Le trattative erano state sospese dopo l’aggressione al cardinale e al nunzio di lunedì a Diriamba. L’annuncio di monsignor Baez, tra le vittime: «Non ci ritiriamo, nonostante l’ostilità del governo».
Le violenze non frenano il dialogo e le minacce non fanno demordere i vescovi dal proposito di trovare un accordo pacifico per la democratizzazione del Nicaragua, piagato da aprile fino ad oggi da una crisi sociopolitica che ha provocato oltre 350 morti. I presuli della Conferenza episcopale del Nicaragua continueranno infatti ad essere «mediatori e testimoni del dialogo nazionale», proseguendo quindi il «servizio» richiesto dallo stesso governo di Managua.
Ad annunciarlo è monsignor Silvio José Baez, lo stesso vescovo ausiliare della capitale che lunedì scorso era rimasto vittima di aggressioni fisiche e verbali nella cattedrale di San Sebastián a Diriamba insieme al cardinale Leopoldo Brenes e al nunzio apostolico, monsignor Waldemar Stanislaw Sommertag.
I tre rappresentanti ecclesiali erano stati insultati e picchiati da gruppi paramilitari che, dopo aver accerchiato l’edificio sacro, hanno fatto irruzione malmenando chiunque trovassero davanti e devastando la cattedrale. In particolare a monsignor Baez, ferito ad un braccio come mostrava egli stesso in un tweet, era stato assestato un pugno nello stomaco e gli era stata strappata la croce pettorale.
La gravità di quella violenza aveva fatto sì che la Conferenza episcopale sospendesse le trattative del Tavolo di dialogo nazionale, iniziate il 16 maggio scorso (un mese dopo lo scoppio della crisi) e proseguite a fatica. Gli attacchi e la profanazione del luogo sacro nella città di Diriamba - una di quelle maggiormente colpita dalle violenze - avevano fatto credere che fosse inutile proseguire con qualsiasi tipo di negoziato.
Tuttavia i presuli, in una riunione straordinaria durata sei ore ieri, nel Seminario di Nostra Signora di Fatima a Managua, hanno deciso di fare un passo indietro: in gioco c’è la sopravvivenza di una popolazione che subisce un dramma forse «peggiore» di quello delle due guerre vissute dal Paese, come aveva avuto modo di dire il cardinale Brenes; c’è una Chiesa i cui rappresentanti - dai sacerdoti ai frati agli stessi vescovi - cercano di fornire assistenza ai feriti e ai rifugiati ma sono costretti a rifugiarsi essi stessi nelle parrocchie; ci sono famiglie che hanno visto morire figli, anche minorenni, durante le repressioni violente delle manifestazioni pacifiche di piazza.
All’unanimità, ha riferito monsignor Baez, l’episcopato nicaraguense ha deciso perciò «di continuare a fornire il servizio» stabilito dalle parti, «come mediatori e testimoni del dialogo nazionale, con lo stesso entusiasmo e lo stesso impegno», seguendo l’esortazione di Papa Francesco che in un Angelus di giugno ribadiva, in riferimento alla situazione in Nicaragua, che «la Chiesa è sempre per il dialogo».
Le motivazioni di questa scelta è sempre Baez a spiegarle: «Continuiamo a credere che il dialogo sia il modo per superare la violenza... Non ci ritiriamo, nonostante l’ostilità del governo» del presidente comandante Daniel Ortega. Da qui un appello alla popolazione nicaraguense a non perdere la fede e sperare che la pace sarà prima o poi raggiunta usando metodi pacifici. All’incontro di ieri della Conferenza episcopale, presieduto dal presidente Brenes, seguirà un’altra riunione alla fine di questa settimana come ha confermato alla stampa il vescovo della diocesi di Jinotega, Carlos Enrique Herrera Gutiérrez.
In questi giorni dopo l’assalto a Diriamba, all’episcopato del Nicaragua sono pervenute tramite l’agenzia Fides numerose lettere di solidarietà da tutto il mondo, in particolare dalle Conferenze episcopali di Argentina, Costa Rica, Panama, Perù e Messico. In questi Paesi le comunità cattoliche sono unite nella preghiera per sostenere i vescovi nella ricerca di una soluzione pacifica alla crisi e per i familiari delle vittime. Oltre 350 quelle accertate la maggior parte delle quali civili, secondo quanto affermato da un report dell’Associazione nicaraguense per i diritti umani (Anpdh) che ha preso in considerazione il periodo che va dal 19 aprile al 10 luglio, a cui si sommano più di 2100 feriti. Tra i morti - uccisi da armi da fuoco ma anche da bombe, colpi di mortaio, armi da taglio - ci sono anche agenti di polizia e militari dell’esercito. Le province con il più alto numero di vittime sono Managua, Masaya e León.
