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giovedì 31 gennaio 2019

Afghanistan - Con il ritiro di Usa e Italia a rischio e senza futuro le 500 bambine della scuola Cutuli

Corriere della Sera
A Kush Rod, vicino a Herat. dove si trova l’istituto intitolato all’inviata del Corriere, si preparano a una nuova guerra civile con i talebani: «Ora la loro vita è a rischio».


E ora? Ora che le truppe italiane sono pronte ad andarsene dall’Afghanistan, ora che l’America di Trump sembra aver raggiunto un accordo per permettere ai talebani di tornare al governo del Paese, ora cosa succederà alle 500 bambine che studiano nella bella scuole blu di Kush Rod intitolata alla giornalista del Corriere Maria Grazia Cutuli? Cosa succederà a loro? E cosa succederà a tutte le altre (e gli altri) che in 18 anni si sono opposti al terrorismo talebano, li hanno sfidati e hanno studiato altro oltre al Corano, hanno insegnato altro oltre ad alcuni precetti religiosi e hanno mandato a scuola le figlie oltre ai figli?
A Kush Rod, distretto di Injil, a 15 chilometri da Herat, si preparano a una nuova guerra civile. «Nessuno combatterà solo perché le figlie vadano in classe, ma temo che saremo costretti a farlo per difendere la loro vita e quella di tutta la famiglia» sostiene uno degli «anziani» del villaggio, Haji Khan Badrawi raggiunto al telefono dal Corriere. 

«Se i talebani potranno tornare in città con il permesso degli americani e non del governo afghano o dei comandanti locali, scatteranno le vendette, le ruberie, le violenze. Non si combatte per 23 anni per poi dividersi sorridenti i posti in municipio, alla dogana, nell’esercito, nella compagnia dei telefonini, ovunque si facciano affari».

Reddito di cittadinanza - Vuole abolire la povertà ma i senza fissa dimora, più poveri tra i poveri sono esclusi

La Repubblica
Per accedere serve la residenza da dieci anni, ma solo 200 comuni su 8 mila hanno indirizzi fittizi dove registrarsi


Senza dimora e senza neanche reddito. Né di cittadinanza, né di inclusione. Il decretone, da ieri in Senato, voluto per cancellare la povertà, dimentica i più poveri tra i poveri. E sembra un paradosso, ma non lo è. 

Perché per escludere gli stranieri, si estromettono anche gli italiani. Il 42% dei 50 mila e 724 censiti da Istat nel 2015 che si lasciano vivere o morire per strada, nei dormitori, nei sottopassaggi.

mercoledì 30 gennaio 2019

Le conseguenze dei porti chiusi - Allarme dell'Unhcr: "Otto migranti su dieci riportati indietro nei lager libici"

La Repubblica
Il rapporto dell'Alto commissariato sui "viaggi disperati": numeri raddoppiati da quando c'è il governo gialloverde. Aumentano i morti sulle rotte di terra


L'85 per cento di chi parte dalla Libia viene intercettato dalla Guardia costiera e riportato indietro. Rinchiuso nelle carceri in condizioni disumane, spesso senza acqua né cibo per giorni, a rischio di epidemia. 
È così da quando l'Italia ha chiuso i suoi porti. 

Più di quindicimila persone che, dopo mesi di detenzione, finiscono con l'essere rimesse in mano ai loro aguzzini e naturalmente ritentano la traversata pagando di nuovo i trafficanti e alimentando all'infinito un business che adesso, per reclutare nuovi clienti nei paesi d'origine, si nutre anche di "offerte speciali" per chi, naturalmente, non ha immediata disponibilità del denaro richiesto.

"Parti ora e paghi dopo", "Viaggia ora gratis e lavori quando arrivi in Libia", "Porta tre amici paganti e viaggi gratis", "Riunisci cinque persone, viaggio gratis per tutti e lavoro all'arrivo". Non è vero che con i porti chiusi e con la stretta sulle Ong si parte di meno dalle coste africane e, soprattutto, non è vero che si muore di meno. Né a mare né a terra, che sia nel deserto e all'interno dei centri di detenzione libici (dove nessuno sa quante persone perdono la vita ogni giorno), o che sia sulle strade di montagna che hanno visto una grande ripresa dei flussi migratori. 

Sei morti al giorni nel mar Mediterraneo, un numero che, seppure diminuito in termini assoluti (2.275 contro i 3.139 del 2017) è più che raddoppiato in termini percentuale con una vittima ogni 14 persone che partono e la conferma della rotta dalla Libia all'Europa come la più pericolosa in assoluto. E con 136 migranti (quasi il doppio dell'anno scorso) morti sulle rotte terrestri, sul fiume Evros tra Turchia e Grecia, alla frontiera tra Croazia e Slovenia, sui sentieri delle Alpi tra Italia e Francia.

È un trend nuovo e preoccupante quello registrato nel dossier dell'Unhcr sui "Viaggi disperati", un trend di rischi crescenti per un flusso migratorio che non si ferma caratterizzato negli ultimi sei mesi dell'anno dal vuoto nei soccorsi in mare, dai porti chiusi in Italia e dall'assenza di quell'automatico meccanismo di sbarchi e condivisione dei migranti tra gli Stati europei che Unhcr e Oim sollecitano per evitare i ripetuti casi di navi costrette a rimanere in mare per giorni in attesa dell'assegnazione di un porto sicuro. Circostanze che danno la percezione del fenomeno migratorio come emergenza quando emergenza non è. Un dato su tutti: oltre un milione di migranti arrivato in Europa nel 2015, appena 139.000 nel 2018, la metà dei quali arrivati in Spagna diventato il primo paese di approdo con oltre 65mila persone a fronte dei 23.400 sbarcati in Italia e dei 50.500 in Grecia.

