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sabato 30 giugno 2018

Msf: "spostano le frontiere a sud e ci colpiscono in quanto testimoni scomodi"

Il Manifesto
Claudia Lodesani, presidente di Medici Senza Frontiere Italia: "Siamo dei testimoni scomodi e non dobbiamo documentare cosa avviene nell'area delle operazioni. Msf salva vite in molte parti del mondo, abbiamo problemi solo in Europa".


Claudia Lodesani, presidente di Medici senza frontiere Italia, in merito alle risoluzioni adottate dal Consiglio d'Europa durante il vertice che si è concluso ieri. "Msf salva vite in molte parti del mondo, abbiamo problemi solo in Europa. Siamo accusati di favorire i trafficanti eppure non c'è lo stesso accanimento contro i trafficanti veri"

"I governi europei devono mettere fine alle politiche che costringono le persone a rimanere intrappolate in Libia o a morire in mare" è il commento di Claudia Lodesani, presidente di Medici senza frontiere Italia, in merito alle risoluzioni adottate dal Consiglio d'Europa durante il vertice che si è concluso ieri.

Come valuta il compromesso raggiunto dai 28 stati?
Sono due i punti rilevanti: spostare le frontiere europee a sud della Libia per tenere i migranti in Africa. Ma i flussi non si arrestano perché così viene deciso a Bruxelles. L'altro punto è tenere le Ong al di fuori della zona di ricerca e soccorso della Libia. Siamo dei testimoni scomodi e non dobbiamo documentare cosa avviene nell'area delle operazioni. Msf salva vite in molte parti del mondo, abbiamo problemi solo in Europa. Siamo accusati di favorire i trafficanti eppure non c'è lo stesso accanimento contro i trafficanti veri. Se ci spingiamo a ridosso delle acque libiche è perché i naufragi avvengono nelle prime 24 ore dalla partenza.
È ancora possibile per le Ong operare nel Mediterraneo?
Msf fornisce assistenza dal 2002. I nostri team medici, in accordo con il ministero, erano a terra, a Lampedusa e Pozzallo. Poi nel 2014 è iniziato un flusso altissimo di migranti dalla Libia, a occuparsene era la missione Mare nostrum. Nel 2015 venne sospesa e in dieci giorni ci furono 1.200 morti in mare. Sono numeri più alti di quelli che si registrano in zone di guerra. Così decidemmo di fare soccorso nel Mediterraneo. L'anno scorso il ministro Minniti siglò l'accordo con la Libia e le Ong diventarono scomode. Da allora i flussi sono diminuiti dell'80%, va però anche detto che sono drasticamente diminuite le navi delle Ong e sono aumentati i morti in mare. La settimana scorsa sono stati 220 gli annegati. Ieri in 100 sono stati inghiottiti dalle acque a largo della Libia.
Se ne occuperà la Guardia costiera libica.
La Marina di Tripoli non è attrezzata per sostenere il compito da sola. Abbiamo sempre operato in accordo con il Centro di coordinamento di Roma fino a che il clima politico non è cambiato. Le ong hanno anche una funzione di controllo e denuncia su quanto accade ai migranti, non dimentichiamo che la Libia non ha mai ratificato la Convenzione di Ginevra. E comunque le nostre operazioni sono legali e rientrano nelle norme internazionali.
Salvini ha annunciato che alle Ong sarà vietato sbarcare in Italia anche per i rifornimenti. Vi accusa di venire finanziati da Soros per cancellare le identità nazionali.
Sono provocazioni faziose e poco serie. Sul sito internet c'è il nostro bilancio, è tutto alla luce del sole. Questi attacchi continui posso far calare le donazioni (e forse è proprio questo lo scopo) ma possono anche produrre l'effetto opposto. La gente è scesa in piazza per chiedere di aprire i porti, si sono fatti sentire i sindaci, ci arrivano molti messaggi di sostegno. Chiudere i porti per i rifornimenti è l'ennesimo atto di questa guerra alle ong. All'Aquarius di Sos Méditerranée (su cui opera un team di Msf) è stato negato l'approdo a Malta, all'Italia non è stato neppure chiesto, hanno preferito fare rotta su Marsiglia, dove la Ong ha la sede. Giorni e denaro sprecato. Ne stiamo discutendo per trovare contromisure ma l'intenzione è ritornare a operare perché, fino a che la gente rischia la vita, non possiamo non farlo.

I naufraghi riportati in Libia in che condizioni vivono?
Nell'ultimo mese Msf è stata in quattro centri di detenzione, le torture e i maltrattamenti sono descritti nei referti medici. È indegno sminuire le sofferenze di queste persone, le cui condizioni sono documentate dall'Onu. Msf ha un team di psicologi agli sbarchi per i sopravvissuti ai naufragi: bambini che hanno visto morire i genitori, adulti che hanno perso i familiari. Quasi tutti soffrono per le conseguenze delle torture, traumi psicologici o fisici come gli effetti della falaka: la pianta del piede viene colpita ripetutamente fino a ledere i nervi, col tempo si ha difficoltà a camminare perché alle gambe arrivano scosse elettriche. L'Europa dovrebbe farsi carico della cura e del reinserimento di queste persone, soprattutto farle arrivare attraverso vie legali, che oggi non esistono più.

Adriana Pollice

Migranti - Ferme le Ong - Naufragio. 100 migranti morti al largo della Libia. Recuperati i corpi di tre bambini

Avvenire
Hanno atteso in acqua un'ora, nuotando come potevano, aspettando soccorsi che non sono arrivati. Sono morte così 100 persone, 70 uomini e 30 donne, in un naufragio confermato dalla Guardia costiera libica e dall'Alto commissariato dell'Onu per i rifugiati (Acnur).


Il gommone che si è inabissato 6 chilometri al largo delle coste libiche aveva circa 120 persone a bordo. Solo 16 si sono salvati. Al momento sono stati ripescati i corpi di tre bambini molto piccoli, all'incirca di un anno.

"La pattuglia è arrivata dopo il naufragio della barca", conferma un post su Facebook della Guardia costiera libica, che conferma l'annegamento di "più di 100 migranti" ed escludendo quindi implicitamente che vi siano altri sopravvissuti rispetto ai 16 già segnalati.

Nel post in cui vengono forniti i dettagli del naufragio, la Guardia costiera sottolinea lo "sforzo gigantesco" per salvare i migranti malgrado "deboli capacità, la mancanza di motovedette e di pezzi di ricambio". 

C'è inoltre un "problema umano, giuridico e sanitario" a causa di cadaveri che "restano per giorni in alcuni basi della Marina rappresentando un pericolo per il personale", si afferma fra l'altro nella nota.

I piccoli annegati, che avevano "meno di un anno" sono un egiziano e due marocchini, precisa inoltre il comunicato della Guardia costiera libica citando il sopravvissuto yemenita. 

L'uomo ha riferito che sulla barca c'erano "fra 120 e 125 migranti di differenti nazionalità arabe (Yemen, Egitto, Sudan, Marocco) e africane (Ghana, Nigeria, Zambia)", si afferma nella nota. A parte lo yemenita, gli altri 15 sopravvissuti sono di "nazionalità africane".

I migranti erano "troppi" per la possibilità dell'imbarcazione e "sono scivolati all'indietro quando si sono aperte crepe nella parte anteriore dello scafo" e "il motore è andato a fuoco". Il naufragio è avvenuto alle "4 del mattino".

Il salvataggio, compiuto da un "gommone" della Guardia costiera del "settore di Tripoli, regione Al Hamidya", è avvenuto "a 6-7 miglia a nord-est di Gasr Garabulli" su segnalazione di pescatori e i sopravvissuti sono stati condotti alla base di Hamidya alle 13, precisa ancora la nota.

Alla presenza dell'Oim e della Mezzaluna rossa sono stati consegnati all'Autorità per la lotta all'immigrazione illegale di Tagiura (Tripoli). L'Acnur ha assistito i superstiti «aiuti medici e umanitari».

