Avvenire
Un altro sos da un folto gruppo di profughi allo stremo in un centro di detenzione libico. Si tratta di 150 eritrei, etiopi e somali fuggiti il 23 maggio 2018 dalla prigione dei trafficanti a Beni Walid, dove per Medici senza frontiere si pratica la tortura.
Una storia emblematica del Paese "sicuro". Derubati e abbandonati da due trafficanti eritrei in questo snodo sulla rotta migratoria dal Sudan a 150 km da Tripoli e a 130 da Misurata, sono stati catturati dai miliziani mercanti di esseri umani che chiedevano 5.000 dollari a testa per liberarli. Soldi che nessuno aveva e, di fronte alla prospettiva di venire venduti, quella sera di maggio i migranti sono fuggiti in massa.
I banditi hanno sparato uccidendo 15 persone, altre 25 sono state ferite. I sopravvissuti al massacro si sono rifugiati in una moschea protetti dai cittadini. Il giorno successivo la polizia li ha trasferiti in un centro governativo a Tripoli da dove non sono più usciti.
Eppure persino la Libia, in base a un accordo sottoscritto con l'Unione africana, riconosce a queste nazionalità lo status di rifugiati e, secondo i medici di Msf che li hanno visitati, molti dei profughi e richiedenti asilo arrestati presentavano ferite di arma da fuoco, altri segni di tortura. Ma nel caos libico chi non cade nelle mani dei trafficanti finisce nei centri di detenzione ufficiali, perlopiù vecchie galere di Gheddafi o capannoni in disuso dove le autorità libiche ammassano i prigionieri.
Per i 150 sopravvissuti non si è fatta eccezione nonostante fossero vittime di criminali. Un rapporto dell'Organizzazione internazionale delle migrazioni conferma gli orrori di Bani Walid. Nella zona da dicembre sono stati trovati almeno 100 corpi di profughi. Secondo Msf molti cadaveri erano ai margini delle piste o delle strade nel deserto, lasciati morire dopo essere caduti da camion o pick-up.
Altri avevano ferite da arma da fuoco o segni di torture. Da Qasr Bin Ghashir, nell'area della capitale i 150 sopravvissuti sono riusciti a mandare segnali con uno smart-phone. Chiedono aiuto con disperati messaggi sui social domandando dove sia l'Acnur. Sono allo stremo per le condizioni in cui si trovano e i maltrattamenti arbitrari inflitti dai secondini, ex trafficanti che dopo gli accordi con Italia e Ue indossano una divisa.
Secondo l'Oim vi sono rinchiusi circa 530 detenuti (310 eritrei, 150 sudanesi, il resto somali, etiopi e nigerini, tra cui 90 donne) in condizioni igienico sanitarie precarie. Tensione aggravata dalla mancata registrazione di molti ospiti da parte dell'Onu. Sta invece leggermente migliorando la situazione nel campo tripolino di Tarek al Matar.
Dopo le denunce dei profughi sui tentativi di sequestro di alcune guardie rilanciati da questo giornale e la rivolta duramente repressa domenica scorsa, l'Onu prosegue nell'identificazione dei profughi in vista di una evacuazione umanitaria dei più vulnerabili in Niger.
Il centro ha catturato l'attenzione di alcuni media internazionali e il rischio di sparizioni, grazie all'intensificarsi dei controlli dell'Acnur, ora è basso. Le persone trasferite arbitrariamente che stavano per essere vendute sono state rintracciate, ma è pericoloso, confermano i prigionieri, svolgere lavori all'esterno. Come ha scritto ieri Avvenire, la Corte dell'AIA ha aperto un'inchiesta sulle galere libiche.
Paolo Lambruschi
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