I dossier di Caritas e Cgil: il 30% vive senza bagno. Al Nord arrivano i primi caporali.
Il rosso del sangue si mischia al rosso dei pomodori, sostiene don Francesco Soddu. Troppo spesso, in certe campagne, in certi ghetti: «Un unicum che sembra legare indissolubilmente l’esistenza di queste persone, la loro vita e la loro morte, alla terra e ai suoi frutti», aggiunge il direttore di Caritas italiana che in queste crepe della nostra convivenza, nei campi dove ci si spezza la schiena per due euro l’ora senza diritti né tutele, è andata a scavare con i suoi volontari ottenendo risultati su cui vale la pena riflettere.
Il 71 per cento dei braccianti immigrati non iscritto all’anagrafe, il 70 per cento senza contratto, il 36 per cento senza acqua potabile, il 30 senza servizi igienici, una stima di diciotto o ventimila accampati negli slum del Sud, l’89 per cento incapace di esprimersi nella nostra lingua: sono solo alcuni dei numeri dolenti raccontati da «Vite sottocosto», il secondo Rapporto Presidio dell’organismo pastorale della Cei. Numeri che, incrociati a quelli dell’Osservatorio Placido Rizzotto della Cgil (tra i 70 e i 100 mila lavoratori stranieri occupati in forma «para-schiavistica» nel nostro settore agroalimentare), formano il perimetro di una vasta questione nella quale la vergogna del caporalato è soltanto un lato, il più facile da approcciare: prendersela con quattro criminali non costa molto, altro è attaccare i meccanismi della grande distribuzione e della filiera produttiva illegale che, assieme alla cattiva accoglienza, compongono il quadro.
Prigioni di plastica
Un quadro significativo perché esteso da Nord a Sud. I volontari hanno contattato 4.954 lavoratori di 47 nazionalità grazie all’appoggio di tredici diocesi e all’impegno di un gruppo di studiosi coordinato da Piera Campanella: dai 385 immigrati intercettati a Saluzzo, in Piemonte, ai 1.083 di Ragusa in Sicilia, passando per i presidi di Foggia e Caserta, Latina e Cerignola, Melfi e Oppido Mamertina. Un mondo ricurvo sulla terra e su se stesso.
Le serre di Ragusa sono prigioni, «distese prepotenti di plastica», dimensioni di lavoro-dormitorio che inglobano il migrante isolandolo dal mondo. Vincenzo La Monica, uno dei volontari del progetto siciliano, racconta il trucco dell’aeroplanino che vale più d’un trattato di sociologia: siccome i braccianti sono irraggiungibili dentro i poderi dei padroncini e hanno troppa paura per uscirne, «noi li contattiamo piegando i nostri volantini come aeroplani di carta e glieli lanciamo oltre la recinzione». Ulteriore accortezza contro i capoccia: un testo in italiano, «vi diamo vestiti e coperte», e sotto uno in arabo e in romeno, «vi diamo anche assistenza legale». Un compagno di Vincenzo spiega che «qui c’è più che altro l’idea che i lavoratori siano di tua proprietà e quindi hai il possesso delle donne e degli uomini». Il sociologo Leonardo Palmisano racconta questo universo concentrazionario dove spesso si dorme in capannoni accanto al veleno dei bidoni di fertilizzanti: «Casolari, abitazioni diroccate, baracche, rimesse per gli attrezzi (...) delineano una sorta di topografia dello sfruttamento (...). Il datore di lavoro è in grado di assicurarsi oltre alle prestazioni di lavoro agricolo, anche, indirettamente, funzioni di guardiania dei locali aziendali da parte della stessa manodopera». Ultimi contro penultimi, come sempre. La prima immigrazione tunisina, sindacalizzata, combatte una feroce lotta contro i nuovi arrivati, romeni, spesso rom, disposti a diventare in silenzio nuovi servi della gleba, con le famiglie al seguito, i bambini senza scuola abbandonati in baracca tutto il giorno, le ragazze costrette a corvée sessuali. Vincenzo ha ancora negli occhi Laura, 14 anni, che non sa leggere perché deve badare ai quattro fratellini, ma ha imparato a memoria, solo ascoltandola, la sua parte in «Pinocchio e il paese dei farlocchi» che i volontari portano in scena. Il riscatto può stare in un lampo di fantasia.