Un altro tragico epilogo che va ad aggiungersi agli altri. L'Agenzia delle Nazioni Unite per la migrazione (Oim) dall'inizio dell'anno ha contato già 1000 morti nel Mediterraneo, oltre 650 solo sulla rotta tra Nordafrica e Italia.Intanto l'Europa litiga sugli hotspot e chiude i porti alle navi delle ong.

venerdì 29 giugno 2018

Guerre dimenticate - Sudan. Aumentano gli attacchi in Darfur ma l'Onu vuole ridurre la sua missione

Corriere della Sera
Alla vigilia del voto di domani del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite sulla possibile ristrutturazione e sul conseguente ridimensionamento dell'Unamid (la Missione congiunta Onu - Unione africana in Darfur), Amnesty International ha diffuso esclusive immagini satellitari e fotografie che mostrano le conseguenze dei recenti attacchi condotti dall'esercito sudanese e dalle milizie filo-governative nella regione.


18 villaggi dell'area del Jeben Marra sono stati saccheggiati e poi dati alle fiamme. Fino a 20.000 persone sono state costrette alla fuga e hanno trovato riparo nelle grotte e nelle caverne delle montagne del Jebel Marra senza essere state ancora raggiunte dagli aiuti umanitari. 

Dopo 15 anni dall'inizio del conflitto, oltre un milione e mezzo di darfuriani risultano sfollati e non possono ancora tornare nelle loro terre.

di Riccardo Noury

Turchia: rilasciato giornalista e accademico Mehmet Altan

AnsaMed
Istanbul - È stato rilasciato dalla prigione di Silivri a Istanbul il giornalista e accademico turco Mehmet Altan, detenuto da quasi due anni e condannato in primo grado all'ergastolo per legami con la presunta rete golpista di Fethullah Gulen. 

Mehmet Altan
La scarcerazione era stata ordinata ieri da un tribunale di Istanbul, in attesa del processo di appello, dopo che nei mesi scorsi la Corte costituzionale ne aveva già ordinato il rilascio, ma due diversi tribunali locali si erano rifiutati di dare seguito alla decisione, suscitando forti polemiche sulle garanzie dello stato di diritto in Turchia.
"Spero che sia un segnale di un ritorno a un vero diritto universale" in Turchia, ha commentato Altan, accolto all'uscita dalla prigione dalla moglie e dal noto giornalista Hasan Cemal.

"Ho perso due anni" in carcere, ha poi aggiunto. Mehmet Altan è stato condannato insieme al fratello Ahmet e a Nazli Ilicak, entrambi reporter veterani.

USA - Migranti - A Washington protesta delle donne contro la politica di Trump al grido: "Dove sono in bambini?" - 575 arresti

Blog Diritti Umani - Human Rights
Più di 1.000 attiviste hanno sfilato giovedì a Washington nel Capitol Hill per protestare contro la separazione dei bambini dai genitori immigrati al confine tra Stati Uniti e Messico.
La polizia del Campidoglio degli Stati Uniti ha arrestato circa 575 persone per dimostrazione illegale, tra cui Pramila Jayapal, una rappresentante del partito democratico di Washington.


Gli arresti sono stati finora pacifici, con i manifestanti che non hanno discusso con gli ufficiali di polizia di Capitol durante gli arresti e non sono state ammanettate.

Altri senatori democratici - tra cui Ed Markey del Massachusetts, Mazie Hirono delle Hawaii, Kirsten Gillibrand di New York e Richard Blumenthal del Connecticut - hanno anche visitato i manifestanti per sostenere i loro sforzi.

I manifestanti hanno cantato "abolire l'ICE" e "dove sono i bambini?" e altri canti.

Gli attivisti si sono seduti sul pavimento del palazzo del Senato con le coperte di emergenza per chiedere al Congresso di porre fine alle politiche dell'amministrazione Trump che criminalizzano e detengono immigranti privi di documenti e li separano dai loro figli.

Ezio Savasta

Fonte: CNN

giovedì 28 giugno 2018

Importanti passi avanti per la pace tra Etiopia ed Eritrea. Delegazione eritrea accolta con ghirlande di fiori dal primo ministro Abiy Ahmed

Blog Diritti Umani - Human Rights
Una delegazione del governo eritreo è arrivata nella capitale etiopica di Addis Abeba per avviare dei colloqui, solo alcuni giorni dopo che, i leader dei due paesi, hanno espresso la volontà di risolvere pacificamente la disputa di vecchia data sui confini.



I colloqui di pace saranno i primi dopo due decenni di guerra di confine che hanno causato la morte di almeno 70.000 persone.

Il primo ministro etiope Abiy Ahmed ha accolto la delegazione eritrea guidata dal suo ministro degli Esteri, Osman Saleh.
Ci sono grandi speranze che i colloqui costituiranno la fine di due decenni di stallo tra i due paesi che condividono cultura, religione e lingua.

Il giovane leader etiopico, primo ministro che ha assunto la carica solo in aprile ha introdotto un'ampia gamma di riforme, tra cui aperture di convivenza pacifica e cooperazione economica con i paesi vicini.

A prescindere dai protocolli diplomatici e dalle sottigliezze, il primo ministro Abiy Ahmed ha accolto con favore la delegazione eritrea, mantenendo la promessa fatta pochi giorni prima al presidente eritreo Isaias Afwerki.

L'accordo di pace firmato nel dicembre 2000 è stato bloccato per 18 anni fino a quando Ahmed ha teso un ramo di ulivo all'Eritrea in un discorso parlamentare la scorsa settimana, ottenendo una risposta positiva dal presidente eritreo, che ha descritto gli sviluppi come "segnali positivi" da Addis Ababa annunciando l'invio di una delegazione per "valutare gli sviluppi attuali direttamente e in profondità".

Ezio Savasta

Fonte: Notizie ESAT 

Sudan - Salvata dalla pena di morte Noura Hussein. Sposa bambina che aveva ucciso il marito che la stuprava.

Blog Diritti Umani - Human Rights
Questo blog fin dall'inizio ha seguito la condanna a morte di Noura Hussein, sposa bambina a 13 anni che reagendo alla violenza e allo stupro del marito lo aveva ucciso.Ringraziamo tutti coloro che hanno appoggiato e firmato l'appello contribuendo a salvare la vita di Noura e aiutato, in questo modo, a fare un passo avanti alla battaglia per l'abolizione della pena di morte nel mondo.
Fanpage
A 13 anni era stata costretta a sposare l’uomo che l’avrebbe poi violentata perché si rifiutava di consumare il matrimonio. Dopo averlo ucciso con una pugnalata, rischiava l’impiccagione. Ma una mobilitazione internazionale l’ha salvata. Dovrà comunque scontare cinque anni di carcere.

Noura Hussein
Noura Hussein non sarà condannata a morte. Una corte d'appello sudanese ha annullato la pena capitale contro la giovane donna accusata di aver ucciso il marito, cui era stata data in sposa contro il suo volere all’età di 16 anni dal padre. I giudici hanno commutato la massima pena in una detenzione di 5 anni. 

Noura sarà inoltre costretta a pagare 337.500 sterline sudanesi, pari a 12mila dollari. Lo ha reso noto il legale della donna, Abdelaha Mohamad, alla Bbc. Questa decisione "dovrebbe ora portare a una revisione delle leggi e far sì che Noura Hussein sia l'ultima persona costretta a sopportare una simile prova", ha dichiarato Seif Magango, vicedirettore regionale di Amnesty International. Anche l'Onu ha sollecitato il Sudan a modificare le sue leggi per criminalizzare la violenza domestica e lo stupro coniugale.

La storia di Noura, la sposa bambina
Noura era stata destinata in sposa, poco più che bambina a 13 anni a un uomo che subito dopo il matrimonio, celebrato quando ne aveva già 16, aveva abusato di lei di fronte alle sue richieste di consumare la loro unione. “Sono arrivati tre suoi parenti. Mi hanno trascinato in camera da letto, mi tenevano per le gambe e la braccia mentre lui mi violentava” aveva raccontato la giovane. Il giorno dopo l’uomo ci aveva riprovato, questa volta da solo. Ma Noura aveva già deciso che non glielo avrebbe consentito. Sotto il cuscino aveva nascosto un coltello. “Mi sono difesa e l’ho colpito. Poi sono scappata dalla mia famiglia”. E così fa. Ma invece di soccorrerla il padre (cugino del marito ucciso) la porta alla polizia e l’intera famiglia la disconosce. A maggio 2018 un tribunale sudanese l'aveva condannata a morte per l'omicidio del marito. Oggi quella sentenza è stata ribaltata dal Corte d’Appello del Paese africano.

