scorso anno nel Carcere di massima sicurezza di Paliano, in provincia di Frosinone. Nel 2014 il rito era stato celebrato in un centro riabilitativo romano gestito dalla Fondazione don Gnocchi e nel 2016 tra i profughi e migranti del Cara di Castelnuovo di Porto gestito dalla Cooperativa Auxilium.

Gianni Cardinale

giovedì 29 marzo 2018

Dopo Marielle Franco in Messico torturata e uccisa attivista femminista Maria Guadalupe Hernandez Flores

Corriere della Sera
Maria Guadalupe Hernandez Flores, 37 anni, era sparita l'11 marzo. Il 20 marzo il suo copro è stato ritrovato ma solo il 23 i familiari hanno potuto riconoscerlo. L'indignazione delle associazioni femministe: «Era una combattente sociale»
Maria Guadalupe Hernandez Flores
È stata trovata uccisa Maria Guadalupe Hernandez Flores, una femminista lesbica e attivista per i diritti delle donne delle persone LGBT, la cui scomparsa era stata segnalata lo scorso 11 marzo. A darne la notizia su Twitter è l'associazione NonUnaDiMeno, scrivendo: «Dopo Marielle Franco (l’attivista brasiliana uccisa la scorsa settimana, ndr) continua l’atatcco al movimento femminista in Sud America».

Il silenzio della polizia
Il suo corpo, che aveva segni di tortura, è stato ritrovato in una zona della comunità di Arroyo del Durazno, nel comune di Coroneo, Guanajuato. La 37enne era stata vista l’ultima volta l11 marzo, quando aveva preso un autobus per iniziare un viaggio. La scomparsa aveva mobilitato amici e parenti per la ricerca: sui social network si erano moltiplicati gli appelli per cercare di rintracciarla nelle ultime settimane. Quando la sua auto è stata rintracciata qualche giorno dopo, con colpi di arma da fuoco, la paura e la preoccupazione sono aumentate. La donna è stata ritrovata il 20 marzo scorso, come riferisce Desastre.mx, da una coppia che camminava con il suo cane, che scavando nel terreno ha fatto scoprire parti del suo corpo. La coppia ha avvisato la polizia, che non è stata in grado di identificare il cadavere: solo venerdì scorso, il 23 marzo, i parenti dell’attivista hanno riconosciuto il corpo nell’obitorio di Guanajuato. Finora le autorità non hanno rilasciato dichiarazioni su indagini che riguardino l’omicidio. Il caso resta irrisolto, come quello dell'omicidio di Marielle Franco, 38 anni: la consigliera comunale è stata assassinata il 14 marzo con 4 colpi di pistola alla testa. I sicari hanno anche ucciso l’autista e ferito un’assistente.

L'indignazione dei movimenti
«Kleo dalla sua trincea ha combattuto per la visibilità delle lesbiche, per un mondo più giusto e dignitoso. Il patriarcato è ovunque, vuole annientarci, l’arma migliore che abbiamo per combatterlo è continuare ad allearci, creando una comunità»; ha detto Tortillerìa Queretana, un’organizzazione femminile di Queretaro. Ha preso posizione anche l’organizzazione Lunas Lesbofeministas, esprimendo «rabbia profonda, indignazione e preoccupazione per l’omicidio della compagna Kelo, lebisca e combattente sociale».
Valentina Santarpia

Benin, bambini spaccapietre sfruttati nell’edilizia. 2 euro per 10 ore di lavoro duro. Nuove schavitù.

Osservatorio Diritti
In parti del Benin lo sfruttamento del lavoro minorile è una realtà diffusa. Ci sono villaggi dove i bambini spaccano pietre per 10 ore al giorno per poi venderle all'industria dell'edilizia, che le usa per produrre cemento armato. Ogni barile di pietre è venduto per circa 2 euro.


da Dassa (Benin) «Sono molto stanca». A parlare è una bambina di sei anni. È una frase ricorrente tra i bambini del suo villaggio. Vive in Benin, paese dell’Africa occidentale che fu uno dei principali empori per la tratta degli schiavi. È una delle numerosi voci di una nuova schiavitù, che si incontra nei volti di bambini costretti a spaccare pietre per dieci ore al giorno. Una realtà diffusa nella zona collinare di Dassa, dove interi villaggi provvedono al proprio sostentamento grazie al lavoro di questi bambini, che riducono le pietre in tanti piccoli frammenti, che saranno poi vendute all’industria edilizia, che le utilizzerà per la produzione del cemento armato.

La catena di sfruttamento dei bambini spaccapietre
La gestione del lavoro è familiare. Gli uomini scalano le montagne, per estrarre i massi di grosse dimensioni; a valle le donne cominciano il lavoro di selezione delle pietre, per poter scendere al villaggio e consegnarle ai loro figli, che dovranno ridurle in piccoli pezzi. «I bambini di Dassa vivono in condizioni precarie – spiega Saidaw Bakar, il capo-villaggio di Ouissi-Dassa, dove la concentrazione di bambini spaccapietre è più alta che altrove – e soffrono, perché devono lavorare per soddisfare i loro bisogni. I bambini spaccano le pietre per molte ore al giorno. E quando tornano a casa non hanno nemmeno da mangiare».
Benin: lavorare 10 ore al giorno per 2 euro
«Sono molto stanca. Lo faccio perché così possiamo mangiare. Ma un giorno diventerò un’insegnante», racconta una delle tante bambine del villaggio. L’esposizione prolungata alla posizione con cui tutti i bambini spaccano le pietre le ha deformato gli arti inferiori. Tempo fa un masso di grosse dimensioni le è caduto addosso, deturpandole il piede per sempre. Non è voluta rimanere al villaggio, ha deciso di seguire il padre e la madre in montagna. È stato in quel momento che un macigno l’ha schiacciata. Ma può e deve ancora spaccare le pietre.

I bambini non hanno un vero e proprio salario. La possibilità di mangiare è legata alla quantità di pietre che i genitori riescono a vendere all’industria edilizia, che periodicamente fa visita al villaggio per prelevare i barili di pietre. Ogni barile di pietre sminuzzate dai bambini è pagato dai 1000 ai 1500 franchi, una cifra compresa tra 1,5 e i 2,5 euro.
I rischi sanitari per i bambini in Benin
I bambini rischiano ogni giorno incidenti e compromettono quotidianamente il proprio stato di salute, inalando le polveri che contengono particelle nocive. L’asma è solo la più ovvia delle malattie che contraggono. Parlando di morti premature causate da condizioni ambientali insalubri in Africa, il direttore della sezione Africa dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, Mashidisio Moeti, ha parlato di una percentuale che si aggira intorno al 23 per cento.

Tra le cause di questi decessi c’è la presenza di sostanze nocive nell’aria, quelle che i bambini spaccapietre del Benin inalano quotidianamente. Sostanze che sono alla base dell’insorgenza, nel 44% dei casi, di asma. A questa si devono aggiungere i danni alle articolazioni e le infezioni agli occhi.

Senza contare le malattie più ricorrenti nel paese africano, come il colera e il tifo. In Benin la mortalità infantile nel primo anno di vita è di 88 ogni mille nascite, dato che sale a 148 entro i primi 5 anni.