Chi è stato intercettato e riportato nell'inferno libico ci riproverà affidandosi ai trafficanti perché "meglio rischiare la morte che rimanere in Libia". Per questo l'Unhcr chiede con forza un intervento sul governo libico perché le persone soccorse non vengano sottoposte ad una detenzione immotivata e perché vengano incrementati i corridoi umanitari per portare in Europa, per vie legali, i rifugiati in condizioni di vulnerabilità: 2.404 le persone evacuate dalla Libia, sei volte di più che nel 2017 ma ancora troppo poche.

Alessandra Ziniti

martedì 29 gennaio 2019

Pakistan. Asia Bibi, l'ultima sentenza: è libera di lasciare il Paese - La Corte Suprema respinge ricorso contro la sentenza di assoluzione

Avvenire
Finalmente è del tutto libera. Asia Bibi è libera di lasciare il Pakistan. La Corte Suprema ha respinto il ricorso contro la sentenza che il 31 ottobre scorso l'aveva assolta dal reato di blasfemia. 


«Basandosi sul merito, questa richiesta di revisione è rigettata» ha decretato il presidente del collegio giudicante Asif Saeed Khosa questa mattina. Ora la madre cristiana, che ha trascorso in carcere oltre 9 anni, è libera di lasciare il Paese, ricongiungendosi probabilmente alle figlie che potrebbero essere già all'estero. Nella zona del tribunale, oltre alla polizia, erano state schierate anche truppe paramilitari per contrastare eventuali incidenti di piazza.
Il giudice: non si punisce un innocente
Secondo il giudice il firmatario del ricorso «non è stato in grado di individuare alcun errore nel verdetto della Corte Suprema che ha assolto Asia Bibi». Durante l'udienza, l'avvocato Ghulam Ikram, legale del ricorrente Qari Muhammad Salaam, aveva chiesto che a giudicare la richiesta fosse un tribunale più ampio che includesse anche religiosi islamici e ulema. Dura la risposta del presidente: «Il verdetto è stato emesso sulla base di testimonianze. Secondo l'islam una persona dovrebbe essere punita anche se non è stata giudicata colpevole? Ci dimostri cosa c'è di sbagliato nel verdetto».

Accanto a lei, il marito e l'avvocato
Fino ad oggi, dopo la sentenza di assoluzione, Asia Bibi si trovava sotto protezione in una località segreta in Pakistan. Libera a metà, non più detenuta ma impossibilitata a lasciare il Pakistan dove l'odio di gruppi fondamentalisti islamici avrebbe potuto significare per lei una concreta minaccia di morte. In questi mesi ha sempre avuto accanto il marito Ashiq Masih, mentre le figlie potrebbero essere già in Canada, dove avevano chiesto asilo, anche se le autorità di Ottawa non hanno finora confermato la notizia circolata tra la diaspora pachistana e sui media anglosassoni. Asia Bibi è madre di cinque figli, i maschi Nasim e Imran, e le ragazze Asha, Sidra, ed Esham, colpita da disabilità.

Lo storico avvocato difensore della donna, il musulmano Saiful Malook, era stato fuggito ad Amsterdam il 3 novembre, per il rischio di azioni punitive nei suoi confronti, e da lì era andato nel Regno Unito, ma ha deciso di rientrare in Pakistan proprio per essere presente alla sentenza odierna. Una scelta che Malook ha definito «permanente» ma, ha ammesso, «non immune da rischi», nonostante la richiesta di protezione avanzata al premier Imran Khan.
Gli estremisti sono stati isolati
Dopo l'assoluzione di Asia Bibi, gli estremisti musulmani del Tehreek and Labbaik Pakistan (Tlp) avevano inscenato manifestazioni anche violente, con incidenti e devastazioni, invocando la pena capitale per la cristiana. Le proteste erano rientrate solo dopo l'assicurazione da parte del governo che l'Alta Corte avrebbe riesaminato il caso.

Arrestati a migliaia con i loro leader, è stata fatta terra bruciata attorno a loro, lasciando come unico pretesto la richiesta di sovvertimento della sentenza attraverso l'ultimo appello del "grande accusatore", un imam. Oggi si è chiuso anche quest'ultimo capitolo.

Migranti, i nuovi deportati che dopo un lungo viaggio muoiono in mare, anche per loro una pietra di inciampo

Blog Diritti Umani - Human Rights
Pietre di inciampo, per non dimenticare ma anche per guardare la realtà di oggi. 


Un liceo, che può rappresentare tutte le nostre scuole, ha scelto di porre sul pavimento della scuola una pietra di inciampo che più che ricordare vuol fare guardare alla realtà dei migranti e vedere la loro tragedia umana al di là delle strumentalizzazioni di cui sono oggetto.

Il ragazzo di 14 anni del Mali, pieno di speranze, era partito dal suo paese con la pagella piena dei bei voti cucita nel suo giubbotto. Aveva la speranza e la determinazione di farsi valere ed essere una risorsa nel nostro Paese. 

E' morto affogato davanti al muro che si è alzato nel Mediterraneo.
La sua storia deve essere per noi è un monito e un aiuto per restare umani.

ES


lunedì 28 gennaio 2019

Bolzano, Asl chiede sul formulario la "razza" dello studente. La rabbia degli insegnanti

La Repubblica
La rabbia degli insegnanti: "Non è normale che si faccia questa domanda".


"Gruppo etnico o razza dell'alunno": è quanto si legge in un questionario dell'Asl comprensorio di Bolzano. Come scrive il quotidiano Alto Adige, si tratta di un formulario di sei pagine del servizio di neuropsichiatria che, nei giorni scorsi, è stato recapitato ad insegnanti di una scuola media per una valutazione di alcuni ragazzi per delineare il loro profilo.