La ragazza è stata condannata a 5 anni di carcere
L’incubo però non è finito. Ora, a meno di altri clamorosi ribaltamenti, l’aspettano 5 anni di carcere. “Anche se Noura dovesse uscire non potrà sicuramente rimanere in Sudan, a causa delle vendette che potrebbe subire, ecco perché continueremo a seguire questo caso”, fa sapere al Corriere della Sera, Sodfa Daaji della Gender Equality Committee e coordinatrice per il Nord Africa dell’Afrika Youth Movement.


Migranti - Il Comandante della Guardia Costiera Italiana Pettorino: «Risponderemo sempre agli Sos. Obbligo giuridico e morale»

Vita
In un'intervista all'Ansa l'ammiraglio Giovanni Pettorino ha voluto chiarire: «Abbiamo risposto sempre, sempre rispondiamo e sempre risponderemo a ciascuna chiamata di soccorso. Lo facciamo perché è un obbligo giuridico ma anche un obbligo che sentiamo moralmente».
"Abbiamo risposto sempre, sempre rispondiamo e sempre risponderemo a ciascuna chiamata di soccorso. Lo facciamo perché è un obbligo giuridico ma anche un obbligo che sentiamo moralmente: tutti gli uomini di mare, da sempre e anche in assenza di convenzioni, hanno portato soccorso e aiuto a chi si trova in difficoltà in mare. Noi non abbiamo mai lasciato solo nessuno."
Comandante della Guardia Costiera 
Italiana Giovanni Pettorino
Il comandante generale della Guardia Costiera, l'ammiraglio Giovanni Pettorino, in un'intervista all'ANSA, cancella ogni dubbio su quale è e sarà il comportamento dei suoi uomini. «Lo facciamo - aggiunge - perché è un obbligo giuridico ma anche un obbligo che sentiamo moralmente: tutti gli uomini di mare, da sempre e anche in assenza di convenzioni, hanno portato soccorso e aiuto a chi si trova in difficoltà in mare. Noi non abbiamo mai lasciato solo nessuno in mare».

«Noi operiamo sulla base della Convenzione di Amburgo per la ricerca ed il soccorso in mare, che è del 1979 ed è nata per episodi che accadono una volta ogni tanto, non all'ordine del giorno. Quello che sta accadendo adesso è invece un esodo epocale, biblico, con un intero popolo che si sposta o tenta di spostarsi via mare in un tratto breve ma pericoloso, con mezzi inadeguati e dunque occorre rivedere la Convenzione», ha aggiunto il comandante generale della Guardia Costiera.

L'ammiraglio ribadisce che su questo punto la normativa è chiarissima. «Noi continuiamo ad operare secondo quelle che sono le convenzioni internazionali del mare - spiega - vale a dire la convenzione di Amburgo, in particolare, e la convenzione di Montego Bay. Convenzioni che l'Italia ha ratificato con legge e la cui applicazione, quindi, è obbligatoria. Per noi e per tutti i paesi che le hanno firmate».

Ma cosa prevedono queste convenzioni? «Il centro di soccorso che per primo riceve una chiamata - risponde l'ammiraglio Pettorino - deve intervenire. E questo fino a quando non subentra il centro di soccorso più vicino o il centro di soccorso competente».

In sostanza, chi riceve la chiamata, «deve operarsi subito affinché quella persona o quella nave in pericolo possano ricevere un soccorso utile». E questo, ribadisce il comandante della Guardia Costiera, «noi lo abbiamo fatto sempre e continuiamo a farlo anche oggi».

Rispetto al passato c'è però una differenza. «Fino a qualche mese fa a nord dell'Africa non interveniva mai nessuno. Noi eravamo il primo centro di soccorso ad essere chiamato e quindi iniziavamo subito l'intervento, avviando l'attività di search and rescue (Sar) e informando tutti i paesi vicini. Ma nessuno rispondeva - spiega ancora Pettorino - Negli ultimi tempi questo scenario è cambiato perché la Guardia Costiera libica ha iniziato ad effettuare dei soccorsi».

mercoledì 27 giugno 2018

L'Onu documenta torture nella detenzione dei migranti in Libia. Salvini le definisce "menzogne". Un nuovo negazionismo!

Corriere della Sera
Un rapporto dell'Onu documenta le torture in Libia: si ha il dovere di non ignorarle. 

Il ministro dell'Interno della Repubblica italiana, vicepresidente del Consiglio Matteo Salvini, ha definito "menzogne" quelle "di chi dice che in Libia si tortura e si ledono i diritti civili". 
Un fotogramma del video che documenta 
le torture a  cui sono sottoposti i migranti.
Vai al documento >>>
Sono parole in conflitto con una realtà denunciata da numerose fonti. E non si addicono a chi rappresenta il Paese di Cesare Beccaria, maestro (milanese) di civiltà nel XVIII secolo.

Un disabile libico legato al soffitto con catene, percosso fino a fargli perdere conoscenza nel carcere di Mitiga. Uno straniero sospeso a un gancio in una posizione detta "del pollo arrosto" e picchiato con badile. A Nasser Forest un uomo appeso per le gambe, sottoposto a scosse, privato di cibo fino a impedirgli di camminare da solo. Sono alcuni dei casi descritti in un rapporto pubblicato in aprile dall'Ufficio dell'Alto commissario delle Nazioni Unite sui diritti umani e dalla Missione Onu di appoggio in Libia.

Tra una dichiarazione e l'altra il ministro trovi il tempo di leggerlo. Soltanto 41 pagine, in inglese. Si intitola Abuso dietro le sbarre: detenzione arbitraria e illegale in Libia. Un dipendente governativo arrestato senza imputazione nel 2011, e rilasciato nel 2016, ha affermato che le guardie "lo hanno violentato, frustato finché ha perso conoscenza, sospeso a testa in giù per ore e bruciato con un ferro rovente anche su schiena e genitali". Risparmiamo il resto. È ancora più ripugnante.

Nel 2017 si stimavano in 6.500 le persone detenute nelle prigioni ufficiali. Altre migliaia nelle mani di milizie. Il rapporto giudica l'uso della tortura usuale. Riferisce di confessioni fatte recitare ai prigionieri in tv esponendo a vendette le famiglie. Al precario embrione di governo che ha base a Tripoli non va negato appoggio. Ma sono orrori sui quali è un dovere non chiudere gli occhi. Né tacere.


Maurizio Caprara

Thailandia. Messo a morte il 18 giugno Theerasak Longji di 26 anni. Oltre 60 reati prevedono la pena di morte

occhidellaguerra.it
Il 18 giugno in Thailandia è stato messo a morte tramite iniezione letale il detenuto Theerasak Longji, 26 anni, condannato per l'uccisione di un giovane 17enne nella provincia meridionale di Trang. 


È stata la prima esecuzione nel Paese asiatico da quando, nel 2009, sono stati condannati a morte due trafficanti di droga. L'attuazione della pena, che è stata criticata dai gruppi per i diritti umani, ha riacceso i riflettori sull'argomento.

Più di sessanta reati prevedono l'esecuzione - La pena capitale esiste da secoli in Tailandia e anche se per lunghi periodi non ci sono state uccisioni, sulla carta, per il governo di Bangkok, ci sono ancora oggi più di sessanta reati che la prevedono. Tra questi, troviamo l'omicidio e il traffico di stupefacenti. Negli anni, però, sono cambiati i metodi. Dal 1805, quando il Paese era conosciuto come l'antico Regno del Siam ed era ancora una monarchia assoluta, fino al 1932, quando è passato ad una monarchia costituzionale, un decreto chiamato "Legge dei Tre Sigilli" permetteva ventuno diverse forme di esecuzione. Alcune di queste erano molto crudeli. I condannati per tradimento, ad esempio, venivano avvolti in un panno imbevuto d'olio e dati alle fiamme. Successivamente, poi, dal 1938, la morte avveniva tramite fucilazione.