I caporali al Nord
Ci sono i blitz, la legge del 2016 contro i caporali serve, eccome. Ma il contagio arriva fino all’altro capo d’Italia, con il disastro di Saluzzo, «le condizioni disumane» dei migranti prima accampati nel Foro Boario, poi nell’ex caserma Filippi dentro un progetto di prima accoglienza stagionale (il Pas). Non basta.
Un quadro significativo perché esteso da Nord a Sud. I volontari hanno contattato 4.954 lavoratori di 47 nazionalità grazie all’appoggio di tredici diocesi e all’impegno di un gruppo di studiosi coordinato da Piera Campanella: dai 385 immigrati intercettati a Saluzzo, in Piemonte, ai 1.083 di Ragusa in Sicilia, passando per i presidi di Foggia e Caserta, Latina e Cerignola, Melfi e Oppido Mamertina. Un mondo ricurvo sulla terra e su se stesso.
Le serre di Ragusa sono prigioni, «distese prepotenti di plastica», dimensioni di lavoro-dormitorio che inglobano il migrante isolandolo dal mondo. Vincenzo La Monica, uno dei volontari del progetto siciliano, racconta il trucco dell’aeroplanino che vale più d’un trattato di sociologia: siccome i braccianti sono irraggiungibili dentro i poderi dei padroncini e hanno troppa paura per uscirne, «noi li contattiamo piegando i nostri volantini come aeroplani di carta e glieli lanciamo oltre la recinzione». Ulteriore accortezza contro i capoccia: un testo in italiano, «vi diamo vestiti e coperte», e sotto uno in arabo e in romeno, «vi diamo anche assistenza legale». Un compagno di Vincenzo spiega che «qui c’è più che altro l’idea che i lavoratori siano di tua proprietà e quindi hai il possesso delle donne e degli uomini». Il sociologo Leonardo Palmisano racconta questo universo concentrazionario dove spesso si dorme in capannoni accanto al veleno dei bidoni di fertilizzanti: «Casolari, abitazioni diroccate, baracche, rimesse per gli attrezzi (...) delineano una sorta di topografia dello sfruttamento (...). Il datore di lavoro è in grado di assicurarsi oltre alle prestazioni di lavoro agricolo, anche, indirettamente, funzioni di guardiania dei locali aziendali da parte della stessa manodopera». Ultimi contro penultimi, come sempre. La prima immigrazione tunisina, sindacalizzata, combatte una feroce lotta contro i nuovi arrivati, romeni, spesso rom, disposti a diventare in silenzio nuovi servi della gleba, con le famiglie al seguito, i bambini senza scuola abbandonati in baracca tutto il giorno, le ragazze costrette a corvée sessuali. Vincenzo ha ancora negli occhi Laura, 14 anni, che non sa leggere perché deve badare ai quattro fratellini, ma ha imparato a memoria, solo ascoltandola, la sua parte in «Pinocchio e il paese dei farlocchi» che i volontari portano in scena. Il riscatto può stare in un lampo di fantasia.
I caporali al Nord
Ci sono i blitz, la legge del 2016 contro i caporali serve, eccome. Ma il contagio arriva fino all’altro capo d’Italia, con il disastro di Saluzzo, «le condizioni disumane» dei migranti prima accampati nel Foro Boario, poi nell’ex caserma Filippi dentro un progetto di prima accoglienza stagionale (il Pas). Non basta.
Giovani maliani e gambiani saliti quassù per la raccolta di pesche e mele continuano a vivere in strada, a svendere il proprio lavoro ai primi caporali che iniziano a vedersi anche quassù. Mancano «politiche nazionali e regionali» per regolare il reclutamento della manodopera e l’incontro tra domanda e offerta in agricoltura. I migranti irregolari sono i più vulnerabili. Oliviero Forti, responsabile dell’ufficio immigrazione Caritas, è convinto che il decreto Salvini appena convertito in legge peggiorerà le cose, «aumenterà l’illegalità».
Di sicuro chi è senza permesso di soggiorno è disposto a tutto, la massa che esce in questi giorni dai Cas e dai Cara la ritroveremo sfruttata nelle campagne la prossima estate. La vulnerabilità sale a Nord come la linea della palma di Sciascia. Volendo scovare i famosi «invisibili» che turbano sonni e sondaggi, al governo basterebbe seguirla, o seguire le tappe dei volontari Caritas: ma la nostra agricoltura finirebbe in ginocchio senza schiavi, più facile per tutti lasciare inginocchiati tra le zolle gli schiavi del terzo millennio.
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