Non si placano le lotte armate lontano dalla capitale, mentre continua l’esodo interno dei profughi accolti principalmente nelle parrocchie.
Passione e morte. Il conflitto scoppiato alla fine del 2012 lascia ancora morti sul campo. Il Centrafrica, nonostante i proclami e le intenzioni manifestate, continua a vivere in una spirale di violenza e di paura.
L’ultimo episodio è stato confermato al sito Rjdh Centrafique (Réseau des journalistes pour les droits de l’homme) dal vescovo di Bambari, monsignor Richard Appora. La scorsa settimana, infatti, ci sono stati degli scontri tra gli ex-Seleka e gli anti-Balaka a Seko (a 60 km da Bambari): un attacco armato il 21 marzo ha colpito la parrocchia di Saint Charles Lwanga e ha ucciso 30/40 persone, tra queste il parroco, padre Désiré Angbabata, espressione di questa giovane ma coraggiosa Chiesa centrafricana.
Le notizie sono ancora frammentarie per la difficoltà di accesso alla città. Più ci si allontana dalla capitale e più diventa evidente l’assenza di sicurezza nella «terra di nessuno», come la definisce padre Federico Trinchero del convento carmelitano di Bangui. Ufficialmente la coalizione Seleka è stata sciolta, ma ci sono decine di gruppi di ribelli che infestano l’80% del Paese. «Siamo come tornati, purtroppo, alla casella di partenza», commenta amaro padre Trinchero. Le Chiese diventano il naturale luogo di approdo delle persone che scappano in fuga e che si lasciano alle spalle case bruciate e depredate. Nella parrocchia di Markounda (diocesi di Bossangoa), nel nord ovest della nazione, si contano 7.500 profughi.
Le tensioni e le preoccupazioni sono confermate anche da padre Guy-Alain, sacerdote locale, che sul blog José del Rio ricostruisce gli eventi e lancia un grido di aiuto alla comunità internazionale. «L’accesso all’acqua – spiega – è il primo problema umanitario. Non abbiamo medicinali e le persone vivono in mezzo ai rifiuti in scarse condizioni igieniche». I due gruppi armati non si sono ancora riconciliati e sono sempre pronti a sparare. Sono sempre di più gli ex-Seleka che minacciano e rapinano le persone. Si ritirano nella boscaglia e si nascondono nei campi mettendo a rischio anche l’agricoltura visto che i contadini sono impauriti e giustamente preoccupati per la loro incolumità. Si nota anche l’assenza in mezzo alla gente di uomini della Missione Minusca (United Nations Multidimensional Integrated Stabilization Mission in the Central African Republic). Padre Alain vive nella sotto-prefettura di Markounda su una superficie di circa 7mila chilometri quadrati che accoglie 38.191 abitanti distribuiti in 123 villaggi e dediti principalmente all’agricoltura, all’allevamento e alla pesca.
Siamo al confine con il Ciad, a 480 km dalla capitale Bangui. «La sotto-prefettura – scrive – sta lottando per la sua crescita sociale, economica e amministrativa». Mancano, però, un’infrastruttura amministrativa, personale sanitario qualificato e docenti. «L’istruzione rimane una situazione preoccupante per il futuro dei bambini: ci sono 3 o 4 insegnanti per i 9mila studenti che si trovano nelle 42 scuole del territorio». Non si intravedono, purtroppo, segnali di speranza. «La situazione è sempre più drammatica con la crisi politica-militare in corso nel Paese e, in particolare, nella nostra zona. Assistiamo a un esodo interno e accogliamo molti profughi. L’insicurezza nella città e nei villaggi non consente alla popolazione di intraprendere attività rurali o altri impieghi. Il deterioramento delle strade rende il nostro territorio una enclave. La falsa diceria (potremmo definirla propaganda), inoltre, non consente agli operatori umanitari di assistere adeguatamente la popolazione. Siamo molto preoccupati».
Uno scenario drammatico, davanti al quale tornano in mente le parole di Papa Francesco: «Tutto si perde con la guerra».
Le notizie sono ancora frammentarie per la difficoltà di accesso alla città. Più ci si allontana dalla capitale e più diventa evidente l’assenza di sicurezza nella «terra di nessuno», come la definisce padre Federico Trinchero del convento carmelitano di Bangui. Ufficialmente la coalizione Seleka è stata sciolta, ma ci sono decine di gruppi di ribelli che infestano l’80% del Paese. «Siamo come tornati, purtroppo, alla casella di partenza», commenta amaro padre Trinchero. Le Chiese diventano il naturale luogo di approdo delle persone che scappano in fuga e che si lasciano alle spalle case bruciate e depredate. Nella parrocchia di Markounda (diocesi di Bossangoa), nel nord ovest della nazione, si contano 7.500 profughi.
Le tensioni e le preoccupazioni sono confermate anche da padre Guy-Alain, sacerdote locale, che sul blog José del Rio ricostruisce gli eventi e lancia un grido di aiuto alla comunità internazionale. «L’accesso all’acqua – spiega – è il primo problema umanitario. Non abbiamo medicinali e le persone vivono in mezzo ai rifiuti in scarse condizioni igieniche». I due gruppi armati non si sono ancora riconciliati e sono sempre pronti a sparare. Sono sempre di più gli ex-Seleka che minacciano e rapinano le persone. Si ritirano nella boscaglia e si nascondono nei campi mettendo a rischio anche l’agricoltura visto che i contadini sono impauriti e giustamente preoccupati per la loro incolumità. Si nota anche l’assenza in mezzo alla gente di uomini della Missione Minusca (United Nations Multidimensional Integrated Stabilization Mission in the Central African Republic). Padre Alain vive nella sotto-prefettura di Markounda su una superficie di circa 7mila chilometri quadrati che accoglie 38.191 abitanti distribuiti in 123 villaggi e dediti principalmente all’agricoltura, all’allevamento e alla pesca.
Siamo al confine con il Ciad, a 480 km dalla capitale Bangui. «La sotto-prefettura – scrive – sta lottando per la sua crescita sociale, economica e amministrativa». Mancano, però, un’infrastruttura amministrativa, personale sanitario qualificato e docenti. «L’istruzione rimane una situazione preoccupante per il futuro dei bambini: ci sono 3 o 4 insegnanti per i 9mila studenti che si trovano nelle 42 scuole del territorio». Non si intravedono, purtroppo, segnali di speranza. «La situazione è sempre più drammatica con la crisi politica-militare in corso nel Paese e, in particolare, nella nostra zona. Assistiamo a un esodo interno e accogliamo molti profughi. L’insicurezza nella città e nei villaggi non consente alla popolazione di intraprendere attività rurali o altri impieghi. Il deterioramento delle strade rende il nostro territorio una enclave. La falsa diceria (potremmo definirla propaganda), inoltre, non consente agli operatori umanitari di assistere adeguatamente la popolazione. Siamo molto preoccupati».
Uno scenario drammatico, davanti al quale tornano in mente le parole di Papa Francesco: «Tutto si perde con la guerra».
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.