L'ultimo boia della Thailandia - L'ultima esecuzione con arma da fuoco c'è stata l'11 dicembre 2002. Il boia si chiamava Chavoret Jaruboon, morto il 29 aprile 2012. In diciotto anni di "carriera" ha ucciso 55 prigionieri, per lo più nel carcere di massima sicurezza di Bang Kwang, conosciuto anche con il nome di "Bangkok Hilton". Sulla storia di Jaruboon, nel 2014, è stato fatto anche un film: "The Last Executioner". Prima di lunedì scorso, dal 2002 al 2009, sono state giustiziate sei persone. I detenuti condannati alla pena di morte in Tailandia, attualmente, sono oltre cinquecento. C'è anche un italiano tra loro: Denis Cavatassi, 50 anni. 

È rinchiuso nelle prigioni thailandesi con l'accusa di essere il mandante dell'omicidio del suo socio, Luciano Butti, ucciso nel marzo del 2011 a Pukhet, dove entrambi avevano un'attività di ristorazione.

Fabio Polese

USA - Migranti, un giudice della California ordina: "Ricongiungere i bambini separati con le loro famiglie"

Rai News 24
Il governo ha 30 giorni di tempo per eseguire lordinanza, 14 nel caso di bambini sotto i 5 anni. Intanto, i procuratori generali di 17 stati americani più quello di Washington Dc hanno appena depositato una causa per mettere in dubbio la costituzionalità delle politiche sulle separazioni delle famiglie di migranti: hanno chiesto di far ritornare insieme immediatamente i minori e i loro genitori che sono ancora divisi



Un giudice della California ha ordinato alle autorita' di frontiera degli Stati Uniti di riunire le famiglie separate entro 30 giorni. e se i bambini hanno meno di 5 anni, devono essere ricongiunti ai genitori entro 14 giorni dall'ordinanza, rilasciata ieri sera. 

Intanto, i procuratori generali di 17 stati americani più quello di Washington Dc hanno appena depositato una causa per mettere in dubbio la costituzionalità delle politiche sulle separazioni delle famiglie di migranti: hanno chiesto di far ritornare insieme immediatamente i minori e i loro genitori che sono ancora divisi. Tutti i procuratori sono democratici e la coalizione è guidata da quelli di California, Massachusetts e Washington. 

L'accusa sostiene che le politiche di tolleranza zero, che ora Trump ha fermato con un ordine esecutivo, sono una violazione dei diritti costituzionali degli immigrati e provocano traumi ai bambini. 

La marcia indietro del Presidente 
Dopo essere stato messo sotto pressione in patria e dall'estero, la settimana scorsa Trump aveva ordinato la fine della pratica disumana di dividere i figli dai genitori per rinchiuderli in centri di detenzione e persino all'interno di gabbie. 

Tuttavia, hanno sottolineato Inslee e Ferguson, nell'ordine esecutivo non c'è nulla che porti alla riunificazione delle famiglie, che anzi potrebbero restare in custodia più a lungo di quanto in precedenza previsto. Non è chiaro nemmeno se l'amministrazione Trump continuerà a voler perseguire penalmente tutti coloro che varcano illegalmente il confine.

"Nessuno sa quello che sta facendo questa amministrazione oggi perché non lo sanno neanche loro", ha affermato il governatore. Ferguson contava di presentare la denuncia al tribunale di Seattle giovedì ma l'ordine esecutivo del presidente l'ha costretto a rivedere il testo e a rinviare di qualche giorno. Insieme allo Stato di Washington, vi prenderanno parte anche California, Illinois, Iowa, Massachusetts, Maryland, Minnesota, New Mexico, Oregon e Pennsylvania. New York ha annunciato una denuncia a parte.

martedì 26 giugno 2018

Nicaragua: continua la repressione in tutto il paese. Bambino di 15 mesi è morto con 7 persone in blitz polizia

TPI News
Dal mese di aprile nel paese sono in corso forti proteste contro il presidente Daniel Ortega.

Sono almeno otto le vittime delle operazioni di polizia e paramilitari che si sono svolte sabato 23 giugno in Nicaragua. Tra i morti, anche un bambino di 15 mesi.

Si tratta di operazioni di repressione contro gli oppositori al presidente del Nicaragua Daniel Ortega.
Dall’inizio delle proteste nel paese, lo scorso 18 aprile, sono oltre 200 le vittime.

I manifestanti chiedono le dimissioni del presidente Daniel Ortega e di sua moglie Rosario Murillo, vicepresidente del Nicaragua.

Il bilancio di sabato è stato comunicato dal Centro per i diritti umani del Nicaragua (CENIDH).
Sette persone sono morte a Managua, la capitale, e una nella città ribelle di Masaya, a sud di Managua.

Tra venerdì e sabato le forze dell’ordine e i gruppi paramilitari hanno lanciato un attacco contro gli studenti nei locali dell’Università Nazionale Autonoma del Nicaragua (UNAN), a sud-ovest di Managua.

Hanno attaccato inoltre in sei quartieri nella parte orientale della capitale, secondo la testimonianza degli studenti, confermata dall’organismo per i diritti umani.

“Ci attaccano dall’una di notte (…) Ci sono anche cecchini, siamo sulle barricate”, ha testimoniato un giovane, il volto mascherato, in una diretta su Facebook. “Sparano per uccidere, stanno massacrando la gente, i giovani, siamo assediati, e’ una guerra impari”.

A scatenare la rivolta in Nicaragua è stata la discussione sulla riforma delle pensioni proposta dal presidente del Nicaragua Daniel Ortega – il leader del Fronte sandinista di liberazione nazionale (Fsln) – che prevede l’aumento dei contributi per i lavoratori e assegni pensionistici più magri.

La proposta di rinnovamento del sistema pensionistico nazionale che ha fatto scattare la mobilitazione prevede che i lavoratori aumentino il proprio contributo e si teme inoltre che potrebbe portare persino a tagli del 5 per cento sull’ammontare complessivo delle pensioni.

Ortega ha annunciato che il governo è pronto a intavolare una serie di trattative sulla riforma del sistema delle pensioni.

Venezuela: segretario Osa invia rapporto diritti umani dell'Onu a Corte penale internazionale

Agenzia Nova
Washington - Il segretario generale dell'Organizzazione degli stati americani (Osa), Luis Almagro, ha inviato alla Corte penale internazionale (Cpi) il rapporto "di esperti indipendenti" sul Venezuela pubblicato dall'Alto commissariato per i diritti umani delle Nazioni Unite. 

Un testo secondo cui le autorità venezuelane dimostrano di non avere "la capacità né la volontà" per perseguire i responsabili di "gravi violazioni dei diritti umani", circostanza che aumenta la possibilità di coinvolgere la Corte penale internazionale (Cpi) nel dossier. 

Il documento, scrive Almagro sul proprio account di Twitter, è stato inviato "con l'appoggio di vari paesi della regione e della Assemblea nazionale venezuelana", l'organo controllato dalle opposizioni ma le cui funzioni sono da tempo non riconosciute dal governo. 

Il governo venezuelano ha respinto in una nota il contenuto e la metodologia dell'elaborato definendolo "arbitrario". Il "presunto rapporto costituisce una nuova prova del più assoluto disprezzo per l'istituzionalità e per il contesto giuridico internazionale che ha caratterizzato il signor Zeid Ra'ad Al Hussein, nel corso del suo preoccupante mandato alla guida dell'Alto commissariato", si legge nella nota.

Corea del Sud - Campagna per abrogare la pena di morte: sostegno della Chiesa

Agenzia Fides
Seul - "Da anni non ci sono esecuzioni capitali in Corea. La Chiesa cattolica ha sempre ribadito il no alla pena di morte. E vede con favore l'iniziativa di parlamentari, cristiani e non, che hanno raccolto le firme per chiedere l'abolizione della pena capitale dalla legislazione coreana": 
lo dichiara all'Agenzia Fides il Cardinale Andrew Yeom Soo-jung, Arcivescovo di Seul, mentre la Commissione nazionale per i Diritti umani (NHRC), organismo governativo, sta conducendo una campagna con l'obiettivo di abolire ufficialmente la legge sulla pena di morte.
"E' vero che nella società coreana c’è chi ancora la sostiene. Esiste la paura che eliminarla possa incoraggiare il crimine. La comunità cattolica, in questi anni, ha sempre testimoniato e incoraggiato il rispetto della vita e la logica del perdono, accompagnando anche i familiari delle vittime" ha detto il Cardinale in un colloquio con l’Agenzia Fides a Seul.
L’obiettivo della abolizione, dicono gli osservatori, è a portata di mano, anche per l'atteggiamento favorevole del Presidente coreano, il cattolico Moon Jae-in. 