Il sistema scolastico e le carenze dello Stato del Benin
Gli impegni per strappare i bambini dal lavoro forzato esistono. Sempre più bambini oggi riescono ad andare a scuola. Ma questo non significa l’annullamento dei problemi e degli effetti di un passato da spaccapietre.

«I bambini hanno difficoltà – afferma Ainon Remi, insegnante della scuola Epp Thamissi, nel distretto di Dassa – e abbiamo bisogno di sillabari per insegnare loro a leggere, scrivere e parlare. I bambini che spaccano le pietre hanno difficoltà maggiori degli altri, perché quando tornano a casa tornano sulla collina a spaccare le pietre e non possono studiare».

Una difficoltà che si unisce alle carenze statali, sia per quanto riguarda la didattica sia i bisogni trasversali, come un’adeguata assistenza alimentare negli istituti scolastici.

«Il Governo interviene – spiega Déssea Koya, direttore della scuola Epp Dome a Dassa – Per ogni classe la sovvenzione è di 1.500 franchi. Qui abbiamo sei classi, la sovvenzione è di 9 mila franchi. Ma i soldi sono stati già suddivisi, quindi l’aiuto del Governo non riesce a coprire tutti i nostri bisogni. Per il materiale didattico il Governo ci garantisce due manuali. Un manuale di francese e un manuale di matematica sono assicurati, ma in numero insufficiente rispetto ai bambini della scuola».

«I bambini preferiscono venire a scuola che spaccare le pietre – afferma Trea Tchamissi, direttore della scuola Epp Thamissi a Dassa – Anche le malattie sono diminuite, perché l’alimentazione è migliorata. Ma abbiamo ancora delle difficoltà, perché quando spacchi pietre e non conosci altra realtà, è difficile pensare ad un futuro differente. Stiamo provando a cambiare, i bambini vogliono imparare e vengono regolarmente a scuola. Ma lo stato non ci aiuta. Abbiamo chiesto delle mense. Non è accettabile che lo Stato non provveda all’assistenza alimentare»

Open Arms, resta il sequestro ma cade l'accusa. Sea Eye torna in mare

Redattore Sociale
Secondo il gip di Catania non sussiste il reato di associazione a delinquere ma solo quello di favoreggiamento dell'immigrazione irregolare. E il dossier Proactiva passa a Ragusa. Fcei: "Notizia in parte positiva, ma con il sequestro l'ong non può svolgere soccorso". Oggi parte la seconda missione di Sea Eye.


Sea Eye torna a fare il salvataggio in mare. L’ong ha annunciato oggi la sua seconda missione di quest’anno. Questa mattina l’equipaggio, formato da dieci uomini a bordo della Seefuchs, e sotto la guida del capitano Johann Rieß, ha lasciato Malta. Giovedì la nave raggiungerà la zona di soccorso al largo delle coste libiche alla ricerca di imbarcazioni in pericolo e pronta a soccorerle.
“La minaccia in corso da parte della guardia costiera libica e i tentativi della magistratura italiana di fermare il salvataggio privato in mare non possono impedirci di adempiere al nostro dovere umanitario”
sottolinea il fondatore di Sea-Eye Michael Buschheuer. La nave dell’organizzazione Sea-Eye è così, oltre all’Aquarius, l’unica nave di salvataggio presente in questa parte del Mediterraneo, in cui più di 350 persone sono annegate dall’inizio di quest’anno. “Operiamo dall’aprile 2016 per salvare migranti in pericolo nel Mediterraneo – spiega l’ong -. Nel maggio 2017 abbiamo inoltre acquistato una seconda nave, la Seefuchs. Da allora siamo stati in grado di salvare la vita di 13.284 persone".

Intanto ieri il gip di Catania Nunzio Sarpietro ha confermato il sequestro della nave dell’ong spagnola Practiva Open Arms, ma si è dichiarato incompetente, ritenendo non sussistere il reato di associazione per delinquere ma soltanto quello di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare. E’ stata, dunque, rigettata l'ipotesi del procuratore di Catania Carmelo Zuccaro. Ora gli atti saranno trasferiti alla Procura di Ragusa. “Una notizia almeno in parte positiva – commenta Paolo Naso, coordinatore di Mediterranean Hope - Programma rifugiati e migranti della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (Fcei) – sia perché scagiona gli operatori umanitari di Proactiva OpenArms dalla grave accusa di associazione a delinquere, sia perché affida il caso a una Procura diversa da quella di Catania, la quale sulla questione dei soccorsi in mare da tempo muove gravi accuse alle Ong attive nelle attività di ricerca e soccorso senza produrre prove di reato”.

Naso tuttavia esprime rincrescimento, perché “la OpenArms resta sotto sequestro e non può svolgere attività di soccorso in mare. Nei giorni in cui come chiese evangeliche stiamo dando il benvenuto in Italia a un centinaio di profughi giunti in piena legalità dal Libano attraverso i Corridoi umanitari, progetto che da due anni realizziamo insieme alla Comunità di Sant’Egidio, siamo solidali con chi protegge la vita dei profughi nel Mediterraneo attraverso attività di soccorso in mare. Come Mediterranean Hope, abbiamo già partecipato ad una missione della OpenArms e confidiamo di potere partecipare presto a nuove missioni umanitarie”. Rincresce tuttavia che resti sotto sequestro. Così non può svolgere attività di soccorso in mare”, conclude Naso.

Ricerca Neos: regolarizzare gli immigrati riduce il tasso di criminalità

Econopoly - Il Sole 24 Ore
L’autore di questo post della serie a cura di Neos Magazine è Alessio Mitra, Master student in Applied Economics alla University of Bath (UK); ha studiato Economia e Commercio (BSc) all’Università di Torino ed ha approfondito gli studi economici presso University of Geneva e University of Copenhagen; collabora con IPR (Institute for Policy Research of the University of Bath) 


Politica valutata: Assegnazione del permesso di soggiorno e regolarizzazione dello stato giuridico degli immigrati entrati illegalmente in Italia.
Obiettivo: Ridimensionare il numero di immigrati residenti illegalmente nel Paese, diminuendo così la propensione di questi a compiere attività illecite.
Effetto: Riduzione del tasso di criminalità degli immigrati regolarizzati di 0,6 punti percentuale rispetto ad un punto di partenza del 1,1%.

A seguito della recente pressione migratoria proveniente dai paesi a sud del Mediterraneo, in Italia, come in Europa, il tema dell’immigrazione ha progressivamente acquisito un crescente interesse pubblico. Una delle principali preoccupazioni sulle quali converge l’apprensione dell’opinione pubblica è la possibilità di una relazione tra criminalità ed immigrazione clandestina.

L’immigrazione è un fenomeno relativamente recente per l’Italia. L’incremento del numero di stranieri residenti legalmente in Italia diviene rilevante solo a partire degli ultimi decenni, con un incremento da 500 mila a 5 milioni tra il 1990 ed il 2015.

La politica italiana sull’immigrazione è definita dalla legge 40/1998 e 189/2002. La legge 189/2002 (anche denominata Legge Bossi-Fini) fu approvata dal Parlamento italiano durante la XIV Legislatura, ai tempi del secondo governo Berlusconi. Tale provvedimento integrò in tema di immigrazione la pre-esistente 40/1998.