Lo stesso rapporto rivela inoltre che 329 persone sono state sequestrate e 68 torturate dopo essere state catturate dalla polizia e dai paramilitari, le cosiddette “Turbas”, in diverse aree del Paese. Questi gruppi «stanno seminando il terrore e violenza», ha detto ieri il segretario di Stato vaticano, Pietro Parolin, ribadendo che, come Chiesa, «cerchiamo un dialogo che per il momento sembra poter riprendere, ma bisogna che ci sia la volontà di raggiungere un compromesso da entrambe le parti».
La gravità di quella violenza aveva fatto sì che la Conferenza episcopale sospendesse le trattative del Tavolo di dialogo nazionale, iniziate il 16 maggio scorso (un mese dopo lo scoppio della crisi) e proseguite a fatica. Gli attacchi e la profanazione del luogo sacro nella città di Diriamba - una di quelle maggiormente colpita dalle violenze - avevano fatto credere che fosse inutile proseguire con qualsiasi tipo di negoziato.
Tuttavia i presuli, in una riunione straordinaria durata sei ore ieri, nel Seminario di Nostra Signora di Fatima a Managua, hanno deciso di fare un passo indietro: in gioco c’è la sopravvivenza di una popolazione che subisce un dramma forse «peggiore» di quello delle due guerre vissute dal Paese, come aveva avuto modo di dire il cardinale Brenes; c’è una Chiesa i cui rappresentanti - dai sacerdoti ai frati agli stessi vescovi - cercano di fornire assistenza ai feriti e ai rifugiati ma sono costretti a rifugiarsi essi stessi nelle parrocchie; ci sono famiglie che hanno visto morire figli, anche minorenni, durante le repressioni violente delle manifestazioni pacifiche di piazza.
All’unanimità, ha riferito monsignor Baez, l’episcopato nicaraguense ha deciso perciò «di continuare a fornire il servizio» stabilito dalle parti, «come mediatori e testimoni del dialogo nazionale, con lo stesso entusiasmo e lo stesso impegno», seguendo l’esortazione di Papa Francesco che in un Angelus di giugno ribadiva, in riferimento alla situazione in Nicaragua, che «la Chiesa è sempre per il dialogo».
Le motivazioni di questa scelta è sempre Baez a spiegarle: «Continuiamo a credere che il dialogo sia il modo per superare la violenza... Non ci ritiriamo, nonostante l’ostilità del governo» del presidente comandante Daniel Ortega. Da qui un appello alla popolazione nicaraguense a non perdere la fede e sperare che la pace sarà prima o poi raggiunta usando metodi pacifici. All’incontro di ieri della Conferenza episcopale, presieduto dal presidente Brenes, seguirà un’altra riunione alla fine di questa settimana come ha confermato alla stampa il vescovo della diocesi di Jinotega, Carlos Enrique Herrera Gutiérrez.
In questi giorni dopo l’assalto a Diriamba, all’episcopato del Nicaragua sono pervenute tramite l’agenzia Fides numerose lettere di solidarietà da tutto il mondo, in particolare dalle Conferenze episcopali di Argentina, Costa Rica, Panama, Perù e Messico. In questi Paesi le comunità cattoliche sono unite nella preghiera per sostenere i vescovi nella ricerca di una soluzione pacifica alla crisi e per i familiari delle vittime. Oltre 350 quelle accertate la maggior parte delle quali civili, secondo quanto affermato da un report dell’Associazione nicaraguense per i diritti umani (Anpdh) che ha preso in considerazione il periodo che va dal 19 aprile al 10 luglio, a cui si sommano più di 2100 feriti. Tra i morti - uccisi da armi da fuoco ma anche da bombe, colpi di mortaio, armi da taglio - ci sono anche agenti di polizia e militari dell’esercito. Le province con il più alto numero di vittime sono Managua, Masaya e León.
Lo stesso rapporto rivela inoltre che 329 persone sono state sequestrate e 68 torturate dopo essere state catturate dalla polizia e dai paramilitari, le cosiddette “Turbas”, in diverse aree del Paese. Questi gruppi «stanno seminando il terrore e violenza», ha detto ieri il segretario di Stato vaticano, Pietro Parolin, ribadendo che, come Chiesa, «cerchiamo un dialogo che per il momento sembra poter riprendere, ma bisogna che ci sia la volontà di raggiungere un compromesso da entrambe le parti».
Salvatore Cernuzio
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