Il capo dell'ufficio politico della Commissione per i diritti umani, Shim Sang-don, ha dichiarato: "Stiamo lavorando per un annuncio da parte del Presidente Moon Jae-in sulla moratoria della pena di morte in occasione del 70° anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani di quest'anno". 

La moratoria sarebbe un passo avanti nel processo formale verso l'abolizione. E' stata avviata, intanto, una discussione in tal senso con il Ministero della Giustizia per stabilire i passi da compiere, ha aggiunto Shim, notando che "il Presidente Moon ha dato una risposta positiva in merito all'abolizione quando abbiamo sollevato la questione nel dicembre scorso".
Amnesty International considera i paesi che non eseguono una condanna per oltre 10 anni "abolizionisti di fatto".
La Commissione per i Diritti umani ha mantenuto la sua posizione a sostegno dell'abrogazione della pena di morte, raccomandandola al Parlamento coreano nell'aprile 2005, e ha presentato una petizione alla Corte costituzionale nel luglio 2009. 

Ora la Commissione presenterà un progetto abolizionista, con particolare attenzione alle misure alternative.
Attualmente ci sono 61 prigionieri, inclusi ufficiali militari, condannati e reclusi nel broccio della morte in Corea del Sud. (PA)

lunedì 25 giugno 2018

Pulizia etnica in Mali: 32 civili "Fulani" sterminati dai cacciatori "Dozo"

Globalist
I cacciatori Dozo e l'etnia maliana dei Fulani sono in conflitto da tempo. La strage sembra una spedizione punitiva ma le autorità non hanno rilasciato commenti.


Una strage, una vera e propria pulizia etnica quella che è avvenuta in Mali dove 32 civili appartenenti alla minoranza etnica dei Fulani, detti anche Peul, sono stati uccisi in un villaggio propabilmente dai Dozo, una confraternita di cacciatori attivi in Mali, Costa D'Avorio e Burkina Faso.

L'eccidio è avvenuto a Koumaga, nella regione di Mopti, dove a quanto pare i dozo hanno circondato il villaggio, hanno isolato i fulani dalle altre etnie e li hanno giustiziati a sangue freddo. Altri dieci sono scomparsi". Un funzionario locale nel confermare l'attacco ha parlato di "decine di civili morti, tra i quali anche bambini".

La situazione in Mali è estremamente pericolosa: i gruppi etnici di fulani e bambara e i cacciatori Dozo sono spesso in conflitto per questioni legati alla proprietà terriera e ad esacerbare il tutto ci pensano i numerosi gruppi jihadisti che infestano la regione.

Un movente della strage può essere ricercato nella recente accusa verso i fulani di simpatizzare con i jihadisti: in effetti, l'eccidio ha tutta l'aria di una spedizione punitiva. Le autorità maliane non hanno ancora rilasciato dichiarazioni.

Ong nel Mediterraneo: quali sono, come operano e chi le finanzia

TPI News
Le ong attive nel Mediterraneo centrale sono al centro di un'accesa polemica, da parte di chi le accusa di favorire il business dell'immigrazione. TPI.it fa chiarezza su tutto ciò che riguarda i salvataggi dei migranti in mare.


“Le ong sono i taxi del mare”. “Fanno affari con gli scafisti”. “Le ong nel Mediterraneo favoriscono il business dell’immigrazione”. Queste sono alcune delle frasi che, negli ultimi mesi, circolano spesso sulle ong che operano nel Mediterraneo centrale.

La campagna mediatica e diffamatoria nei confronti delle ong ha ormai raggiunto livelli elevatissimi, anche in seguito alle indagini del procuratore di Catania Carmelo Zuccaro.

I ministri del governo Conte, Salvini in primis e Toninelli a seguire, in questi ultimi giorni hanno attaccato pesantemente le navi delle ong, in seguito al caso Aquarius, e anche oggi,  con lo scontro sulla nave Lifeline.

Ma quali sono le ong che attualmente sono attive nel Mar Mediterraneo? Cosa fanno? Come si finanziano?

Che cos’è una ong
Le ong sono organizzazione non governativa, senza fini di lucro e indipendenti sia dagli stati che dalle organizzazioni governative internazionali. Si tratta di organizzazioni che si finanziano tramite donazioni, e in parte anche tramite denaro pubblico, e sono gestite da volontari. Esistono ong negli ambiti più disparati, a seconda delle loro missioni e degli obiettivi che si prefiggono.
Quali ong operano nel Mediterraneo
Al momento sono 5 le ong dotate di navi, più o meno grandi, per il salvataggio in mare dei migranti che tentano di arrivare dalla Libia all’Europa. Si tratta della ong spagnola Proactiva open arms, della Sea Watch, delle ong Sos Mediteranee e Medici senza frontiere, che gestiscono insieme la nave Aquarius, e poi Sea-eye e Mission Lifeline.
Dal 1 gennaio al 30 aprile 2017 i migranti soccorsi dalle ong sono stati 12.346, pari al 33 per cento dei salvataggi in mare. Secondo il rapporto della Guardia costiera, nel 2016 i migranti soccorsi tra il nord Africa e l’Italia sono stati 178.415 e di questi poco meno della metà sono stati messi in salvo da Guardia costiera (35.875) e Marina militare (36.084).
Fino a qualche mese fa erano di più le ong operative, tra cui Moas, Life Boat, Jugend Rettet, Boat Refugee.

Di seguito, nell'articolo, il dettaglio su ciascuna ong rimsta operativa nel Mediterraneo: >>>

Laura Melissari

Migranti Usa, 700mila in carcere per anni in attesa di espulsione. I 2300 bimbi separati dalle famiglie? Sparpagliati in 17 Stati

Il Fatto Quotidiano
L'ordine esecutivo del presidente Trump placa momentaneamente le polemiche, ma resta lontano dal cuore del problema: dalle detenzioni senza limite (quando la legge consente un massimo di 20 giorni) alle separazioni forzate di bambini sotto l'anno di vita, fino al proliferare di strutture private ignote alle autorità locali e prive di standard condivisi.


Confusione. Mancanza di direttive certe. Rischi di nuove azioni legali. La questione migranti negli Stati Uniti sta diventando un problema di difficilissima gestione per l'amministrazione Usa. 

L'ordine esecutivo emesso da Donald Trump mercoledì scorso ha forse disinnescato parte delle polemiche, ma non ha fatto quasi nulla per risolvere la crisi dei migranti. Fonti della Casa Bianca descrivono un presidente al tempo stesso confuso e sprezzante.

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Roberto Festa

sabato 23 giugno 2018

Venezuela: Onu, 500 uccisi da agenti "sicurezza" che restano impuniti, 'Stato diritto assente'

ANSA
Caracas - Le forze di sicurezza governative in Venezuela sono responsabili di centinaia di omicidi ingiustificati senza alcuna apparente conseguenza legale, dato che lo stato di diritto nel Paese "è assente". Lo denuncia un rapporto delle Nazioni Unite reso noto oggi, citato dalla Bbc.
L'ufficio dell'Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani ha riportato che agenti venezuelani accusati in circa 500 omicidi sembrano eludere qualsiasi accusa. 

L'alto commissario per i diritti umani Zeid Ra'ad Al Hussein ha affermato che questo è un segnale che i controlli e gli equilibri sono stati eliminati nel Paese, lasciando le autorità statali non perseguibili.

Il rapporto riferisce del caso avvenuto all'inizio di quest'anno in cui il poliziotto ribelle Oscar Perez e sei del suo gruppo sono stati uccisi mentre tentavano di arrendersi.
Funzionari delle Nazioni Unite credono che il gruppo sia stato giustiziato su ordine di alti funzionari governativi, in violazione dei loro diritti fondamentali.

venerdì 22 giugno 2018

Ungheria. Amnesty contro il governo "resisteremo alle leggi anti-Ong"

La Repubblica
Il Parlamento magiaro ha approvato la cosiddetta legge "Stop Soros" che punirà come reato penale ogni aiuto ai migranti illegali fornito da Ong o da qualsiasi organizzazione umanitaria.