A partire del paper scientifico del professor Paolo Pinotti “Clicking on Heaven’s Door: The effect of immigrant Legalization on Crime” pubblicato nel gennaio 2017 dall’American Economic Review, uno dei più rinomati giornali accademici al mondo, analizzeremo l’effetto che la regolarizzazione di immigrati irregolari in Italia ha sulla loro propensione ad essere coinvolti in attività criminali gravi. È inoltre importante ricordare che la validità dello studio riportato è esclusiva al contesto italiano, con più complessa generalizzazione ad altri paesi.

Secondo la legge italiana, il governo centrale decide annualmente una quota di permessi regolari di soggiorno per immigranti che abbiano trovato dall’estero un datore di lavoro disponibile ad assumerli. In altre parole, i migranti dovrebbero trovare un datore di lavoro disponibile ad assumerli ancora prima che possano mettere piede sul suolo italiano. Dal momento che i datori di lavoro sono riluttanti ad assumere sconosciuti, è molto difficile che ciò avvenga e normalmente i migranti decidono prima di entrare illegalmente in Italia e successivamente accettano di lavorare in nero nella speranza che in futuro il loro datore di lavoro li sponsorizzi per il permesso di soggiorno.

Lo status di immigrato irregolare comporta un alto numero di svantaggi sociali a danno dell’individuo. Egli è infatti relegato al di fuori del mercato del lavoro legale, dunque con minori possibilità e opportunità e un salario considerevolmente inferiore, tutti elementi necessari per dare una svolta positiva e dignitosa alla sua vita. Questo comporta un minore costo-opportunità per commettere atti illegali, in altre parole, in mancanza di alternative, un immigrato irregolare è più incentivato a commettere crimini rispetto ad uno regolare per il solo fatto della sua condizione davanti alla legge.

L’assegnazione del numero assai limitato di permessi di soggiorno viene effettuata ogni anno (tipicamente in novembre) in un unico giorno, chiamato da Paolo Pinotti “clicking day”. In tale giorno i datori di lavoro devono accedere al sito internet del Ministero degli Interni e fare richiesta di sponsorizzazione per uno o più migranti. Pinotti mostra come il numero di domande di soggiorno durante il clicking day del dicembre 2007 sia di poco inferiore al numero totale degli immigrati irregolari stimati presenti in Italia. Questo rafforza l’idea che la grande maggioranza degli immigrati irregolari già presenti nel territorio italiano applichi per un permesso di soggiorno mediante sponsorship.

Le domande vengono poi processate e convalidate dal sistema elettronico in ordine di arrivo. Ne consegue che a causa dell’elevato numero di richieste sul server, tutto ciò si trasforma in una vera e propria lotteria dove pochi minuti in più o in meno possono rivelarsi decisivi nel determinare l’accettazione o il rifiuto della domanda.

Nel 2007, ad esempio, dopo 25 minuti dall’apertura del portale tutte le domande sono state rigettate.

Utilizzando un disegno con regressione discontinua (metodo econometrico in grado di isolare gli effetti di relazione causale), Paolo Pinotti identifica l’effetto causale dello stato legale degli immigrati sul numero di crimini gravi da loro commessi.

Comparando il tasso di criminalità degli immigrati irregolari prima e dopo il “clicking day” (differenziando tra chi è divenuto regolare e chi invece no) troviamo un effetto stimato dello stato legale del 0,6% nella riduzione del tasso di criminalità degli immigrati. Significativo se considerato l’1,1% di base.
Tale risultato si rivela essere molto interessante ed utile al dibattito pubblico in vista di future decisioni politiche riguardanti l’immigrazione. Qualora massicce politiche di rimpatrio non fossero percorribili, a causa degli intrinsechi elevati costi, mancanza di accordi bilaterali con i paesi di provenienza degli immigrati irregolari o la difficile identificazione del paese di origine del migrante, la regolarizzazione potrebbe essere una valida alternativa.
Tutto ciò al fine di evitare l’accumulo di grandi conglomerati di immigrati irregolari con più elevata probabilità di commissione di reati gravi.

Una potenziale critica a tale soluzione è che le politiche di regolarizzazione possano aumentare l’aspettativa di future regolarizzazioni, e quindi incrementare l’immigrazione irregolare. Per quanto tale possibilità non sia escludibile, ad oggi non sono ancora state trovate sufficienti evidenze scientifiche a supporto di tale tesi.

Alessio Mitra - Master student in Applied Economics alla University of Bath (UK)

mercoledì 28 marzo 2018

Spagna, Comitato diritti umani ONU: ammissibile il ricorso di Puigdemont contro "violazione" dei suoi diritti politici

Diario del Web
Il Comitato dei diritti umani delle Nazioni Unite ha ammesso di valutare il ricorso dell'ex presidente catalano Carles Puigdemont contro la «violazione» dei suoi diritti politici in Spagna. Lo riporta il quotidiano LaVanguardia. 


Secondo una nota, il comitato delle Nazioni Unite ha accettato il reclamo ieri, mentre Puigdemont è apparso davanti alle autorità tedesche dopo essere stato arrestato domenica. 

La Commissione, che a breve dovrà pronunciarsi sul merito della denuncia, aveva già considerato positivamente nei giorni scorsi il ricorso di un altro leader politico catalano detenuto, Jordi Sanchez, e ha chiesto in forma cautelare a Madrid di tutelare i suoi diritti politici.
Intanto, proseguono le proteste per l’arresto dell’ex numero uno della Generalitat. In mattinata, alcuni dimostranti hanno bloccato il traffico sull’autostrada AP-7 a Figueres, presso il confine francese, ma gli automobilisti sono stati fermati anche su altre strade della regione. A Barcellona rimaste paralizzate le «avenide» Diagonal e Meridiana, gettando nel caos la metropoli. I manifestanti chiedono la liberazione dell'ex-presidente e degli altri leader catalani in carcere preventivo a Madrid.

La “passione” del Centrafrica: continuano gli scontri, un prete tra le vittime

Vatican Insider
Non si placano le lotte armate lontano dalla capitale, mentre continua l’esodo interno dei profughi accolti principalmente nelle parrocchie.


Passione e morte. Il conflitto scoppiato alla fine del 2012 lascia ancora morti sul campo. Il Centrafrica, nonostante i proclami e le intenzioni manifestate, continua a vivere in una spirale di violenza e di paura. 

L’ultimo episodio è stato confermato al sito Rjdh Centrafique (Réseau des journalistes pour les droits de l’homme) dal vescovo di Bambari, monsignor Richard Appora. La scorsa settimana, infatti, ci sono stati degli scontri tra gli ex-Seleka e gli anti-Balaka a Seko (a 60 km da Bambari): un attacco armato il 21 marzo ha colpito la parrocchia di Saint Charles Lwanga e ha ucciso 30/40 persone, tra queste il parroco, padre Désiré Angbabata, espressione di questa giovane ma coraggiosa Chiesa centrafricana.