Sul modulo "valutazione dell'insegnante - Anni 6-18" in uno dei primi campi c'è la richiesta di indicare "gruppo etnico o razza dell'alunno". Gli insegnanti, che sostengono sia un formulario redatto negli Stati Uniti, hanno fatto sapere di essersi rivolti sia al Servizio di Neuropsichiatria infantile che al personale di sostegno senza però ottenere riscontri.

"Capiamo tutto - dicono gli insegnanti al giornale -, capiamo che si tratti di moduli standard redatti negli Stati Uniti, dove la legge prevede che si chieda anche quale sia la razza. Ma quello che non afferriamo è come mai nessuno al Comprensorio sanitario di Bolzano se ne sia accorto e si sia fatto una domanda. Evidentemente trovano normale che si domandi ad uno studente a quale 'razzà appartiene".

Emirati Arabi - Un italiano, Massimo Sacco, in cella ad Abu Dhabi. "Mi torturano, sto morendo"

La Stampa
Imprenditore 53enne arrestato a marzo scorso per possesso di 10 grammi di cocaina. Mi hanno sottoposto a torture di ogni tipo, scosse elettriche ai genitali, il mio testicolo sinistro è grande come un'arancia. Ho tre costole incrinate. Aiutami, ho i giorni contati, sto morendo".

È la denuncia di Massimo Sacco, un imprenditore 53enne di Roma, detenuto nel carcere federale di Abu Dhabi, negli Emirati Arabi Uniti, da agosto scorso, e prima, dal 5 marzo, nella prigione di Dubai, dopo essere stato trovato in possesso di 10 grammi di cocaina, tornato da una festa al Barasti Beach. 

L'uomo, affetto da una malattia genetica chiamata microcitemia, ha chiesto alla sua compagna, Monia Moscatelli, di lanciare un appello via radio alle autorità italiane.

Il processo a suo carico non è mai iniziato: "Il primo rinvio è stato il 7 gennaio - spiega a La Stampa la fidanzata -, ma i poliziotti non si sono presentati. Ora la data dell'udienza è fissata per il 24 gennaio". Si rimanda di mese in mese, "il giudice non ha nemmeno formulato l'imputazione, perché vuole sentire prima gli inquirenti, e intanto Massimo è tenuto in carcere malato, è dimagrito a vista d'occhio", spiega disperata la compagna.

Racconta di minacce da parte degli agenti, botte e torture: "Il suo stato di salute è ormai al collasso, da 87 chili ora ne pesa 68". La coppia vive negli Emirati Arabi dal 2015. Lui al momento dell'arresto era titolare di una società di ristrutturazione. Se l'accusa a carico del 53enne fosse quella di traffico internazionale di stupefacenti, rischierebbe anche la pena di morte. Per uso e possesso di droga, la pena prevista è di sei mesi, lui è in cella da dieci. Ma il pericolo imminente è quello per la salute. Tante che la donna si è rivolta alla trasmissione "I lunatici" di Radio2.

Ha riferito l'inferno in cui vive Sacco: "Hanno fatto di tutto per farlo confessare. Ha subito ricatti. Il direttore del carcere gioca da tre mesi con la sua vita". L'imprenditore è stato male, è stato trasportato in ospedale, dove gli hanno fatto esami del sangue e un'ecografia alla milza, perché si stava ingrossando di giorno in giorno. Il medico emiratino ha riscontrato un'anemia e prescritto ferro. Ma lui è affetto da una malattia di tipo mediterraneo, che ad Abu Dhabi non conoscono e non sanno come trattare, che comporta un'eccessiva produzione di ferro e andrebbe trattata con l'acido folico. "Rischio che a breve una leucemia", denuncia.

La Farnesina sta seguendo "dal principio e con la massima attenzione tramite l'ambasciata ad Abu Dhabi" il caso, dichiara di "vegliare sulle condizioni detentive". Moscatelli, che a dicembre ha scritto al presidente della Repubblica Mattarella, ha avviato anche una colletta trai famigliari: "Dobbiamo trovare i soldi per l'avvocato - dice, lì si pagano anche il carcere, le telefonate ai parenti, il cibo, tutto". Intanto, non sono arrivati in cella nemmeno i "vestiti puliti consegnati al direttore della struttura detentiva", chiesti da Sacco molti mesi fa.

Letizia Tortello

Zimbabwe allo stremo, niente rinascita dopo Mugabe, sparo sui dimostranti e intimidazioni agli oppositori

Corriere della Sera
È criminale che le forze dell'ordine approfittino delle manifestazioni popolari (e di qualche saccheggio) per sparare sui dimostranti e picchiare di notte a domicilio i membri dell'opposizione. 


In un Paese dove il 75% degli abitanti vive con meno di 5 euro al giorno, il governo ha fatto in modo che i prezzi raddoppiassero in una settimana, a partire dal carburante che tocca i 3 euro al litro. Da un giorno all'altro, via i sussidi: lo Zimbabwe vanta ora il record della benzina più cara del mondo. Altro che gilet gialli: la gente non ha i soldi per il biglietto dell'autobus (3 euro pure quello, come un chilo di riso). È normale che protesti.

Se qualcuno nutriva ancora dubbi, in questi giorni il disincanto è servito a doppia cifra (come l'inflazione): il governo del presidente Emmerson Mnangagwa non è diverso da quello notoriamente autoritario dell'ex sodale Robert Mugabe.

Il Coccodrillo che 10 anni fa organizzava di persona la repressione del Movimento per il Cambiamento democratico, adesso lascia il compito al vice. Mentre il capo era all'estero, l'ex generale Costantino Chiwenga ha scatenato le violenze e bloccato Internet. Il bilancio a Harare è di almeno 12 morti, un centinaio di feriti, 700 arrestati (5 parlamentari). Le forze dell'ordine sostengono che gli assalitori erano impostori travestiti da poliziotti.

