Più di mille i campi di prigionia e lavoro forzato disseminati in tutta la Repubblica Popolare Cinese dove le condizioni di vita e lavoro dei detenuti, uomini donne e bambini, sono disumane.
Sono più di mille i campi di prigionia e lavoro forzato disseminati in tutta la Repubblica Popolare Cinese. Definiti “i nuovi Gulag cinesi”, perché ispirati ai campi di concentramento russi di epoca staliniana, i Laogai vennero istituiti nel 1950 da Mao Zedong, il rivoluzionario che portò il comunismo a trionfare in Cina. Attualmente i Laogai ospitano milioni di persone, uomini, donne e bambini che, al pari di schiavi, sono costretti a massacranti condizioni di vita e di lavoro.
Le poche informazioni a riguardo, per lo più smentite dal Governo cinese, arrivano da coloro che, da queste prigioni, sono usciti, perché arrivati a fine pena o perché riusciti a fuggire. Harry Wu era forse il più famoso di questi: arrestato nel 1960 con l’accusa di essere un cattolico e “controrivoluzionario di destra”, fu detenuto in diversi campi Laogai fino al 1979, quando fu rilasciato grazie alla liberalizzazione che seguì la morte di Mao Zedong.
Diciannove anni di sofferenze e di violenze testimoniate da Wu, fino al giorno della sua morte nel 2017, con numerose interviste e con esperienze di attivismo e denuncia delle violazioni dei diritti umani in Cina, iniziate una volta rifugiatosi in America, dove fondò, nel 1992, la Laogai Research Foundation, un’organizzazione di ricerca e pubblica educazione no profit sui campi di lavoro cinesi.
Negli anni sono venuti alla luce alcuni degli strumenti di tortura che la dittatura cinese mette in atto in questi “campi di rieducazione” nei confronti dei condannati. Si parla di lavori forzati, che durano anche 18 ore al giorno, in miniere di carbone o a costruire strade o lavorare la terra, di tempo passato a nutrirsi, in mancanza d’altro, anche di insetti e topi.
Negli anni sono venuti alla luce alcuni degli strumenti di tortura che la dittatura cinese mette in atto in questi “campi di rieducazione” nei confronti dei condannati. Si parla di lavori forzati, che durano anche 18 ore al giorno, in miniere di carbone o a costruire strade o lavorare la terra, di tempo passato a nutrirsi, in mancanza d’altro, anche di insetti e topi.
All’interno dei Laogai sono previste punizioni corporali quali scariche elettriche, pestaggi, sospensione per le braccia, privazione del sonno, isolamento in celle di pochi metri quadrati, assenza di cure mediche e controlli, induzione al vomito con tubi ficcati in gola o nel naso, esposizione a caldo o freddo, bruciature, fino ad arrivare a violenze sessuali e all’asportazione e al traffico di organi dei detenuti.
Ma ciò che veramente distingue i Laogai cinesi dai predecessori campi di concentramento nazisti o staliniani, è l’attuazione anche di un vero e proprio abuso psicologico, che si concretizza nel lavaggio del cervello dei detenuti. Un indottrinamento politico che porta il prigioniero alla perdita della propria identità e a essere educato all’infallibilità del comunismo. Ogni giorno sono previste sessioni di studio dopo il lavoro forzato, costituite anche dalla cosiddetta “autocritica” per la riforma del pensiero, in cui, oltre a elencare e analizzare le proprie colpe, il detenuto le deve ammettere pubblicamente e deve giurare di diventare una “nuova persona socialista”. Infine deve dimostrare la propria lealtà al Partito Comunista Cinese denunciando anche i propri amici e familiari. I più colpiti, come è facile capire, sono i dissidenti politici contrari al Partito e i praticanti del Falun Gong, una pratica spirituale accusata di diffondere credenze irrazionali e di minare la stabilità sociale.
La “riforma” della personalità dei detenuti rende il sistema di rieducazione del Laogai strettamente funzionale allo stato totalitario cinese, così come, altrettanto funzionale, questa volta all’economia cinese, risulta il lavoro a cui sono costretti i prigionieri. Questo, infatti, rappresenta il secondo scopo alla base dell’istituzione dei Laogai: fornire un’enorme forza lavoro a costo zero per le multinazionali che producono e investono in Cina. È proprio dal lavoro nei Laogai che è partita l’attuale conquista cinese dei mercati esteri, caratterizzata da un basso tasso di disoccupazione, da una crescita continua dell’esportazione e dalla concorrenza spietata sui prezzi. Oggi nei Laogai si produce di tutto: articoli di vestiario, giocattoli, mobilio, tecnologia, veicoli… praticamente tutto ciò che in Occidente porta il marchio “Made in China”.