Le notizie sono ancora frammentarie per la difficoltà di accesso alla città. Più ci si allontana dalla capitale e più diventa evidente l’assenza di sicurezza nella «terra di nessuno», come la definisce padre Federico Trinchero del convento carmelitano di Bangui. Ufficialmente la coalizione Seleka è stata sciolta, ma ci sono decine di gruppi di ribelli che infestano l’80% del Paese. «Siamo come tornati, purtroppo, alla casella di partenza», commenta amaro padre Trinchero. Le Chiese diventano il naturale luogo di approdo delle persone che scappano in fuga e che si lasciano alle spalle case bruciate e depredate. Nella parrocchia di Markounda (diocesi di Bossangoa), nel nord ovest della nazione, si contano 7.500 profughi.

Le tensioni e le preoccupazioni sono confermate anche da padre Guy-Alain, sacerdote locale, che sul blog José del Rio ricostruisce gli eventi e lancia un grido di aiuto alla comunità internazionale. «L’accesso all’acqua – spiega – è il primo problema umanitario. Non abbiamo medicinali e le persone vivono in mezzo ai rifiuti in scarse condizioni igieniche». I due gruppi armati non si sono ancora riconciliati e sono sempre pronti a sparare. Sono sempre di più gli ex-Seleka che minacciano e rapinano le persone. Si ritirano nella boscaglia e si nascondono nei campi mettendo a rischio anche l’agricoltura visto che i contadini sono impauriti e giustamente preoccupati per la loro incolumità. Si nota anche l’assenza in mezzo alla gente di uomini della Missione Minusca (United Nations Multidimensional Integrated Stabilization Mission in the Central African Republic). Padre Alain vive nella sotto-prefettura di Markounda su una superficie di circa 7mila chilometri quadrati che accoglie 38.191 abitanti distribuiti in 123 villaggi e dediti principalmente all’agricoltura, all’allevamento e alla pesca.

Siamo al confine con il Ciad, a 480 km dalla capitale Bangui. «La sotto-prefettura – scrive – sta lottando per la sua crescita sociale, economica e amministrativa». Mancano, però, un’infrastruttura amministrativa, personale sanitario qualificato e docenti. «L’istruzione rimane una situazione preoccupante per il futuro dei bambini: ci sono 3 o 4 insegnanti per i 9mila studenti che si trovano nelle 42 scuole del territorio». Non si intravedono, purtroppo, segnali di speranza. «La situazione è sempre più drammatica con la crisi politica-militare in corso nel Paese e, in particolare, nella nostra zona. Assistiamo a un esodo interno e accogliamo molti profughi. L’insicurezza nella città e nei villaggi non consente alla popolazione di intraprendere attività rurali o altri impieghi. Il deterioramento delle strade rende il nostro territorio una enclave. La falsa diceria (potremmo definirla propaganda), inoltre, non consente agli operatori umanitari di assistere adeguatamente la popolazione. Siamo molto preoccupati».

Uno scenario drammatico, davanti al quale tornano in mente le parole di Papa Francesco: «Tutto si perde con la guerra».
 
Luciano Zanardini

Vergogna umanitaria - La Turchia con i fondi UE per l'aiuto ai migranti ha costruito il muro al confine siriano e acquistato mezzi militari

Espresso
Mezzi blindati, apparecchi per la sorveglianza, tecnologia anti-cecchini, navi per il pattugliamento delle frontiere. I fondi dell'Unione europea al presidente turco Tayyp Erdogan sono stati usati non solo per aiutare i profughi siriani ma per l'acquisto di attrezzatura militare. 


Un'inchiesta esclusiva del consorzio EIC.

Il volto dell'Unione Europea è un muro di ferro e cemento. Alto tre metri, lungo più di 800 chilometri, pattugliato notte e giorno da mezzi militari pagati anche con fondi di Bruxelles. È così che si presenta oggi il confine lungo l'intera Turchia a chi cerca di fuggire alle stragi in corso in Siria.

Un'inchiesta condotta dai media danesi Politiken e Danwatch, in collaborazione con L'Espresso e il consorzio investigativo Eic, può rivelare come l'Unione abbia fornito oltre 80 milioni di euro ad Ankara per l'acquisto di mezzi militari blindati, apparecchi per la sorveglianza e navi per il pattugliamento delle frontiere.

Fra le centinaia di contratti legati alla gestione dei profughi siriani e all'avvicinamento del paese agli standard Ue, infatti, non ci sono solo aiuti umanitari. Ma anche il supporto tecnico per quella che si presenta ora come una frontiera invalicabile. E che rischia di diventare un monumento imbarazzante per l'Europa dei diritti.
Perché quei sistemi bellici regalati alla Turchia sono ora al centro di un fronte di guerra. Nelle mani dello stesso esercito impegnato ad attaccare i curdi, alleati dell'Occidente, in un'operazione estranea a ogni regola internazionale e che sta provocando centinaia di morti. Come ad Afrin, nella Siria settentrionale, dove le milizie appoggiate dai turchi stanno operando un massacro.

Non solo. Se il governo turco ha affermato che è possibile per i rifugiati siriani attraversare la frontiera, report di Human Rights Watch, dell'Osservatorio siriano per i diritti umani, e le voci degli abitanti nella zona di confine, mostrano una realtà diversa: a chi tenta di avvicinarsi si spara. Fino ad uccidere. E quel muro è pattugliato con dei "Cobra II" pagati anche dalla Ue. "In base alla convenzione di Ginevra è vietato respingere rifugiati", commenta Laura Ferrara, europarlamentare del Movimento 5 stelle esperta di questioni migratorie: "ma chiaramente l'Unione non lo può controllare, questo, in territorio turco".

Due reporter birmani della Reuters, Wa Lone e Kyaw Soe Oo, in carcere per aver svelato la verità sul massacro dei Rohingya

estwest
Da oltre 100 giorni due reporter birmani della Reuters sono in carcere per aver svelato il ruolo dell’esercito in una strage di civili. È l'unico documento giornalistico che prova il coinvolgimento dei militari di Myanmar nei massacri. Gli autori rischiano 14 anni di galera.

Da più di 100 giorni due giornalisti birmani dell’agenzia Reuters, Wa Lone (31 anni) e Kyaw Soe Oo (28 anni), sono detenuti dalle autorità birmane con l’accusa di possedere «documenti segreti molto importanti riguardo lo Stato Rakhine e le forze di sicurezza». Secondo la legge vigente in Myanmar, ereditata dal periodo coloniale britannico, il due rischiano fino a 14 anni di carcere.

Ma le circostanze del loro arresto e le indagini che i due giornalisti stavano conducendo da mesi indicano che la colpa di Wa Lone e Kyaw Soe Oo, agli occhi delle autorità birmane, è stata quella di svelare le responsabilità dell’esercito regolare in un massacro di civili Rohingya avvenuto lo scorso mese di settembre.

La ricostruzione dell’esecuzione di massa, pubblicata da Reuters dopo l’arresto e con il consenso dei due autori, è basata sulle testimonianze di concittadini e parenti delle vittime, compresi funzionari degli apparati di sicurezza del Myanmar, raccolte da Wa Lone e Kyaw Soe Oo.

Lo scorso due settembre, si legge su Al Jazeera, i militari birmani hanno raggiunto il villaggio di Inn Din, nello Stato Rakhine, dividendo gli abitanti tra comunità buddista e comunità musulmana. Tra i musulmani, vengono presi da parte dieci uomini Rohingya in un’età compresa tra i 17 e i 45 anni, «studenti, pescatori, allevatori e negozianti».