"Il parlamento di Budapest ha approvato un pacchetto di leggi che criminalizza una serie di legittime attività in favore dei migranti, dei richiedenti asilo e dei rifugiati protette dal diritto internazionale dei diritti umani e dalle leggi dell'Unione europea. Coloro che violano la nuova normativa rischiano fino a un anno di carcere". 

Inizia così il comunicato che annuncia la presa di distanza dell'ong Amnesty dal governo ungherese che continua con la politica del pugno di ferro nei confronti di immigrazione e terzo settore.

Contro chi aiuta. Tra le norme approvate c'è il cosiddetto "VII emendamento" alla Costituzione che infligge un altro colpo ai diritti umani e allo stato di diritto. Il testo proibisce il reinsediamento di popolazioni straniere in territorio ungherese, limita lo svolgimento di proteste pacifiche, pregiudica l'indipendenza del potere giudiziario, introduce il reato di assenza di fissa dimora e chiede alle autorità dello stato di proteggere la "cultura cristiana" dell'Ungheria.

Il rapporto. "In occasione del voto odierno - si legge sul sito - abbiamo pubblicato il report intitolato "Ungheria: le nuove leggi che violano i diritti umani, minacciano la società civile e compromettono lo stato di diritto devono essere accantonate"". Da anni, la società civile in Ungheria è esposta a una campagna di diffamazione da parte delle autorità. Gli ultimi attacchi hanno riguardato circa 200 attivisti, accademici, avvocati, giornalisti e altre figure che hanno criticato il governo.

Nel giorno dei rifugiati. "Notiamo con amara ironia che, proprio durante la Giornata mondiale del rifugiato, l'Ungheria ha approvato una legge che prende di mira le persone e le organizzazioni che stanno dalla parte dei migranti, dei richiedenti asilo e dei rifugiati", ha detto la direttrice di Amnesty International per l'Europa Gauri van Gulik.

Un governo contro. Il 29 maggio, con la maggioranza assoluta detenuta dalla Fidesz (il partito di Orbán, membro dei Popolari europei) allo Orszagház, il Parlamento magiaro ha approvato la cosiddetta legge "Stop Soros" che punirà come reato penale ogni aiuto ai migranti illegali fornito da Ong o da qualsiasi organizzazione umanitaria. Secondo la legge, qualsiasi organizzazione e singolo cittadino che si renda colpevole di aiuto a entrare e restare in Ungheria a persone che non hanno i titoli per chiedere asilo politico sarà passibile di pene detentive.

Gli alieni. Una seconda legge, sempre promossa dalla maggioranza, afferma che sarà necessario introdurre un emendamento nella Costituzione ungherese per affermare esplicitamente che sarà vietato a qualsiasi popolazione aliena (cioè in sostanza non conforme con valori occidentali e cristiani del paese magiaro) insediarsi o essere aiutata a insediarsi in Ungheria. Oltre 22mila persone provenienti da più di 50 paesi hanno inviato messaggi di amore e solidarietà alla società civile ungherese, invitando i politici a votare contro questa proposta dannosa.

Yemen. Detenuti torturati e violentati da militari degli Emirati Arabi

Nema News
Secondo l'agenzia statunitense Ap, i prigionieri, in cella senza accuse, sono stati sodomizzati, violentati, torturati da militari degli Emirati in almeno cinque carceri yemenite. 
Militari degli Emirati, alleati di quelli sauditi nella sanguinosa campagna militare contro i ribelli sciiti Houthi in Yemen, hanno abusato sessualmente e compiuto altre violenze sui nemici fatti prigionieri e su altri detenuti. 

Lo riferisce l'agenzia statunitense Associated Press (Ap) citando vittime e testimoni. Secondo la Ap, i prigionieri, in cella senza accuse, sono stati sodomizzati, violentati, torturati in almeno cinque prigioni. In quella di Beir Ahmed ad Aden, a marzo, centinaia di detenuti hanno subito abusi sessuali gravissimi. 

"Ti spogliano nudi, poi ti legano le mani a un palo d'acciaio da destra e da sinistra, quindi inizia la sodomizzazione", ha detto un detenuto aggiungendo di non aver mai saputo di cosa fosse accusato. "Le guardie ci avevano detto che cercavano telefoni cellulari nascosti nei retti dei detenuti. 

È oltre ogni immaginazione...", ha commentato il prigioniero. La AP ha anche ottenuto disegni fatti nella prigione raffiguranti gli abusi. "I disegni mostrano un uomo appeso nudo mentre viene colpito da scariche elettriche, un altro detenuto sul pavimento circondato da cani ringhianti mentre diverse persone lo prendono a calci e raffigurazioni grafiche di uno stupro anale", ha scritto l'agenzia. 

L'anno scorso Human Rights Watch aveva accusato le forze armate degli Emirati di aver arrestato e fatto sparire arbitrariamente diversi yemeniti e di aver trasferito "detenuti al di fuori del paese", compresa una base in Eritrea. 

Gli attivisti yemeniti dei diritti umani, che hanno rivelato e denunciato questi abusi, sono stati minacciati, molestati, detenuti, in alcuni casi sono scomparsi senza lasciare traccia", aveva scritto Hrw lo scorso gennaio. Più di 10.000 persone sono state uccise da quando l'Arabia Saudita, gli Emirati e altri Paesi hanno lanciato la campagna di bombardamenti contro i ribelli Houthi. 

Campagna ha anche causato un'epidemia di colera e portato lo Yemen già impoverito sull'orlo della carestia. Gli Stati Uniti, che appoggiano gli Emirati Arabi Uniti e la coalizione a guida saudita dello Yemen, hanno negato di essere a conoscenza delle torture sessuali. Il portavoce del Pentagono, il maggiore Adrian Rankine-Galloway, ha dichiarato che Washington "non ha ricevuto accuse credibili" di abusi.

Trump e la piccola migrante, la copertina-denuncia di Time

La Repubblica
Un gigantesco Donald Trump torreggia accigliato sopra una bambina piccolissima e in lacrime. "Benvenuti in America", è il titolo della copertina dell'ultimo numero del settimanale americano Time. 

Un'immagine forte, costruita sulla fotografia che negli ultimi giorni è diventata un po' l'icona dell'ultima drammatica vicenda di migrazione che sta coinvolgendo gli Stati Uniti. 

La piccola dalla giacca rosa è una bambina honduregna di 2 anni che il fotografo premio Pulitzer John Moore ha catturato nel momento della reazione disperata di fronte agli agenti che stavano per portare via sua madre, al confine tra Messico e Texas. 

Dopo che il fotografo ha scattato questa immagine la donna e la sua piccola sono state portate in un centro di smistamento dove, con ogni probabilità come è accaduto per altre centinaia di famiglie in questi mesi, sono state separate e detenute in diversi centri. "È stato duro per me scattare questa foto - ha detto Moore a Time - Avrei solo voluto prenderla in braccio, ma non potevo".

giovedì 21 giugno 2018

Migranti: Grecia, bambina di 4 anni muore in una fogna nel campo profughi di Tebe

AnsaMed

Atene - Un'altra tragedia di una bimba migrante scuote le coscienze in Europa. Una piccola di 4 anni di origine irachena è morta dopo essere caduta, per motivi ancora da accertare, in una fogna in un campo profughi a Tebe, in Grecia, a nordovest di Atene. 


Le ricerche della bimba, iniziate lunedì sera, hanno portato al ritrovamento del corpo sul fondo di un condotto fognario che si trova in una zona recintata accanto al campo, tra l'altro uno dei meglio organizzati nella Grecia continentale. 

Secondo i media ellenici, le ambulanze sono accorse al campo, e la bambina è stata estratta dalla caditoia attorno alle 23 di lunedì sera, ormai senza vita. Il ritrovamento ha creato forte tensione nel campo, con centinaia di persone che gridavano contro le autorità e si rifiutavano di consegnare il cadavere. E' dovuta intervenire la polizia antisommossa, ed il corpo è stato finalmente affidato ai medici che dovranno compiere l'autopsia ed accertare le cause della morte.
Il campo vicino a Tebe, aperto nel giugno 2017 nell'area di un'ex fabbrica tessile, è considerato un modello dalle autorità greche. La struttura ospita circa 700 persone - soprattutto rifugiati e richiedenti asilo vulnerabili, come donne e bambini, o famiglie con persone con disabilità - alloggiate in container e prefabbricati. 