Il Coccodrillo ha interrotto il suo viaggio, si è perso la tappa di Davos per rientrare in patria. E usando twitter (dopo aver bloccato per giorni i social) ha tuonato che gli eventuali abusi della polizia saranno perseguiti. Come no. Lo Zimbabwe è allo stremo. La rimozione di Mugabe nel 2017 e le elezioni contestate del 2018 non hanno portato a una rinascita. Per attirare gli investimenti di cui il Paese ha disperato bisogno, il Coccodrillo si era inventato uno slogan: lo Zimbabwe "open for business". Nè affari né aperture, purtroppo: lo Zim resta "chiuso per botte".

Michele Farina

domenica 27 gennaio 2019

Iran - Arresti, torture ed esecuzioni in carcere. Così si reprimono le rivolte per il pane

La Stampa
Rapporto di Amnesty fa il bilancio del giro di vite dopo le proteste del 2018. Giornalisti, studenti e attiviste fra le vittime. Centinaia condannati a pene detentive e alla fustigazione. Il regime piegato dalle sanzioni Usa, ma l'economia resiste.


Il 2018 è stato per l'Iran l'anno della grande repressione, con settemila persone arrestate. Le manifestazioni per la crisi economica sono state stroncate a gennaio, ma la macchina delle forze di sicurezza ha continuato a lavorare a pieno ritmo contro altre forme di protesta, come quelle delle attiviste peri diritti umani. 

Un clima cupo che ha segnato il secondo mandato del presidente riformista Hassan Rohani, messo all'angolo dalle nuove sanzioni americane e dall'erosione della sua base di consenso, che ha favorito il ritorno dei metodi oltranzisti.

I numeri del giro di vite sono stati rivelati da un rapporto di Amnesty International. Nel corso dell'anno sono state arrestate settemila persone. Fra loro "studenti, avvocati, giornalisti, ecologisti, sindacalisti e attivisti per i diritti delle donne".

Centinaia sono "stati condannati a pene detentive e alla fustigazione". Nove sono morti in prigione, 26 sono stati uccisi durante le proteste. Lo spettro sociale degli arrestati mostra anche la vastità del malcontento, come ha sottolineato il direttore di Amnesty per il Medio Oriente e il Nord Africa, Philip Luther: "Dagli insegnanti che non ricevono lo stipendio agli operai delle fabbriche che faticano a nutrire le loro famiglie, tutti quelli che osano chiedere il rispetto dei loro diritti pagano un prezzo alto".

La repressione è stata dura nei confronti dei lavoratori salariati, i più toccati dalla crisi e dall'inflazione. Almeno 467, compresi insegnanti, camionisti, operai delle fabbriche sono stati arrestati e decine hanno ricevuto condanne pesanti. Trentotto anche la fustigazione. Il giro di vite non ha però fermato le proteste, che hanno assunto altre forme. Migliaia di donne che hanno cominciato a togliersi il velo in pubblico e 112 sono state arrestate. Fra loro l'attivista Nasrin Sotoudeh, accusata di reati contro "la sicurezza nazionale".

Mercoledì anche il marito Reza Khandan, che si è battuto per la sua liberazione, è stato condannato a sei mesi di prigione. Accanto alle femministe sono cresciuti i movimenti ecologisti, anche questi nel mirino del regime. Almeno "63 attivisti e ricercatori" sono stati arrestati. Sono accusati in genere di "spionaggio", cioè di raccogliere "dati sensibili" nelle aree investite dalle proteste, per esempio vicino a dighe che hanno devastato l'ambiente.

Cinque di loro - Morad Tahbaz, Niloufar Bayani, Houman Jokar, Sepideh Kashani, Taher Ghadirian sono statti accusati di "mofsed-e-filarz", cioè di "spandere corruzione sulla Terra", una imputazione con sfumature religiose che può condurre alla pena capitale. Stesso rischio corrono duecento persone della confraternita sufi dei Gonabadi, protagonisti di una protesta lo scorso febbraio. Uno di loro, Mohammad Salas, è stato giustiziato a giugno per aver investito e ucciso tre poliziotti con il suo pullman.

Altri 20 sufi sono stati condannati a lunghe pene detentive e alla fustigazione, così come il giornalista azero Mohammad Hossein Sodagar, accusato di diffondere "fake news". Con l'inizio del 2019, mentre la Repubblica islamica si prepara a festeggiare il 40esimo anniversario della Rivoluzione khomeinista, le proteste sembrano soffocate.

A dare il fiato al regime, anche se il presidente Rohani è indebolito, sono alcuni miglioramenti economici. Le sanzioni americane hanno incluso "eccezioni" per l'export di petrolio a otto Paesi. Anche se, secondo i dati ufficiali, le esportazioni sono calate da 2,5 milioni di barili al giorno dello scorso aprile ai 1,3 milioni di dicembre, quelle reali, secondo il sito specializzato Cargo Metrics, sono vicine ai 2 milioni e questo dà fiato all'economia. Un altro spiraglio di speranza è stata l'elezione a novembre del riformista Pirouz Hanachi a sindaco di Teheran. Potrebbe essere il nuovo volto dell'Iran.

Giordano Stabile

Guerre dimenticate - Onu: in Ucraina 13mila morti per la guerra del Donbass

Corriere della Sera
Dall’aprile 2014 alla fine del 2018 sono state quasi 13 mila le vittime della guerra nel Donbass. Lo ha reso noto la missione di monitoraggio per i diritti umani delle Nazioni Unite in Ucraina. 