Viene facile capire come diventi semplice trarre vantaggio dalla violazione dei diritti umani in un Paese dove il solo pensare è considerato reato capitale e il pensiero è definito “istigazione eversiva”. Ne consegue che l’attuale e sfavillante crescita economica cinese nasce e si perpetua con il lavoro forzato nei Laogai e in una vasta rete di fabbriche-lager in cui le condizioni lavorative non sono tanto diverse dalla schiavitù. Si stima che almeno l’80% della popolazione cinese sia sfruttata in esse, nelle campagne e nelle miniere, a vantaggio della restante minoranza del 20%, il più delle volte collegata al Partito.
Il lavoro nei Laogai diventa quindi un business, non solo per la Cina, che è ormai la seconda potenza economica mondiale, ma anche per il resto del mondo che, pur condannando apertamente il sistema dei Laogai e le violazioni dei diritti umani, si limita però assurdamente a voltare lo sguardo altrove e a continuare a intrattenere rapporti commerciali con Pechino, con la falsa speranza che il commercio con l’Occidente potrà migliorare la situazione, e senza comprendere che è proprio questo comportamento che perpetua lo status quo. È evidente, infatti, che finché l’Occidente accetterà i prodotti fabbricati in Cina, i Laogai continueranno ad esistere e i diritti umani ad essere calpestati.
Luca Rinaldi
Harry WU, in una delle sue interviste, ha usato poche semplici parole per descrivere i Laogai: “Sono posti in cui si fabbricano due generi di cose: i prodotti e gli uomini”.
Ma ciò che veramente distingue i Laogai cinesi dai predecessori campi di concentramento nazisti o staliniani, è l’attuazione anche di un vero e proprio abuso psicologico, che si concretizza nel lavaggio del cervello dei detenuti. Un indottrinamento politico che porta il prigioniero alla perdita della propria identità e a essere educato all’infallibilità del comunismo. Ogni giorno sono previste sessioni di studio dopo il lavoro forzato, costituite anche dalla cosiddetta “autocritica” per la riforma del pensiero, in cui, oltre a elencare e analizzare le proprie colpe, il detenuto le deve ammettere pubblicamente e deve giurare di diventare una “nuova persona socialista”. Infine deve dimostrare la propria lealtà al Partito Comunista Cinese denunciando anche i propri amici e familiari. I più colpiti, come è facile capire, sono i dissidenti politici contrari al Partito e i praticanti del Falun Gong, una pratica spirituale accusata di diffondere credenze irrazionali e di minare la stabilità sociale.
La “riforma” della personalità dei detenuti rende il sistema di rieducazione del Laogai strettamente funzionale allo stato totalitario cinese, così come, altrettanto funzionale, questa volta all’economia cinese, risulta il lavoro a cui sono costretti i prigionieri. Questo, infatti, rappresenta il secondo scopo alla base dell’istituzione dei Laogai: fornire un’enorme forza lavoro a costo zero per le multinazionali che producono e investono in Cina. È proprio dal lavoro nei Laogai che è partita l’attuale conquista cinese dei mercati esteri, caratterizzata da un basso tasso di disoccupazione, da una crescita continua dell’esportazione e dalla concorrenza spietata sui prezzi. Oggi nei Laogai si produce di tutto: articoli di vestiario, giocattoli, mobilio, tecnologia, veicoli… praticamente tutto ciò che in Occidente porta il marchio “Made in China”.
Viene facile capire come diventi semplice trarre vantaggio dalla violazione dei diritti umani in un Paese dove il solo pensare è considerato reato capitale e il pensiero è definito “istigazione eversiva”. Ne consegue che l’attuale e sfavillante crescita economica cinese nasce e si perpetua con il lavoro forzato nei Laogai e in una vasta rete di fabbriche-lager in cui le condizioni lavorative non sono tanto diverse dalla schiavitù. Si stima che almeno l’80% della popolazione cinese sia sfruttata in esse, nelle campagne e nelle miniere, a vantaggio della restante minoranza del 20%, il più delle volte collegata al Partito.
Il lavoro nei Laogai diventa quindi un business, non solo per la Cina, che è ormai la seconda potenza economica mondiale, ma anche per il resto del mondo che, pur condannando apertamente il sistema dei Laogai e le violazioni dei diritti umani, si limita però assurdamente a voltare lo sguardo altrove e a continuare a intrattenere rapporti commerciali con Pechino, con la falsa speranza che il commercio con l’Occidente potrà migliorare la situazione, e senza comprendere che è proprio questo comportamento che perpetua lo status quo. È evidente, infatti, che finché l’Occidente accetterà i prodotti fabbricati in Cina, i Laogai continueranno ad esistere e i diritti umani ad essere calpestati.
Luca Rinaldi
Harry WU, in una delle sue interviste, ha usato poche semplici parole per descrivere i Laogai: “Sono posti in cui si fabbricano due generi di cose: i prodotti e gli uomini”.
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