Il rapporto della commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite i leader dell’esercito sono responsabili delle stragi e per questo andrebbero processati.
Un rapporto della commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite mette alla gogna i generali birmani e chiede alla comunità internazionale di incriminare i leader dell’esercito per genocidio del popolo Rohingya, crimini contro l’umanità e crimini di guerra.
Un’accusa formulata oggi dal consiglio Onu per i diritti umani dopo l’inchiesta disposta nel marzo 2017 proprio per indagare sulle stragi perpetrate contro la minoranza musulmana.
Il principale responsabile, indica il rapporto, è il comandante in capo dell’esercito birmano Min Aung Hlaing insieme a cinque alti ufficiali: colpevoli di aver ordito l’offensiva in Myanmar che l’anno scorso prese di mira le comunità Rohingya uccidendo almeno 10 mila persone nelle stragi commesse negli stati di Rakhine, Kachin e Shan.
“I principali generali birmani, tra cui il comandante in capo Min Aung Hlaing, devono essere indagati e perseguiti per genocidio, come pure per crimini contro l’umanità e crimini di guerra negli Stati di Rakhine, Kachin e Shan”, si legge nel rapporto della Missione del Consiglio per i diritti umani dell’Onu, istituito proprio per accertare i fatti accaduti in Myanmar l’anno scorso. Iniziati esattamente un anno fa, il 25 agosto 2017, dopo alcuni attacchi contro la polizia birmana causando le rappresaglie iniziate con la sanguinosa repressione nello Stato di Rakhine.
Da allora migliaia di profughi sono scappati in Bangladesh a piedi o su imbarcazioni di fortuna. Molti hanno raccontato storie raccapriccianti di torture, violenze sessuali, villaggi incendiati.
Le autorità birmane hanno sempre sostenuto che l’esercito ha colpito solo gli insorti e hanno fatto anche un accordo con il Bangladesh per rimpatriare i profughi: ma pochi si sono fidati tornando indietro dicendo che non lo faranno finché la loro sicurezza non sarà garantita.
Eventi che hanno portato a dure critiche del premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi, che non ha condannato con abbastanza forza le violenze contro la minoranza musulmana
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