Nello specifico, i civili rimasti uccisi sarebbero 3.300, oltre a 4 mila soldati ucraini e 5.500 miliziani separatisti. In aggiunta, un numero di persone fra le 27 e le 30 mila sono rimaste ferite nel corso del conflitto armato.
Tutta l’area orientale dell’Ucraina vive una situazione di profonda instabilità e incertezza dall’aprile del 2014, dopo che le autorità di Kiev lanciarono un’operazione militare per riprendere il controllo della regione dalle milizie delle autoproclamate repubbliche di Donetsk e Luhansk che sostengono l’indipendenza del Donbass. 

Gli accordi raggiunti a Minsk dal Gruppo di contatto trilaterale dell’Osce (Russia, Ucraina e le due autoproclamate repubbliche) prevedono un completo cessate il fuoco; il ritiro degli armamenti dalla linea di contatto nell’Ucraina orientale; lo scambio reciproco di tutti i prigionieri detenuti da entrambe le parti; delle riforme costituzionali che conferiscano uno statuto speciale alle autoproclamate repubbliche. 

Il Formato Normandia (Francia, Germania, Russia e Ucraina) monitora il rispetto di quest’intesa. Dalla sigla degli accordi, tuttavia, le due parti si accusano reciprocamente di contrastarne l’attuazione.

Monica Ricci Sargentini

27 gennaio - Giornata della Memoria - Le pietre d'inciampo la rendono una lezione e una memoria quotidiana

Blog Diritti Umani - Human Rights
27 Gennaio - Giornata della Memoria -  Giorno in cui ci accorgiamo come il presente dove riaffiorano forme di razzismo e di intolleranza è il presente diverso da quello che doveva essere dopo la lezione di Auschwitz che i paesi dovevano imparare.

Le pietre d'inciampo che sono diffuse davanti a tante case delle nostre città sono un'opportunità e un aiuto affinché la lezione di questa memoria divenga la nostra quotidianità. 

Le 5 pietre d'inciampo, che hanno impreziosito la soglia della mia casa a Roma, sono un aiuto a essere uomini e donne che non perdono la memoria.
Non posso fare a meno, tutte le volte che varco la soglia di casa,  di pensare a quella famiglia con tre bambini tra loro Mirella Di Consiglio di un anno nata nel 1942 arrestata il 16 ottobre del 1943 deportata e assassinata ad Auschwitz  5 giorni dopo. 

E' una memoria vicina perchè questa famiglia abitava nella mia casa, e per me non è irrilevante.

Ezio Savasta 


sabato 26 gennaio 2019

Il magistrato sul caso Salvini: il consenso popolare non legittima la violazione delle leggi

Globalist
Il Presidente della Corte d'Appello Matteo Frasca parla del caso del giorno: illecito ogni atto contrario ai diritti costituzionalmente garantiti.

Il Presidente della Corte d'Appello
Matteo Frasca
Nessuno in un paese democratico e dove vige lo stato di diritto può violare la legge.
Nessuno. Sia un cittadino, un funzionario dello stato, un ministro, il presidente del Consiglio o quello della Repubblica.
Nessuno.

Concetti chiari che, purtroppo, devono essere ripetuti mentre il magma erdoganiano avanza: “Il consenso popolare non è sufficiente a legittimare ogni atto politico di governo che incontra il limite invalicabile del rispetto dei diritti fondamentali, l'accertamento della cui violazione compete esclusivamente alla magistratura".
Così il Presidente della Corte d'Appello Matteo Frasca durante l'inaugurazione dell'anno giudiziario a Palermo.
"Il consenso popolare - dice Frasca -non può rendere lecito un atto contrario ai diritti costituzionalmente garantiti che sono tutelabili anche nei confronti delle contingenti maggioranze politiche e quand'anche la loro violazione fosse conseguenza di un atto politico approvato all'unanimità".

Turchia: rilasciata Leyla Guven, deputata curda in sciopero della fame da 79 giorni

AnsaMed
Istanbul - Un tribunale turco ha ordinato la scarcerazione in attesa di giudizio della deputata del partito filo-curdo Hdp Leyla Guven, giunta al 79/mo giorno di sciopero della fame per protestare contro l'isolamento imposto al leader del Pkk Abdullah Ocalan, detenuto dal 1999 nell'isola-prigione di Imrali nel mar di Marmara.

Guven, in detenzione preventiva da un anno con accuse di "terrorismo" per le sue dichiarazioni critiche sull'offensiva militare di Ankara contro l'ex enclave curda di Afrin in Siria, verrà rilasciata con divieto di espatrio. Secondo l'Hdp, le sue condizioni di salute hanno raggiunto "uno stadio critico" e nei giorni scorsi un accorato appello era stato lanciato anche dalla figlia.

Durante la protesta, la deputata 55enne si è alimentata solo con liquidi zuccherati e salati e un complesso di vitamina B. Oltre 250 detenuti si erano uniti nelle scorse settimane al suo sciopero della fame in segno di solidarietà. In passato, questo genere di protesta nelle carceri turche ha provocato forti tensioni e scontri anche mortali.

Sea Watch, la mediazione della Cei: la Comunità Giovanni XXIII pronta ad accogliere i minori

La Repubblica
La Comunità accolse anche i migranti della Diciotti. Pronti ora ad ospitarli a Reggio Calabria.


Come è già accaduto ad agosto per i migranti della Diciotti, anche questa volta la Comunità Papa Giovanni XXIII, che poi ospitò la gran parte degli eritrei a bordo, è pronta ad aprire le porte delle sue comunità ai minorenni bloccati da otto giorni sulla Sea Watch3 dei quali ieri il procuratore dei minori di Catania ha sollecitato losbarco immediato come prevede la legge. 