Abdu Shakur, padre di una delle vittime, ha dichiarato a Reuters: «Mentre li portavano via ci dicevano: non preoccupatevi. Presto vi ridaremo i vostri figli, li stiamo solo portando a un appuntamento».

Invece, riporta Bbc riprendendo l’indagine di Wa Lone e Kyaw Soe Oo, i militari ordinano ad alcuni abitanti di fede buddista di iniziare a scavare una fossa e i dieci Rohingya vengono ammazzati a sangue freddo uno dopo l’altro: due da compagni di villaggio buddisti, obbligati dalle forze di sicurezza, il resto dagli stessi militari.

Le foto raccolte dai due reporter di Reuters e pubblicate in calce agli articoli indicati sopra, mostrano prima i dieci uomini inginocchiati, circondati da altri uomini armati; poi, nella fossa comune, i loro dieci corpi riversi in una pozza di sangue.

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martedì 27 marzo 2018

Australia: in piazza per migliori trattamenti per i migranti

L'Indro
La dura linea politica è stata molto contestata e criticata anche a livello internazionale


Migliaia di persone hanno preso parte a manifestazioni in Australia, chiedendo un trattamento migliore per i migranti e richiedenti asilo. L’ Australia trasferisce quasi 19.000 rifugiati all’anno. Ma le Nazioni Unite hanno criticato le linee di condotta del Paese tese per scoraggiare coloro che fuggono dai loro paesi a cercare una nuova vita in Australia.
La dura linea politica australiana è stata molto contestata e criticata anche a livello internazionale: le regole australiane prevedono che i migranti irregolari soccorsi in mare debbano trovare accoglienza in isole territorialmente appartenenti ad altri Paesi, con lo scopo di dissuadere gli immigrati dal pagare i trafficanti e iniziare viaggi in mare pericolosi per raggiungere l’Australia. 


Il Piano per l’immigrazione, in vigore nel settembre 2012, che si aggiunge all’Immigration Act del 1958 (che dispone l’obbligo per l’ufficio immigrati di respingere tutti coloro ai quali non viene concesso lo status di rifugiato), prevede il ricovero in strutture esterne al territorio australiano in attesa che le richieste di asilo vengano esaminate e, in caso di esito positivo, venga accordato un permesso di residenza atto a consentire l’ingresso legale nel Paese.

Nel settembre 2013 il governo conservatore di Tony Abbot aveva imposto la chiusura delle frontiere a chi arrivava illegalmente via mare. «Pensano di poter indurci a lasciarli arrivare in Australia, ma non ci faremo mettere sotto pressione, su questo voglio essere molto chiaro. Il mio governo garantisce la sicurezza e l’integrità dei nostri confini» ha dichiarato il presidente australiano Malcolm Turnbull

Rifugiati turchi i Grecia - Professori, giudici, professionisti che temono persecuzioni

Euro News
Non solo i migranti che fuggono da guerre e fame cercano di aggrapparsi all'Europa del sud. I fenomeni migratori si schiudono anche su allettamenti economici come le opportunità di acquisto di un bene immobiliare in Grecia offerte ai turchi che vogliono andarsene dal loro paese.

La speculazione la fa il programma Greek Golden Visa che in realtà ripropone soluzioni già attivate anche in altri paesi in giro per il mondo. Ma anche qui le motivazioni possono essere poco gradevoli.

Gli esperti spiegano che questi acquirenti sono un nuovo tipo di rifugiati. Sono professori, anche giudici, professionisti, alcuni temono le persecuzioni in Turchia.

Con l'acquisto del bene si concede il visto per 5 anni che potrà essere rinnovato. Per avere la cittadinanza ci vogliono invece 7 anni di residenza stabile.

Lanciato nel luglio 2013, il programma per i visti in Grecia concede un visto di residenza in cambio di un investimento nel settore immobiliare. Non è richiesto un soggiorno minimo e i bambini fino a 21 anni sono inclusi nella domanda di famiglia. Il visto è concesso per cinque anni e rinnovato ogni cinque anni se l'investimento immobiliare viene mantenuto. Non è necessario vivere sempre nel paese per conservare e rinnovare il visto.

Parigi, Mireille Knoll reduce della Shoah uccisa in casa. La Procura: “Il movente è l’antisemitismo”. Due persone fermate

Il Fatto Quotidiano
Il corpo senza vita dell'85enne Mireille Knoll. scampata al rastrellamento del 1942 grazie al passaporto brasiliano della madre, è stato ritrovato nella sua abitazione, in cui era divampato un incendio.


Sfuggita ai rastrellamenti nel 1942, morta a 85 anni nell’incendio della sua abitazione di Parigi. Anzi: uccisa. Per la procura della capitale francese, infatti, è l’antisemitismo il movente dell’uccisione di Mireille Knoll, superstite della Shoah, trovata bruciata nel suo appartamento venerdì scorso. 

Per il delitto sono in stato di fermo due persone. Sul corpo dell’anziana, sono state riscontrate ferite da coltello. Secondo Meyer Habib, deputato centrista, che ha parlato con i figli della donna, Mireille Knoll sfuggì “al rastrellamento del Velodrome d’Hiver (a Parigi, 13mila ebrei arrestati in pochi giorni) grazie al passaporto brasiliano della madre”. 

Prima dell’ufficializzazione del movente antisemita, da ambienti investigativi parigini era stata sottolineata l’esistenza di un esposto che la Knoll aveva presentato poco tempo fa contro un vicino che la avrebbe minacciata di farle bruciare la casa. 

Il delitto ha sconvolto la comunità ebraica di Parigi, già mobilitata negli ultimi mesi dopo l’omicidio di Sarah Halimi, un ebrea ortodossa di 65 anni uccisa dal suo vicino di casa nell’aprile 2017. Dopo mesi di lotta giudiziaria, il carattere antisemita di questo omicidio è stato riconosciuto all’inizio di marzo. 

La donna era stata gettata dalla finestra del suo appartamento al terzo piano da un giovane vicino di casa di religione musulmana. Le organizzazioniebraiche avevano protestato con forza davanti all’iniziale decisione degli inquirenti di non considerare l’aggravante dell’antisemitismo nell’uccisione della donna.

Situazione simile a quella di oggi, visto che la procura della capitale francese ha fatto inoltre sapere di aver aperto un’inchiesta “per assassinio collegato all’appartenenza della vittima a una religione” e per furto aggravato. Venerdì, Mireille Knoll, 85 anni, è stata pugnalata e poi bruciata nel suo appartamento dell’XI arrondissement. Sulla scena del delitto, i tecnici della prefettura hanno trovato diversi punti in cui sono state appiccate le fiamme. 

Da questa mattina un uomo di 22 anni, un senzatetto pregiudicato, è in stato di fermo. Sabato era stato fermato un vicino della signora Knoll, un uomo di 29 anni, anche lui pregiudicato e appena uscito di carcere.

lunedì 26 marzo 2018

Bambine Rohingya: Scappate dalla persecuzione del Myanmar, in Bangladesh baby-prostitute e vittime di abusi

Panorama
Tragedia nella tragedia, per bambine e donne Rohingya la fuga dal Myanmar che li perseguita è la porta di una nuova angheria: lo sfruttamento sessuale. Il caos che regna nei campi profughi, le rende "merce" ghiotta del mercato della prostituzione in Bangladesh.


