Gli immigrati? «Ospitateli a casa vostra». Lo slogan più in voga sulle pagine social impregnate di xenofobia. A Reggio Calabria, però, c’è chi ne ha ribaltato il senso. Decine di famiglie hanno deciso di ospitare i migranti nelle loro case.
A decidere il destino di 50 adolescenti africani sbarcati sullo Stretto nel giugno di due anni fa è stata la forza di una comunità, in cui ancora resistono solidarietà e umanità. Una risposta che nel giro di 48 ore ha permesso di trovare una casa e una famiglia a un gruppo di minori stranieri giunti in Italia senza padri né madri. Sono i cosiddetti minori non accompagnati. Soli e impauriti. Come i 27 ragazzini tenuti in ostaggio per giorni sulla nave Diciotti della Guardia costiera.
Reggio, dunque, profondo Sud. Il 4 marzo scorso, il 7,26 per cento dei cittadini ha votato Lega eleggendo parlamentare Matteo Salvini. Fuori da quel 7 per cento, tuttavia, c’è una truppa di cittadini che alla politica dei muri risponde con i fatti.
Reggio, dunque, profondo Sud. Il 4 marzo scorso, il 7,26 per cento dei cittadini ha votato Lega eleggendo parlamentare Matteo Salvini. Fuori da quel 7 per cento, tuttavia, c’è una truppa di cittadini che alla politica dei muri risponde con i fatti.
Nel febbraio scorso quattro dei cinque centri di accoglienza straordinaria (Cas) di Reggio e provincia hanno chiuso. E a farsi carico delle sorti dei minori stranieri non accompagnati è stato un gruppetto di associazioni del territorio, che hanno aperto le porte delle abitazioni agli adolescenti stranieri. I Cas sono strutture individuate dalle prefetture: prevedono che la permanenza dei migranti sia limitata al tempo necessario al trasferimento in centri di seconda accoglienza. Ma di fatto, poi, i minori restano anche per più di un anno e fino alla maggiore età.
Com’è successo ad Abdulmasee, Abdu per gli amici. Oggi è diciottenne, arrivato in Italia da solo quando ne aveva 16. Fuggito dall’Egitto - e dalle persecuzioni dei Fratelli musulmani e dell’Isis sui Copti - è sbarcato a Reggio Calabria il 24 giugno 2016, dopo 12 giorni in mare. «Non c’era un solo motivo per rimanere lì», racconta Abdu, «c’era il rischio di essere ammazzati in qualsiasi momento. Per i cristiani la vita non è facile, le ragazze vengono rapite, stuprate, ammazzate. Non passa giorno che qualcuno non si faccia esplodere in una chiesa. Mio padre è morto quando avevo sette anni, mia madre ha la Sla, non ha medicine per curarsi e sta morendo, mi sono sempre occupato dei miei fratelli e continuo a farlo, anche se adesso ho un’altra vita e una nuova famiglia».
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Storie di accoglienza alternativa in una Calabria e in un Paese sempre più divisi tra chi vuole accogliere e chi respingere. Nell’Italia dei porti chiusi la storia di Abdu ha un sapore dolce. «Oggi mi sento molto felice, sono rinato e per questo non smetterò mai di ringraziare la comunità che mi ha accolto». Reggio città aperta.
Dominella Trunfio
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