Paolo Ramonda, presidente della Papa Giovanni, ha fatto sapere che per i 13 ragazzi minori, 8 dei quali non accompagnati, è pronta la casa "Annunziata" di Reggio Calabria.

Una disponibilità che potrebbe sbloccare, almeno per loro, una situazione che si fa sempre più difficile. Grazie alla mediazione di don Aldo Bonaiuto, uno dei pilastri della Comunità che con Salvini ha intessuto negli ultimi mesi un rapporto di collaborazione, ad agosto Salvini si decise a far scendere i migranti della Diciotti dando il suo assenso ad un accordo di suddivisione che, in mancanza dell'Europa, ha visto per la prima volta scendere in campo la Cei. 

E sempre con la Comunità Papa Giovanni XXIII Salvini ha acconsentito all'arrivo in Italia di due voli di corridoi umanitari che hanno portatocirca 150 migranti vulnerabili liberati dall'Unhcr dalle prigioni libiche.

Procura di Catania chiede sbarco immediato dei minori non accompagnati sulla Sea Watch 3

Adnkronos
La Procura dei minori di Catania ha chiesto lo sbarco immediato dei minori non accompagnati che si trovano a bordo della nave Sea Watch che dalla notte scorsa staziona a 1,4 miglia dalla costa di Siracusa. 

Siracusa. “Fateli sbarcare”, striscioni in corso Umberto - [Siracusaoggi.it]
Con una lettera inviata ai ministri dell'Interno e delle infrastrutture e trasporti, rispettivamente il vicepremier Matteo Salvini e Danilo Toninelli, ma anche al presidente del tribunale per i minorenni di Catania, al procuratore generale di Catania e al prefetto di Siracusa, il procuratore per i minorenni di Catania, Caterina Ajello, afferma che lasciare i minori stranieri non accompagnati sulla nave dell'Ong è una "grave violazione dei loro diritti".

La stessa procura dei minori di Catania ha aperto un fascicolo, al momento contro ignoti, per accertare quanti siano i minori non accompagnati. A quanto si apprende i minori a bordo sarebbero 13, di cui 8 non accompagnati. L'indagine è stata aperta dai magistrati dopo la lettera inviata oggi dalla Garante per i minori di Siracusa Carla Trommino alla Procura dei minori della città etnea. Nella lettera Trommino chiedeva una "verifica urgente della presenza di minori non accompagnati ci sono a bordo".

Nella missiva, Ajello scrive: "Atteso che i suddetti minori si trovano in territorio dello Stato italiano e specificatamente nel distretto di competenza di questa procura della Repubblica per i minorenni, la tutela dei loro diritti deve essere assicurata da questa Ag". 

"Evidentemente - prosegue il procuratore - tutti questi diritti vengono elusi a causa della permanenza dei suddetti minori a bordo della nave poiché quantomeno non possono beneficiare di strutture di accoglienza idonee e sono costretti a permanere in una condizione di disagio sino a quando la situazione politica internazionale non sarà risolta, con grave violazione dei loro diritti".

Il procuratore dei minori chiede quindi ai ministri Salvini e Toninelli che "i minorenni extracomunitari a bordo della nave Sea watch 3 possano sbarcare per essere collocati nelle apposite strutture per minori stranieri". La lettera è stata inviata oggi pomeriggio anche al Comandante della capitaneria di Porto di Siracusa e all'autorità garante nazionale per l'infanzia e l'adolescenza e all'ufficio del difensore dei diritti dei bambini presso il comune di Siracusa.

Intanto, stando a quanto sottolineano fonti del Viminale, il ministro dell'Interno Matteo Salvini sta raccogliendo gli elementi per valutare una denuncia per tutti i membri dell'equipaggio della Sea Watch 3 per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina. Dura la replica del garante per l'infanzia di Siracusa: "Forse il ministro dell'Interno sconosce la legge - dice Trommino all'Adnkronos -. Se c'è un solo dubbio, il ragazzo si deve considerare minore fino a prova contraria. Non si tratta di escamotage. Non lo può valutare il Viminale se fare sbarcare i minori, ma devono solo applicare la legge".

venerdì 25 gennaio 2019

Libia - migranti: «Noi, costretti ad imbarcarci dai miliziani con le armi» - Viaggio tra i centri illegali di migranti alla periferia di Tripoli in mano alle milizie

Corriere della Sera
Non volevano proprio partire le centinaia di migranti spinti di forza dalle milizie libiche e le bande di trafficanti sui gommoni della morte sabato, domenica e lunedì scorsi dalle spiagge comprese tra Misurata e Garabulli. Il mare era mosso, il vento troppo freddo: avrebbero preferito attendere condizioni meteo migliori. Ma le loro vite non contano nulla, sono ora più che mai vittime degli scontri politici e delle violente lotte di potere locali cresciute dopo il summit sulla Libia tenuto a Palermo lo scorso novembre.

«C’erano onde alte oltre un metro sin sulla spiaggia e al largo il vento teso increspava i cavalloni. La temperatura era gelida. Assurdo imbarcarci, sembrava un suicidio. Alle due della mattina di domenica 20 gennaio però quei criminali ci hanno costretti. Erano otto uomini con abiti civili e il mitra in mano. Minacciavano di uccidere chiunque si fosse opposto. Non che io non volessi partire per l’Italia. Però avrei preferito aspettare che il mare si calmasse e una temperatura meno rigida. Ma non hanno concesso alcuna possibilità. Mi avrebbero sparato», ci racconta Hamido Mussa, nigeriano 31enne, che al momento si trova nel centro di raccolta per migranti di Shouk al Khamis, a Khoms, sulla costa a metà strada tra Tripoli e Misurata.

