Nei campi del Bangladesh i venti minacciano 150 mila profughi: “Lottiamo contro il tempo”
Fervono i lavoro nel campo per consolidare le baracche |
L’esodo di questa minoranza musulmana in fuga dalle discriminazioni dei monaci buddisti più integralisti e dalle violenze ha avuto due picchi: nei primi anni Novanta (la legge sulla cittadinanza del 1982 non la riconosce fra le 135 etnie del Myanmar), e nell’autunno scorso, con 682 mila nuovi arrivi. «È la crisi peggiore dai tempi del Rwanda» sintetizza Suranga Mallawa del dipartimento di Protezione civile e assistenza umanitaria della Ue (Echo).
Oggi nel distretto di Cox’s Bazar, famoso per la sua lunghissima spiaggia, ci sono 865 mila migranti: 33 mila registrati come rifugiati e altri 832 mila «contati» dal governo di Dacca, che li accoglie definendoli «cittadini birmani senza documenti». La maggioranza vive nel megacampo cresciuto attorno a Kutupalong scacciando gli elefanti: è grande come Lisbona e per attraversarlo a piedi ci vogliono sette ore. Gli altri sono ospiti delle comunità locali con le quali condividono la religione e il 70% della lingua.
La vita nei campi scorre fra code per le razioni di riso e monotonia. Seduto sotto una pianta di akashmoni nell’accampamento di Jadimura, Sirajul Islam, 40 anni, non trattiene le lacrime: «Voglio tornare a casa». Corre nella capanna a prendere i documenti che dimostrano la sua storia: il foglio blu consegnato dal governo di Naypyidaw nel 2014 che lo definisce «ospite straniero» e una fotocopia del documento d’identità bianco che invece gli aveva permesso di votare alle elezioni del 2010. Oggi nel Parlamento del Myanmar non ci sono musulmani. I motivi delle persecuzioni, e dello speculare crollo dell’immagine di Aung San Suu Kyi, vanno cercati nel cortocircuito fra buddismo theravada, identità nazionale e rapporti con le minoranze che fa da sfondo al processo di democratizzazione dell’ex Birmania.
Fra le baracche la paura per i 200 mila Rohingya rimasti nel Rakhine convive con quella di affrontare i monsoni. Sono attesi per maggio e l’Onu ha calcolato che 150 mila profughi potrebbero sparire sotto 2,5 metri d’acqua. «I rifugi sono costruiti su colline dove anche i fili d’erba sono stati sradicati per cucinare - spiega Caroline Gluck dell’Unhcr -. L’altro pericolo sono le epidemie di difterite e colera. Qui non c’è più spazio». Eppure il flusso prosegue. «Quelli che hanno arrestato mio marito mi ripetevano: “Sei bengalese e musulmana, qui non puoi stare”. Dove altro potevo andare?» si interroga Masuma, arrivata a fine marzo con tre figli. Il primogenito è già da mesi con uno zio a Balukhali, dove frequenta una madrassa. Nei campi l’istruzione è affidata per lo più agli imam e i monsoni sono il problema principale solamente a breve termine. Ce ne sono altri che rimangono stagnanti: l’analfabetismo e il rischio radicalizzazione. I cooperanti confermano che nei report sulla sicurezza si parla dell’Arsa (Arakan Rohingya Salvation Army) e di focolai jihadisti. «Più andrà avanti la crisi più la minaccia potrebbe concretizzarsi» ammette Mohammad Abdul Kalam, commissario del Bangladesh per l’assistenza e il rimpatrio dei rifugiati. E poi c’è la bomba demografica: secondo «Save the children» nei prossimi mesi ci saranno fra i 60 e i 100 mila parti. Molti sono i figli degli stupri commessi dai militari birmani.
Come uscirne? La Marina del Bangladesh ha ufficializzato il progetto da 280 milioni di dollari che a giugno prevede di trasferire 100 mila Rohingya sull’isola disabitata di Bhasan Char, nel golfo del Bengala. La comunità internazionale spinge invece perché i Rohingya tornino nelle loro terre in modo «sicuro, volontario e dignitoso». Il 12 aprile c’è stata l’unica visita di un ministro birmano (Affari sociali) nei campi profughi, seguita dall’annuncio di un primo rimpatrio: 5 persone.
I tempi della diplomazia sono lunghi. Intanto migliaia di Rohingya potrebbero sfidare il Mar delle Andamane, finendo come schiavi sui pescherecci thailandesi e nelle case di Kuala Lumpur, mentre il mondo si gira dall’altra parte. Non è un caso che il governo di Sheikh Hasina sottolinei con ogni mezzo che Cox’s Bazar deve tornare a essere una località turistica: nei campi è vietato utilizzare materiali di costruzione duraturi e i Rohingya non hanno libertà di movimento. «Ieri è arrivato un uomo con un cancro che altrove sarebbe curabile - confessa Karin Smo della Croce Rossa, direttrice dell’unico ospedale con una sala operatoria -. L’abbiamo dovuto mandare nella sua capanna a morire».
Francesco Moscatelli - Inviato a Cox’s Bazar
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