Le autorità greche e le organizzazioni internazionali offrono assistenza psicologica, mediazione culturale ed anche consulenza legale.

Bangladesh - Piove sui Rohingya. La situazione già critica peggiora ulteriormente.

Unimondo
“Piove sul bagnato” si è soliti dire. Non potrebbe usarsi espressione più indovinata per indicare il nuovo stato emergenziale che ha colpito la popolazione Rohingya. 


La minoranza musulmana fuggita dalla Birmania per le brutali persecuzioni di cui è oggetto, negli ultimi due anni ha trovato riparo in campi profughi allestiti nel sud-est del Bangladesh e in questi giorni in buona parte spazzati via dalle violenti piogge che hanno colpito il territorio. 

Fango e rifiuti ovunque, baracche e ponticelli distrutti, seri danni strutturali causati dalle prime precipitazioni dei monsoni che hanno colpito almeno 9mila profughi, secondo le prime stime. Non sono quindi bastati i lavori di prevenzione messi in campo nei mesi scorsi dal governo di Dacca e dalle organizzazioni umanitarie: si calcola, infatti, che almeno 30mila dei circa 900mila Rohingya che si trovano nel territorio di Cox’s Bazar vivano in aree ad alto rischio di inondazione e dipendano dagli aiuti umanitari.

Se sul piano dell’accoglienza la situazione è piuttosto disperata, dal punto di vista della sicurezza si affaccia il problema dell’istruzione, per lo più affidata agli imam, e del rischio radicalizzazione. “Più andrà avanti la crisi più la minaccia jihadista potrebbe concretizzarsi” ammette Mohammad Abdul Kalam, commissario del Bangladesh per l’assistenza e il rimpatrio dei rifugiati. A questo si aggiunge la questione demografica, in considerazione della nascita di 60-100mila bambini rohingya nei prossimi mesi, molti frutti degli stupri commessi dai militari birmani.

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Riprende il processo al presidente di Amnesty Turchia Taner Kilic, l'ong: "è innocente, va assolto"

Globalist
Taner Kilic e altri 10 attivisti per i diritti umani sono accusati di terrorismo per supposti legami con la presunta rete golpista di Fethullah Gulen. Amnesty: "contro di loro nessuna prova lo conferma un rapporto della polizia".


Riprende oggi a Istanbul il processo nei confronti del presidente onorario di Amnesty International in Turchia, Taner Kilic, e altri 10 attivisti per i diritti umani accusati di terrorismo.
Da oltre un anno in carcerazione preventiva e unico degli imputati ancora in prigione, Kilic, noto avvocato per i diritti umani, era stato arrestato con l'accusa di "appartenenza a un'organizzazione terroristica" per supposti legami con la presunta rete golpista di Fethullah Gulen.
Ci sono però delle importanti novità. Nei giorni scorsi, ha sottolineato Amnesty, il rapporto di 15 pagine trasmesso dalla polizia alla pubblica accusa non ha rinvenuto alcuna prova che Kilic abbia avuto sul suo cellulare l'applicazione di messaggistica ByLock, che secondo i magistrati veniva usata dai 'gulenisti' per scambiarsi informazioni criptate. Un rapporto che potrebbe rivelarsi decisivo dal momento che il presunto download e utilizzo dell'applicazione è al centro del procedimento giudiziario.
"Quando sarò rilasciato - ha detto Kilic incontrando nel carcere di massima sicurezza di Sakran a Smirne il segretario generale di Amnesty, Salil Shetty - voglio riprendere il mio lavoro. So, ora più che mai, quanto siano importanti i diritti umani".
"Alla quarta udienza del processo - ha commentato Salil Shetty - senza uno straccio di prova per corroborare le assurde accuse mosse nei suoi confronti, ora Taner dev'essere rilasciato. Quelle accuse e la sua detenzione sono uno schiaffo alla giustizia. Questa vicenda deve finire una volta per tutte".

Il caso dei prigionieri politici ucraini nelle carceri russe. Parlamentari italiani votano contro la liberazione di Oleg Sentosov.

oltrefrontieranews.it
Mentre il Parlamento europeo ha votato con una stragrande maggioranza una mozione in difesa del cineasta ucraino di Crimea Oleg Sentsov, alcuni deputati italiani con il loro voto contrario di fatto hanno sostenuto la detenzione illegale dei prigionieri politici ucraini.
Oleg Sentsov
Nella mia più che trentennale carriera diplomatica ho assistito molte volte ad azioni che non corrispondevano alle norme, ai principi comuni o standard della politica internazionale. Ciò premesso, sono rimasto veramente esterrefatto per il voto di alcuni membri italiani del Parlamento europeo, alla Plenaria del Parlamento europeo del 14 giugno a Strasburgo, che di fatto giustifica la situazione inaccettabile della detenzione illegale delle persone nelle prigioni della Federazione Russa giudicate senza riguardo e rispetto di alcuna norma e forma di giustizia.

Per condannare tali mostruose violazioni, circa 500 deputati europei hanno approvato la Risoluzione 2018/2754 (Rsp) che esorta la Russia a rilasciare immediatamente e incondizionatamente Oleg Sentsov e tutti gli altri cittadini ucraini detenuti illegalmente in Russia e in Crimea.

Io non posso trovare alcuna motivazione che starebbe alla base del voto contrario al richiamo di fermare "torture e gravi maltrattamenti su Oleg Sentsov", prigioniero senza colpe trattenuto nel carcere più a nord della Russia, e che dal 14 maggio 2018 conduce uno sciopero della fame a oltranza. 


Il famoso cineasta e intellettuale crimeano Oleg Sentsov e' stato condannato in Russia a 20 anni di carcere per non aver accettato l'occupazione illegale della Crimea e non aver voluto piegarsi forzatamente alla cittadinanza russa rinunciando a quella ucraina. I procuratori russi l'hanno accusato di "far parte di una comunità terrorista". 

Diversi processi hanno messo in luce le profonde e diffuse carenze del sistema giudiziario russo, tra cui l'uso della tortura e altri maltrattamenti, come verificato nel corso delle indagini, oltre alla negazione del diritto a essere rappresentati da un avvocato a propria scelta. Lo confermano diverse organizzazioni per la difesa dei diritti umani, inclusa Amnesty International. A favore del regista ucraino si sono mobilitati diversi esponenti della cultura internazionale e si e' mossa tutta la comunità internazionale.

A mio parere, la negazione del sostegno ai prigionieri di coscienza come Oleg Sensov e a molte altre persone innocenti, non solo non aiuta "tantissime piccole e medie imprese italiane che esportano in Russia", ma, al contrario, allontana una giusta soluzione per tutti i prigionieri innocenti.
Yevhen Perelygin [Ambasciatore d'Ucraina in Italia]

Thailandia. Pena di morte, prima esecuzione dal 2009

ticinonews.chLa Tailandia ha giustiziato ieri il primo detenuto da nove anni a questa parte, con un'iniezione letale che ha tolto la vita a un giovane di 26 anni condannato per l'omicidio. 

Lo ha annunciato oggi il Dipartimento per le carceri. L'esecuzione è stata criticata dai gruppi per i diritti umani. In un comunicato, Amnesty International l'ha definita "deplorevole".

Dal 2009 la Tailandia aveva osservato una moratoria di fatto sulla pena capitale, tanto che la stessa Amnesty International era pronta a considerare il Paese "abolizionista in pratica" al compimento del decimo anniversario dall'ultima esecuzione. Sulla carta, in Tailandia sono 63 i reati che prevedono la pena capitale, dall'omicidio al traffico di droga. I detenuti condannati alla pena di morte sono oltre 500.

mercoledì 20 giugno 2018

USA. Il pianto dei baby migranti in gabbia

La Repubblica
Stati Uniti sotto shock per le immagini e le voci dal vivo dei bambini separati dai genitori arrestati al confine. Ma l'amministrazione Trump racconta una falsa verità: "Sono accuditi". E arriva la ritorsione dopo le accuse Onu.


L'America è sotto shock per le voci dal vivo dei bambini-prigionieri che piangono in un centro di detenzione al confine Texas-Messico: registrate e diffuse in uno scoop di ProPublica, ong di giornalismo investigativo. 