Lui è relativamente «fortunato», visto che la famiglia dalla casa natale ha accettato di pagare i suoi carcerieri affinché ora sia detenuto in questo campo noto all’Onu e alle organizzazioni umanitarie internazionali. «Alla partenza eravamo 142, di cui una ventina di donne e 8 o 9 bambini, divisi in due grandi gommoni. In maggioranza in arrivo da Siria, Ghana, Eritrea e Yemen. Tanti sono morti poche ore dopo, a ucciderli è stata l’acqua ma soprattutto il gelo. Non so quanti siano sopravvissuti. Adesso siamo sparsi in vari campi», aggiunge.

Il suo calvario e quello degli altri fornisce un quadro fedele della situazione venutasi a creare in Libia con il crescere del dialogo tra il premier del governo unitario a Tripoli, Fayez Sarraj, e Khalifa Haftar, l’uomo forte della Cirenaica. Su pressione europea, dopo Palermo, si vorrebbe infatti costruire un governo comprensivo in grado di rilanciare la pacificazione interna e il processo politico verso libere elezioni. Ma numerose milizie della Tripolitania, specie quelle legate alla forte «città-Stato» di Misurata, si oppongono all’inclusione di Haftar. Sarraj in risposta taglia loro i salari. Queste allora si finanziano con la «merce di scambio» più accessibile e a buon mercato: i migranti. A migliaia negli ultimi mesi sono stati incarcerati nei centri delle milizie e picchiati al fine di ottenere riscatti dalle famiglie nei Paesi di partenza. A quelli del Bangladesh vengono chiesti sino a 1.200 dollari a testa per la liberazione. Per un somalo o un sudanese il prezzo scende a 500.

Nel traffico sarebbero coinvolti anche importanti funzionari del ministero degli Interni a Tripoli. «Le milizie ribelli bloccano le barche della guardia costiera di città come Misurata e Garabulli. Intendono creare problemi tra Sarraj e i suoi partner europei, in particolare con l’Italia. E più migranti muoiono in mare più Sarraj appare debole, inaffidabile», ci spiega un noto ufficiale della guardia costiera di Khoms, che chiede l’anonimato. I migranti in partenza sono certamente diminuiti, ma le loro sofferenze in Libia appaiono peggiorate.

Lorenzo Cremonesi

25 gennaio 2019 - 3 anni fa la scomparsa di Giulio Regeni si aspetta ancora la verità. Fiaccolate e presidi in oltre cento città italiane

Rai News
Il 25 gennaio 2016 il nome di Giulio Regeni si aggiungeva a quelli dei tanti egiziani vittime di sparizione forzata. 


Il 3 febbraio, veniva ritrovato morto con addosso i segni delle torture inferte. A 3 anni dalla scomparsa, Fiumicello, paese natale di Giulio e oltre 100 città italiane ricorderanno il giovane ricercatore friulano e chiederanno che sia fatta piena luce sul suo assassinio.

Armi italiane usate per fare la guerra in Arabia Saudita, Yemen e Siria. Contro la Costituzione e la legge 185/90

Osservatorio Diritti
Le armi italiane nel mondo, vendute all'estero anche in tempo di pace, finiscono per alimentare conflitti, in contrasto con quanto prevede la legge. Lo svela Italian Arms, un gruppo di ricercatori e giornalisti che sta tracciando chi utilizza le armi lecitamente esportate dall'Italia.


Lanciatori missilistici in dotazione alle navi da guerra che l’Arabia Saudita ha disposto nel blocco navale contro lo Yemen. Elicotteri italiani che sparano sui civili ad Afrin, nel Kurdistan siriano. Sistemi per la mira in movimento di carri armati in uso nella campagna pro-Assad nella Siria meridionale. Sono solo alcuni dei casi di armi italiane usate in zone di conflitto, nonostante la legge italiana sull’export delle armi impedisca di vendere a Paesi in guerra.

Un gruppo di giornalisti – tra cui l’autore di questo articolo – e di ricercatori, Italian Arms,sta tracciando gli effettivi utilizzatori finali delle armi autorizzate ad uscire dall’Italia con l’intento di dimostrare possibili violazioni delle normative internazionali in tema di esportazioni.
Armi italiane nel mondo: il mercato internazionale

Secondo la legge 185/90, le esportazioni sono vietate
«quando sono in contrasto con la Costituzione (che all’articolo 11 ripudia la guerra come mezzo per risolvere le crisi internazionali, ndr), con gli impegni internazionali dell’Italia, con gli accordi concernenti la non proliferazione e con i fondamentali interessi della sicurezza dello Stato, della lotta contro il terrorismo e del mantenimento di buone relazioni con altri Paesi, nonché quando mancano adeguate garanzie sulla definitiva destinazione dei materiali di armamento».

La realtà, però, è più complicata. Le condizioni politiche di un Paese non sono immutabili. Così finisce che armamenti venduti a un governo in tempo di pace diventino strumento di repressione o per attacchi contro civili. Quando un’arma viene venduta anche non direttamente a Paesi in guerra ma in aree ad alta instabilità, inoltre, è facile che finisca per alimentare i conflitti dell’area.

E qui si arriva a una delle palesi ipocrisie del mercato delle armi italiane e non solo: quando sono i governi che acquistano, c’è spesso dietro un interesse bellico o repressivo. Soprattutto quando i grossi ordini si ripetono negli anni, è difficile che gli armamenti servano per il sistema di difesa, mentre è più probabile che saranno usate per l’attacco o per fermare proteste

giovedì 24 gennaio 2019

La SeaWatch 3 con 47 migranti a bordo, in difficoltà cerca riparo nelle acque di Siracusa. Ma Salvini dice: "E' una provocazione"

Siracusa Oggi
Si trova nelle acque tra Siracusa e Portopalo la SeaWatch 3, nave ong olandese con 47 migranti a bordo. Si trova a poche miglia dalle coste siciliane. 