A portarlo alla luce è un'inchiesta della Bbc.
Come funziona l'adescamento delle bimbe Rohingya
Nei campi profughi che sorgono in Bangladesh, al confine con il Myanmar (ex Birmania), i traffici di persone a scopo sessuale sono all'ordine del giorno. Le principali vittime sono donne e bambine, adescate con la promessa di un lavoro o di un aiuto. Offrire la possibilità di una vita migliore a famiglie disperate è la tattica crudele usata dai trafficanti.

Come ha detto una madre, "ovunque è meglio" di una vita dentro i campi. Ecco così che alcuni genitori piangono per i loro figli, finiti chissà dove, altri invece sorridono sperando in una prospettiva di vita migliore.

"Sapevo cosa mi sarebbe successo", ha raccontato una quattordicenne Rohingya alla Bbc. "Tutti sanno che la donna che mi ha offerto lavoro fa fare sesso alla gente; è una Rohingya, è qui da molto tempo, la conosciamo, ma non avevo scelta. Non c'è niente per me qui".
Come vengono trattate le baby prostitute Rohingya
Molte delle ragazzine Rohingya vittime dello sfruttamento minorile finiscono nella città bengalese di Cox's Bazar. Hanno per lo più tra i 13 e i 17 anni. Nella gerarchia della prostituzione di Cox's Bazar, le Rohingya sono in fondo alla lista: sono ritenute sporche, le meno desiderabili e le più economiche in "commercio". Il loro ingresso nel mercato del sesso ha costretto il prezzo della prostituzione a scendere.

C'è molto ricambio nel "parco" ragazze della prostituzione: le giovanette non sono tenute a lungo perché i clienti sono soprattutto bengalesi del posto e si annoiano, vogliono variare. E poi "le ragazze più giovani fanno più casino, quindi ci liberiamo di loro", ha detto un pappone al team investigativo della Bbc, presentatosi sotto copertura, come stranieri in cerca di sesso.

Al giornalista sotto mentite spoglie sono state presentate foto di baby prostitute, per far scegliere la preferita. C'è una grande disponibilità di ragazze e un soprendente margine di scelta. Molte delle bambine vivono con le famiglie dei magnaccia. Quando non sono con un cliente, spesso o cucinano o fanno pulizie.
Divise tra povertà e prostituzione, molte delle ragazzine non vedono altra prospettiva se non il lavoro sessuale, senza il quale non sarebbero in grado di provvedere a se stesse o alle loro famiglie.

Le Rohingya vengono "smerciate" anche a Chittagong e a Dacca in Bangladesh, a Katmandu in Nepal, a Calcutta in India. Qui, dove l'industria del sesso è fiorente, ricevono carte di identità indiane e sono assorbite dal sistema, perdendo le loro vere identità.

Internet è il mezzo che facilita la comunicazione tra i diversi gruppi di criminalità organizzata. I gruppi Facebook, aperti o chiusi, sono una via d'accesso a un'industria del sesso minorile sotterranea.
La crisi dei rifugiati ha offerto a pedofili e trafficanti l'ennesima opportunità per depredare gli individui più vulnerabili.

INPS perde il ricorso per limitare il premio nascita alle straniere. Va dato a tutte le mamme straniere regolari.

ANSA
La Corte d'Appello di Milano ha respinto l'appello dell'Inps contro l'ordinanza del Tribunale che riconosceva il diritto alla richiesta del premio nascita a tutte le mamme straniere regolarmente soggiornanti e non soltanto alle mamme lungosoggiornanti o titolari di protezione internazionale. 


Lo rendono noto Asgi, Apn e Fondazione Piccini le quali confidano nel fatto che l'Inps "assuma una decisione definitiva sul punto, chiudendo il contenzioso e garantendo il rispetto pieno e senza riserve della decisione".

Nigeria, riabbracciano le loro famiglie 105 ragazze rapite a Dapchi da Boko Haran il 15 febbraio

Blog Diritti Umani - Human Rights
Un centinaio di studentesse rapite il 19 febbraio dal gruppo islamista Boko Haram a Dapchi, nel nord-est della Nigeria, rilasciate questa settimana, sono state portate domenica alle loro famiglie.


Vestite in lunghe hijab tradizionali, le 105 ragazze sono arrivate ​​a bordo di cinque autobus scortati dall'esercito a Dapchi, dove hanno potuto abbracciare i loro genitori, dopo aver passato tre giorni con le autorità ad Abuja, la capitale federale.

Sono state immediatamente portate al collegio delle ragazze - il luogo del loro rapimento - per una cerimonia ufficiale alla presenza di diversi alti funzionari nigeriani.

Sono 105 delle 111 studentesse rapite lo scorso 19 febbraio nel loro collegio a Dapchi, sono state liberate mercoledì dai loro rapitori.

Sono state "depositate sulla strada" all'ingresso di Dapchi, secondo il governo, sollevando molte domande sulle modalità dei negoziati con il gruppo jihadista.

Un cristiano, Leah Sharibu, è ancora nelle mani degli insorti, che ha rifiutato di convertirsi all'Islam, secondo la testimonianza dei suoi colleghi della polizia.

Altre cinque ragazze si ritiene che siano morte al momento della presa degli ostaggi, hanno detto le ex prigioniere, che sono ancora ufficialmente "disperse".

ES

Fonte: AFP

Zimbabwe: il presidente commuta decine di condanne a morte

AgoraVox
Condannato all’impiccagione per sabotaggio quando il suo paese si chiamava Rhodesia ed era ancora colonia britannica, il nuovo presidente dello Zimbabwe Emerson Mnangagwa ha una posizione chiaramente abolizionista.
Emmerson Mnangagwa
Per questo motivo, nell’ambito di un provvedimento di clemenza che consentirà a 3.000 prigionieri di tornare in libertà, Mnangagwa ha disposto la commutazione all’ergastolo delle condanne a morte inflitte prima del 2008. Il numero non è ancora chiaro, ma di sicuro di tratta di decine di casi.

Prima del provvedimento, nei bracci della morte dello Zimbabwe si trovavano 98 uomini e una donna. L’ultima esecuzione risale al 2005. L’anno dopo il boia è andato in pensione e non è stato sostituito.

Ora la comunità abolizionista chiede al presidente Mnangagwa un passo ulteriore: commutare tutte le altre condanne e cancellare la pena di morte dalle leggi dello Zimbabwe.

domenica 25 marzo 2018

Gli israeliani democratici contro Netanyahu: no all'espulsione dei migranti

Globalist
Alla protesta hanno partecipato artisti e politici di sinistra. In Israele risiedono circa 40mila migranti africani, raccolti soprattutto nei quartieri popolari della capitale.

La manifestazione a Tel Aviv
Un errore presentare la società israeliana come un monolito, ignorando che ci sono forze e movimenti democratici che vogliono una pace giusta con i Palestinesi, sono contrari agli insediamenti e criticano ferocemente i governi, soprattuto quello attuale di Netanyahu, arrogante e intollerante.

