Quest'anno sono stati ben 65 i detenuti che si sono tolti la vita nelle carceri italiane. Sovraffollamento, igiene carente: una tortura legalizzata. Che opprime pure le guardie.
Al 24 dicembre, sono 65 i suicidi consumatisi nelle carceri della nostra penisola nel corso di questo 2018 che volge oramai al termine. Si tratta di un tragico record, che non si registrava dal 2011, quando i detenuti che si tolsero la vita furono 66. Nel 2017 i decessi volontari tra le sbarre sono stati 52, l'anno precedente 45, nel 2015 43 (fonte Centro Studi di Ristretti Orizzonti).
Dal 2000 al 2018 sono stati ben 1.051 i suicidi in gattabuia. La media attuale è di oltre 5 episodi al mese, più di uno ogni sette giorni, con un rapporto di un suicida ogni 900 detenuti presenti. Gli ultimi casi sono avvenuti uno sabato scorso nel carcere di Messina, in cui un quarantatreenne si è impiccato; l'altro nella casa circondariale di Spini di Gardolo a Trento, dove nella notte tra venerdì e sabato scorsi si è tolto la vita un trentaduenne. Ne è seguita una sommossa da parte degli altri carcerati, che si sono barricati nei corridoi appiccando il fuoco a delle suppellettili, lamentando problemi relativi ai sevizi sanitari.
Nello stesso istituto, qualche settimana prima, un altro ristretto era ricorso a questo gesto estremo. Martedì 11 dicembre era toccato, invece, a un trentenne recluso da un mese in custodia cautelare nel carcere Don Bosco di Pisa. Il giovane si è impiccato mentre il suo compagno di cella si trovava in bagno. Dietro ogni morte di questo tipo c'è il fallimento dello Stato, che ha imprigionato ed ha abbandonato la persona che aveva preso in carico con lo scopo di rieducarla prima di restituirla alla società civile, la stessa che si distingue troppo spesso per inciviltà e che, incapace di diventare cosciente delle proprie nefandezze, ipocrisie nonché dei propri crimini, considera la popolazione che vive al di là delle sbarre una massa informe di rifiuti tossici, da espellere in qualche modo, da nascondere, da ignorare. La verità è che se un detenuto si fa fuori non frega nulla a nessuno. Qualcuno addirittura commenta: "Uno in meno. Meglio così!".
Eppure in gabbia - dove risiedono anche gli incolpevoli o comunque individui in attesa di giudizio (i detenuti in attesa di primo giudizio sono 10.265, al 30 novembre di quest'anno), da considerarsi dunque innocenti per il sacrosanto principio della presunzione di innocenza - potrebbe finirci chiunque di noi.
Il carcere, che si trova a volte nel cuore delle nostre città, ci riguarda da vicino. Non è solo un tetro edificio che costeggiamo con l'automobile mentre ci rechiamo da qualche parte. Al di là di quei decrepiti muri sono racchiuse esistenze. Vite che si spezzano troppo di frequente. Al ritmo sostenuto e inaccettabile, per l'appunto, di 65 morti ogni 12 mesi.
La detenzione all'interno degli istituti di pena italiani è estremamente dura. Nelle 190 carceri che si trovano disseminate sul territorio nazionale, a fronte di una capienza regolamentare di 50.583 detenuti, al 30 novembre del 2018 ve ne sono 60.002, di cui 2.640 donne e 20.306 stranieri (fonte Dipartimento Amministrazione Penitenziaria). Il sovraffollamento, se non è la causa principale che conduce alla scelta di togliersi la vita, concorre di certo a rendere più penosa la condizione restrittiva, dunque a determinare quel senso di assoluta disperazione che alberga nell'animo di chi compie un atto estremo.
In alcuni istituti non sono neanche garantiti i tre metri quadrati a persona nelle celle. Questo accade ad esempio, stando al dati raccolti dall'associazione Antigone, nelle case circondariali di Bergamo, di Catania "Piazza Lanza", di Catanzaro "Ugo Caridi", di Milano San Vittore "Francesco Cataldo", di Monza, di Nuoro, di Pisa, di Voghera, di Campobasso, di Napoli-Poggioreale e altre. Nelle celle manca l'acqua calda, il riscaldamento spesso non funziona, come succede nelle carceri di Catania "Piazza Lanza", di Frosinone, di Napoli-Poggioreale.
Per non parlare delle docce in cella, assenti, salvo rarissime eccezioni. Mancano aree verdi e spazi per le lavorazioni. Codeste privazioni, la mancanza di educatori, l'impossibilità di eseguire sul detenuto un trattamento rieducativo individualizzato a causa del sovraffollamento, il gelo nei mesi freddi, il caldo insopportabile in quelli caldi, i topi, gli scarafaggi, le zanzare, la mancanza di privacy, il ritrovarsi ammassali in piccoli spazi, la mancanza di attività lavorative e ricreative, la mortificazione dei propri bisogni affettivi e l'annullamento del contatto con i propri familiari, assomigliano a vere e proprie torture prive di senso e di scopo.
E non sì comprende come possa un individuo essere recuperato in situazioni di disagio di questo genere, che incidono negativamente persino sul personale deputato alla sorveglianza dei reclusi, ossia sugli agenti della polizia penitenziaria, i quali ogni dì assistono ad atti di autolesionismo, suicidi, tentati suicidi, risse, rivolte, diventando bersagli dell'esasperazione o della violenza dei detenuti stessi con i quali condividono la quotidianità tra le sbarre nonché - qualche volta - persino la scelta suicidarla.
Vista come unica possibilità per evadere da un'esistenza buia e soffocante. L'ultimo episodio risale alla sera del 18 dicembre, quando un'assistente capo del corpo di Polizia penitenziaria, quarantunenne originaria della provincia di Messina, in servizio nel carcere di Monza dal 1998, mamma di un bimbo, si è sparata un colpo di pistola alla testa nei pressi di un'area industriale adiacente la struttura detentiva, appena terminato il turno di lavoro. Negli ultimi tre anni si sono ammazzati più di 55 poliziotti e dal 2000 ad oggi sono stati complessivamente più di 110 (fonte Sappe).
di Azzurra Noemi Barbuto
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