E il presidente risponde: "I trafficanti di bambini sono sofisticati. Sfruttano i cavilli di un sistema marcio. Basta coi giudici che proliferano nei tribunali, ci vuole sicurezza, ci vuole il Muro".

Sono i due poli di un'emergenza umanitaria: condannata da molti anche nel partito repubblicano, denunciata dalle massime autorità religiose e dall'Onu (per ripicca Washington vuole uscire dal Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite). La versione del governo è un'altra, nella forma più estrema la espone la ministra della Homeland Security, Kirstjen Nielsen: "I bambini stanno bene e sono accuditi".

Oppure un poliziotto della Border Patrol, immortalato nella stessa registrazione di ProPublica, mentre commenta il coro dei bambini che piangono: "Qui abbiamo una bella orchestra, quello che ci manca è il direttore d'orchestra". Infine c'è la tv di destra FoxNews, dove diversi commentatori descrivono le condizioni di quei minorenni "come dei campi di vacanze estivi". Poiché gli elettori di Donald Trump credono solo alla Fox, è probabile che metà del paese stia vivendo questa emergenza in modo molto diverso. E a questa metà sceglie di parlare il presidente.

La sua tesi - contestata dall'opposizione democratica e anche da autorevoli repubblicani come i senatori John McCain e Lindsay Graham - è che le leggi in vigore impongono la procedura di separazione dei genitori dai figli. "Con le norme attuali - dice Trump - abbiamo solo due opzioni per rispondere a questa massiccia crisi ai nostri confini. Possiamo rilasciare in libertà tutte le famiglie con figli che attraversano la frontiera dall'America centrale. Oppure possiamo arrestare gli adulti per il reato federale d'ingresso illegale".

In questo secondo caso, sempre secondo la teoria dell'Amministrazione, è obbligatorio evitare che i figli seguano gli adulti in carcere. Donde la separazione dei minori, confinati a loro volta in appositi centri: depositi recintati e guardati dalla polizia di frontiera. È in uno di quelli che sono stati registrati i pianti disperati dei bambini. E anche la voce di una piccola salvadoregna di sei anni che implora tutti di chiamare sua zia, e recita il numero di telefono a memoria quando le si avvicina un rappresentante consolare del Salvador.

La zia, contattata da ProPublica, è disperata quanto lei: non può aiutarla, è rimasta nel Salvador con la figlia, entrambe hanno avviato (con poche speranze) una richiesta di asilo negli Stati Uniti per sfuggire alla violenza delle gang. La mamma della bambina detenuta si chiama Cindy Madrid, ha 29 anni, è stata incarcerata vicino a Port Isabel nel Texas. C'è il rischio che sia deportata senza sua figlia, che rimarrebbe chissà fino a quando in Texas nel centro di custodia dei bambini.

Federico Rampini

Giornata mondiale del Rifugiato, oltre 68 milioni di persone costrette alla fuga. “Nel 53% dei casi sono minori”

Il Fatto Quotidiano
Nel rapporto annuale ‘Global Trends’, l'Unhcr traccia una mappa dei flussi di chi si lascia alle spalle il passato per un futuro incerto, spesso altrettanto drammatico. Si scappa soprattutto dai paesi in via di sviluppo. Le maggiori crisi in Congo, Sud Sudan e Bangladesh.


Un nuovo patto globale per i rifugiati non è più rinviabile. A renderlo cruciale sono gli oltre 68 milioni di persone costrette alla fuga a causa di guerre, violenze e persecuzioni. Nel 2017 questo numero ha raggiunto un nuovo record per il quinto anno consecutivo. 

I motivi sono da riscontrarsi soprattutto nella crisi nella Repubblica Democratica del Congo, nella guerra in Sud Sudan e nella fuga in Bangladesh di centinaia di migliaia di rifugiati rohingya provenienti dal Myanmar. 

I Paesi maggiormente colpiti sono per lo più quelli in via di sviluppo. Nel rapporto annuale ‘Global Trends’, pubblicato in occasione della Giornata mondiale del Rifugiato, che cade il 20 giugno, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr) traccia una mappa dei flussi di uomini, donne e bambini che abbandonano le proprie case e si lasciano alle spalle il proprio passato per un futuro incerto, spesso altrettanto drammatico. 

Ogni giorno sono costrette a fuggire 44.500 persone, una ogni due secondi. “Siamo a una svolta, dove il successo nella gestione degli esodi forzati a livello globale richiede un approccio nuovo e molto più complessivo, per evitare che Paesi e comunità vengano lasciati soli ad affrontare tutto questo” dichiara dichiarato Filippo Grandi, Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati.

I dati sui rifugiati – Nel totale dei 68,5 milioni di persone in fuga sono inclusi anche i 25,4 milioni di rifugiati che hanno lasciato il proprio Paese a causa di guerre e persecuzioni, 2,9 milioni in più rispetto al 2016. Si tratta dell’aumento maggiore registrato dall’Unhcr in un solo anno. Nel frattempo, i richiedenti asiloche al 31 dicembre 2017 erano ancora in attesa della decisione in merito alla loro richiesta di protezione sono passati da circa 300mila a 3,1 milioni. 

Sul numero totale, le persone sfollate all’interno del proprio Paese, invece, sono 40 milioni, poco meno dei 40.3 milioni del 2016. In pratica il numero di persone costrette alla fuga nel mondo è quasi pari al numero di abitanti della Thailandia. Considerando tutte le nazioni nel mondo, una persona ogni 110 è costretta alla fuga. Il Global Trends non esamina il contesto globale relativo all’asilo, a cui l’Unhcr dedica pubblicazioni separate “e che – spiega l’Agenzia – nel 2017 ha continuato a vedere casi di rimpatri forzati, di politicizzazione e uso dei rifugiati come capri espiatori, di rifugiati incarcerati o privati della possibilità di lavorare e di diversi Paesi che si sono opposti persino all’uso del termine ‘rifugiato’”.

La risposta alla crisi – Domenica scorsa Papa Francesco ha evidenziato che la Giornata mondiale dei Rifugiati quest’anno cade nel vivo delle consultazioni tra i governi per l’adozione di un patto mondiale “che si vuole adottare entro l’anno, come quello per una migrazione sicura, ordinata e regolare”. Secondo l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati c’è motivo di sperare: “Quattordici Paesi stanno già sperimentando un nuovo piano di risposta alle crisi di rifugiati e, in pochi mesi, sarà pronto un nuovo Global Compact sui rifugiati e potrà essere adottato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite”. Da qui l’appello di Filippo Grandi agli Stati e l’invito a sostenersi a vicenda: “Nessuno diventa un rifugiato per scelta, ma noi tutti possiamo scegliere come aiutare”.

Si fugge soprattutto dai paesi in via di sviluppo – Il rapporto offre numerosi spunti di riflessione: l’85% dei rifugiati risiede nei Paesi in via di sviluppo, molti dei quali versano in condizioni di estrema povertà e non ricevono un sostegno adeguato ad assistere tali popolazioni. Quattro rifugiati su cinque rimangono in Paesi limitrofi ai loro. Gli esodi di massa oltre confine sono meno frequenti di quanto si potrebbe pensare guardando il dato dei 68 milioni di persone costrette alla fuga a livello globale. “Quasi due terzi di questi – spiega il rapporto – sono infatti sfollati all’interno del proprio Paese. Dei 25.4 milioni di rifugiati che hanno lasciato il proprio Paese a causa di guerre e persecuzioni, poco più di un quinto sono palestinesi sotto la responsabilità dell’Unrwa(l’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi nel Vicino Oriente). Dei restanti, che rientrano nel mandato dell’Unhcr, due terzi provengono da soli cinque Paesi: Siria, Afghanistan, Sud Sudan, Myanmar e Somalia. “La fine del conflitto in ognuna di queste nazioni – sottolinea l’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati – potrebbe influenzare in modo significativo il più ampio quadro dei movimenti forzati di persone nel mondo”. Il Global Trends offre altri due dati, forse inattesi: il primo è che la maggior parte dei rifugiati vive in aree urbane(58%) e non nei campi o in aree rurali; il secondo è che le persone costrette alla fuga nel mondo sono giovani, nel 53% dei casi si tratta di minori, molti dei quali non accompagnati o separati dalle loro famiglie.