Così più di 20mila israeliani hanno partecipato a Tel Aviv a una manifestazione di protesta contro l'espulsione, decisa dal governo, di migliaia di migranti eritrei e sudanesi entrati illegalmente in Israele anni fa. 

Alla protesta hanno partecipato diversi artisti ed esponenti politici di sinistra. In Israele risiedono circa 40mila migranti africani, raccolti soprattutto nei quartieri popolari di Tel Aviv.
Le prime espulsioni sarebbero dovute partire all'inizio di aprile, ma per il momento sono bloccate per volere della Corte Suprema che ha chiesto di studiare gli accordi segreti raggiunti dal governo con un Paese africano (il Ruanda, secondo la stampa) per assicurarsi che sia garantita la incolumità di quanti vi saranno estradati.

Corridoi umanitari: Sant’Egidio e Chiese protestanti, in arrivo in Italia altri 90 profughi siriani dal Libano

SIR
Altri 43 profughi siriani arriveranno, martedì 27 marzo, da Beirut (Libano) all’aeroporto di Fiumicino, grazie ai corridoi umanitari promossi da Comunità di Sant’Egidio, Federazione delle Chiese evangeliche in Italia e Tavola valdese. Il giorno dopo ne arriveranno altri 47. 


Si tratta di nuclei familiari provenienti da Aleppo, Homs, Raqqa e Edlib. Oltre un terzo sono bambini. “In un momento che vede l’Europa agitarsi sul fenomeno immigrazione l’impegno crescente della società civile dimostra che è possibile un modello alternativo per accogliere e integrare uomini e donne, altrimenti vittime dei trafficanti di esseri umani – si legge in una nota della Comunità di Sant’Egidio -. 

Tutto ciò grazie anche alla generosità di tanti italiani, con un progetto totalmente autofinanziato”. Secondo la Comunità, “è la prova che, di fronte a un fenomeno epocale, si possono proporre soluzioni concrete. I corridoi umanitari sono una di esse”. 

Alcuni rifugiati, giunti nei mesi scorsi, saranno presenti a Fiumicino per accogliere i nuovi arrivati, assieme ad associazioni, laiche e religiose, istituzioni e singoli cittadini che si sono offerti di accogliere nelle diverse regioni italiane. 

L’arrivo dei profughi siriani a Fiumicino e una conferenza stampa sono fissati per le 10.30. Interverranno Marco Impagliazzo, presidente della Comunità di Sant’Egidio, Paolo Naso, della Federazione delle chiese evangeliche in Italia e Tavola valdese, e Mario Giro, viceministro degli Esteri e rappresentanti del ministero dell’Interno. 

Intanto, ieri sono arrivate a Parigi altre 15 persone, portando a 107 il numero di profughi accolti in Francia dal progetto ecumenico promosso da Sant’Egidio insieme con le Chiese evangeliche. Nei prossimi giorni sono previsti, sempre dal Libano, nuovi arrivi in Belgio.

www.santegidio.org: Profughi: nuovi arrivi dal Libano con i corridoi umanitari di Sant'Egidio e Chiese Protestanti

Usa, centinaia di migliaia di giovani in corteo contro le armi: mai così tanti dai tempi del Vietnam

La Repubblica
L'iniziativa promossa da un gruppo di studenti del liceo della Florida dove 17 persone sono state uccise con armi automatiche da un ex studente il 14 febbraio scorso. Più di ottocento manifestazioni in tutto il Paese e oltre un centinaio nel mondo.


Oltre 800mila persone hanno sfilato a Washington, secondo gli organizzatori, ed altre centinaia di migliaia in altre 836 città degli Stati Uniti, per la marcia contro le armi organizzata dopo il massacro della scuola di Parkland in Florida, dove a febbraio hanno perso la vita 17 persone. Per trovare una mobilitazione giovanile altrettanto imponente, secondo l'Associated Press, bisogna tornare indietro di quasi cinquant'anni ai tempi del no alla guerra in Vietnam.

Studenti, insegnanti, genitori e ragazzi sopravvissuti alle stragi nelle scuole che hanno scosso l'America negli ultimi anni hanno percorso Pennsylvania Avenue a Washington, per la manifestazione-clou della giornata di protesta, conclusa dinanzi alla Casa Bianca.

L'evento è stato preparato per settimane da quanti ritengono che la Casa Bianca e il Congresso non abbiano fatto abbastanza per limitare il proliferare delle armi e fermare le stragi; e hanno deciso di scendere in piazza contro la potente National Rifle Association, la lobby delle armi.

E' un fiume in piena quello che ha percorre il centro della città con la "Marcia per le nostre vite": "Noi siamo la generazione del cambiamento", dice Ann, che viene dalla Pennsylvania, ha 18 anni e sottolinea con orgoglio: "sono già registrata per votare. E sono qui perché da qui parte il cambiamento".

Obiettivo primario della manifestazione è quello di ottenere dal Congresso leggi più severe per le vendite di armi, specie quelle a ripetizione, in modo da frenare le stragi che, con macabra puntualità, si ripetono negli istituti scolastici di tutto il paese. "Mio nonno aveva un sogno - ha detto dal palco di Washington la nipotina di Martin Luther King, 9 anni - e anch'io ho un sogno: un mondo senza le armi".

Ma il momento più toccante della manifestazione è stato quando Emma Gonzales, sopravvissuta al massacro di Parkland, ha chiesto e ottenuto alla folla enorme che l'ascoltava di restare in silenzio per 6 minuti e 20 secondi, il tempo intercorso tra il primo e l'ultimo sparo nella Marjori Stoneman Douglas High School in Florida.

Eventi si sono svolti in tutto il Paese: oltre 700 le marce collegate negli Stati Uniti: da Washington a New York, da San Francisco a Los Angeles, passando per Seattle. Più di un centinaio quelle 'gemellate' nel resto del mondo.

L'iniziativa ha raccolto il sostegno di molte celebrità di Hollywood. In prima fila Oprah Winfrey, Justin Bieber, Steven Spielberg e la coppia George e Amal Clooney che hanno anche robustamente finanziato l'organizzazione, donando 500mila dollari.
"Mi avete reso nuovamente orgoglioso del mio Paese": ha scritto l'attore in una lettera agli studenti del liceo di Parkland pubblicata nell'edizione Usa del Guardian.

Alle iniziative è arrivato anche il sostegno dell'ex presidente Barack Obama: che in un tweet ha voluto esprimere la gratitudine e il supporto suo e della moglie Michelle.

sabato 24 marzo 2018

Congo tra violenze e fame - Bambini malnutriti senza cure negli ospedali

Globalist
Bambini congolesi malnutriti nell'ospedale Tshiamala di Mwene Ditu nella provincia orientale del Kasai.


Violenze nel paese, e la fame. 
Da un lato un vero e proprio disastro umanitario nel paese per le violenze dall’altro la peggior epidemia di colera degli ultimi 15 anni, secondo le Nazioni Unite. 

Più di 4,6 milioni di bambini sono seriamente malnutriti, mentre 13 milioni di persone avrebbero bisogno di aiuti umanitari a causa dei conflitti interni al Paese.
Questi bambini congolesi malnutriti sono ricoverati nell'ospedale Tshiamala di Mwene Ditu nella provincia orientale del Kasai.
Ma purtroppo mancano i fondi. E tanti restano senza cure.

Mauritania, cresce la repressione verso attivisti diritti umani che denunciano schiavitù e discriminazioni

La Repubblica
Il rapporto di Amnesty International. Il governo continua a negare, ma nel Paese ci sono migliaia di schiavi. Gli attivisti - c'è scritto nel rapporto - rischiano l’arresto e la tortura solo per aver denunciato lo sfruttamento. Decine di gruppi anti-discriminazione restano fuorilegge.


In un nuovo rapporto sulla Mauritania, presentato a Dakar, Amnesty International ha denunciato che i difensori dei diritti umani che denunciano la persistente pratica della schiavitù e la discriminazione nel paese vanno incontro ad arresti arbitrari, torture, detenzione in centri isolati e il sistematico divieto delle loro manifestazioni. Il rapporto accusa inoltre il governo mauritano di negare sistematicamente l’esistenza della schiavitù. “Nonostante la schiavitù sia stata abolita per legge quasi 40 anni fa, il governo mauritano mostra profondo disprezzo per i diritti umani continuando non solo a tollerarla ma anche perseguitando coloro che la denunciano”, ha dichiarato Alioune Tine, direttore di Amnesty International per l’Africa centrale e occidentale. “Con l’approssimarsi, quest’anno e il prossimo, delle elezioni - , ha proseguito Tine - il rischio di rivolte sociali sarà alto se tutte le opinioni, comprese quelle critiche, non verranno rispettate. Le autorità devono porre fine agli attacchi contro i difensori dei diritti umani e prendere misure concrete ed efficaci per fermare la schiavitù e la discriminazione”.

Calcolati circa 43.000 schiavi. Il rapporto di Amnesty International illustra le varie tattiche impiegate dal governo per zittire i difensori dei diritti umani e gli attivisti: dal divieto di svolgimento di manifestazioni pacifiche all’uso della forza eccessiva contro i dimostranti, dalla messa fuorilegge di gruppi di attivisti all’interferenza nelle loro attività. La diffusa persistenza della schiavitù e della discriminazione. Nel 2016 i gruppi internazionali contro la schiavitù avevano stimato in 43.000 il numero delle persone ridotte in schiavitù in Mauritania, l’uno per cento della popolazione. La polizia, la magistratura e i giudici non intervengono in modo efficace sulle denunce di sfruttamento, non identificano le vittime né puniscono i presunti responsabili. Nel 2016 i tribunali che si occupano di schiavitù hanno ricevuto 47 denunce riguardanti 53 persone ma hanno condannato solo due imputati.

L'ostracismo per gli Haratin e gli afro-mauritani. Il rapporto di Amnesty International spiega che le pratiche discriminatorie colpiscono soprattutto la comunità haratin, un gruppo etnico delle oasi del Sahara, presenti nel sud algenirno in Marocco, Mauritania e nel Sahara Occidentale, tendenzialmente nomadi, di lingua berbera o araba, ch si ritiene abbiano abitato il Sahara prima che diventasse deserto e probabilmente discendenti degli schiavi provenienti dal Sahel. Discriminazioni pesanti anche per le comunità afro-mauritane, i cui membri raramente accedono a posizioni di vertice e subiscono ostacoli nella registrazione all’anagrafe, ciò che limita tra l’altro l’accesso a servizi essenziali. Esistono anche limitazioni alle manifestazioni pacifiche e alle associazioni: il diritto di manifestazione in Mauritania è praticamente negato. Negli ultimi anni, 20 gruppi per i diritti umani hanno fatto sapere ad Amnesty International che le loro manifestazioni pacifiche erano state vietate o disperse, in alcuni casi con l’uso eccessivo della forza che aveva causato feriti tra i dimostranti.

Manifestazioni pacifiche vietate. Nell’aprile 2017, nella capitale Nouakchott una marcia di un centinaio di giovani attivisti che chiedevano politiche in materia d’istruzione più inclusive è stata dispersa con la violenza e 26 manifestanti sono stati arrestati. Il 28 novembre 2017 15 aderenti all’Associazione delle vedove e degli orfani sono stati arrestati e altri picchiati dalle forze di sicurezza durante una manifestazione pacifica. Un orfano è stato colpito con un pugno al volto e ha dovuto subire un ricovero. Ma non sono solo le proteste a essere vietate: interi gruppi che combattono contro la schiavitù e la discriminazione sono messi fuorilegge. Il rapporto documenta i casi di oltre 43 di questi gruppi che, nonostante ripetute richieste di registrazione, non hanno mai ottenuto l’autorizzazione. Tra questi gruppi vi sono il movimento per la democrazia Kavana (“È abbastanza”) e l’associazione antischiavista Iniziativa per il risveglio del movimento abolizionista (Ira).

“Benvenuto a Guantánamo”. Dal 2014, Amnesty International ha documentato 168 arresti arbitrari di difensori dei diritti umani, almeno 17 dei quali sono stato sottoposti a maltrattamenti e torture. Negli ultimi quattro anni sono stati arrestati 63 esponenti dell’Ira e 23 del Movimento del 25 febbraio, un gruppo di giovani per la democrazia. Almeno 15 esponenti dell’Ira sono stati condannati a pena detentiva dopo processi irregolari e alcuni di loro sono stati costretti a “confessare” mediante maltrattamenti e torture. “Gli agenti di polizia mi hanno ammanettato e bendato. Non avevo la minima idea di dove mi stessero portando. Quando siamo arrivati a destinazione, uno di loro mi ha detto ‘Benvenuto a Guantánamo’. Prima che mi interrogassero, una guardia mi ha avvisato: “Dì loro quello che vogliono sentirti dire. Lo sai che abbiamo quello che serve per farti parlare”, ha raccontato ad Amnesty International Amadou Tijane Diop, attivista anti-schiavitù arrestato nel 2016.

Campagne diffamatorie. Aggressioni e minacce di morte si susseguono con totale impunità contro i difensori dei diritti umani, definiti spesso traditori, criminali, agenti stranieri, razzisti, apostati o politicanti. Queste intimidazioni provengono dai livelli più alti dello stato e da gruppi religiosi, spesso in concomitanza con riunioni internazionali in Europa. Per esempio la difensora dei diritti umani Mekfoula Brahim è stata vittima di una campagna coordinata di diffamazioni sui social media e ha ricevuto minacce di morte solo per aver chiesto l’assoluzione del blogger Mohamed Mkhaïtir, condannato a morte per blasfemia. “Campagne del genere, che descrivono i difensori dei diritti umani alla stregua di una minaccia alla sicurezza nazionale o ai valori culturali pongono queste persone a rischio e hanno un effetto distruttivo sulla libertà d’espressione”, ha commentato Tine. “Leautorità mauritane dovrebbero dimostrare che intendono rispettare tutte le voci critiche iniziando a scarcerare tutte le persone arrestate solo per aver denunciato la discriminazione e riconoscendo l’importanza del lavoro dei difensori dei diritti umani”, ha concluso Tine.