Le acque siracusane sono state considerate più tranquille dall’equipaggio della nave a causa del mare agitato e del maltempo.

Il ministro Salvini parla di “ennesima provocazione”. Il responsabile dell’Interno, rinnova la linea dura. “Dopo aver sostato per giorni in acque maltesi, la nave olandese Sea Watch3 si sta dirigendo verso l’Italia. Ribadisco che la nostra linea non cambia, né cambierà. Nessuno sbarcherà in Italia. Pronti a mandare medicine, viveri e ciò che dovesse servire ma i porti italiani sono e resteranno chiusi”.

Yemen: Onu, dopo 3 anni di conflitto, 19 milioni di persone (2/3 della popolazione) senza acqua potabile

AnsaMed
Diciannove milioni di persone in Yemen, circa due terzi della popolazione complessiva, non hanno accesso ad acqua potabile, secondo le Nazioni Unite. Lo riporta Al Jazeera.



In Yemen è in corso la peggior crisi umanitaria a causa del conflitto iniziato nel 2015 tra forze governative, sostenute dalla Coalizione Araba a guida saudita, e miliziani Houthi supportati dall'Iran.

Riportati il Libia nei centri di detenzione i 107 migranti "salvati" dal mercantile libico. Tra loro donne incinta e neonati e molti in condizioni critiche, alcuni sono morti

La Repubblica
Libia, migranti e rifugiati (anche neonati) riportati in centri di detenzione sovraffollati
Molti sono in condizioni critiche. Le testimonianze di Medici Senza Frontiere. Due giorni fa, 106 persone sono sbarcate a Khoms da una nave commerciale. Si teme che almeno 6 siano annegate. Ieri a Misurata altre 144 persone soccorse.



Nelle ultime due settimane, le équipe di Medici Senza Frontiere (MSF) in Libia hanno osservato un netto aumento del numero di persone trattenute nei centri di detenzione a Misurata e Khoms, dopo una serie di sbarchi che hanno visto rifugiati, migranti e richiedenti asilo intercettati o recuperati in mare e riportati sulle coste libiche, in piena violazione del diritto internazionale. Il numero di persone nei centri di detenzione dell’area è passato dai 650 all’inizio dell’anno ai 930 attuali.

I momenti dello sbarco a Khoms. Due giorni fa, 106 persone sono sbarcate a Khoms da una nave commerciale. Si teme che almeno 6 siano annegate mentre il gruppo tentava la traversata. “Allo sbarco, diverse persone avevano bisogno di cure urgenti e siamo intervenuti per fornire assistenza medica”, spiega Julien Raickman, responsabile delle attività di MSF a Misurata, Khoms e Bani Walid. MSF ha organizzato il trasferimento di 10 persone in un ospedale vicino, ma un ragazzo di 15 anni è morto poco dopo il ricovero. Ieri altre 144 persone soccorse da una nave mercantile sono sbarcate a Misurata.

Donne in stato di gravidanza e neonati. Tra le 250 persone sbarcate complessivamente a Misurata e Khoms, ci sono donne, di cui alcune incinte, neonati e bambini sotto i 7 anni, tutti trasferiti nei centri di detenzione dell’area. Solo pochi giorni prima, 117 persone sono annegate in un naufragio, un chiaro segno della deliberata negligenza da parte delle autorità europee nel garantire la necessaria capacità di ricerca e soccorso per salvare vite nel Mediterraneo centrale.

Ora nei centri sovraffollati di detenzione. Le persone riportate in Libia in questi giorni si trovano ora bloccate in sovraffollati centri di detenzione. La capacità di affrontare nuovi arrivi è al limite e questo peggiora ulteriormente le già drammatiche condizioni della detenzione. 

Le persone non hanno praticamente alcuna possibilità di uscire all’aria aperta e hanno scarso accesso ad acqua pulita e cibo. Il cibo è del tutto insufficiente e inadeguato a rispondere ai bisogni nutrizionali di persone in gravi condizioni mediche, donne e bambini. Tra le persone trattenute ci sono pazienti affetti da malnutrizione, ipotermia, diarrea. Alcuni raccontano che prima di tentare la traversata del Mediterraneo erano stati tenuti in cattività dai trafficanti per settimane, a volte mesi, senza cibo, sistematicamente abusati e torturati.


Venezuela, scontri dopo lʼautoproclamazione di Guaido: nove morti

TGCom24
Almeno nove persone sono morte in Venezuela nella repressione delle proteste antigovernative svoltesi in vari punti del Paese dopo l'autoproclamazione a presidente da parte di Juan Guaido. 



Le vittime sono state segnalate negli Stati di Barinas, Bolívar, Amazonas e a Caracas. Martedì erano rimaste uccise altre cinque persone. Scene di violenza anche a Maturin, dove gruppi di militanti chavisti hanno attaccato la sede locale di un partito oppositore.

mercoledì 23 gennaio 2019

Venezuela, Maduro «spodestato»: Trump riconosce Guaidó presidente ad interim.

Corriere della Sera
Il capo dell’Assemblea nazionale e leader dell’opposizione Juan Guaidó si è «autoproclamato presidente ad interim» in attesa di nuove elezioni rinnegando di fatto il governo Maduro. Al riconoscimento ufficiale di Trump si sono uniti Canada, Brasile e altri paesi del Sudamerica. Intanto scontri in piazza a Caracas tra polizia e manifestanti.

Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha ufficialmente riconosciuto Juan Guaidó presidente del Venezuela dopo che il presidente dell’Assemblea nazionale e leader dell’opposizione di Caracas ha giurato, autoproclamandosi presidente ad interim in attesa di nuove elezioni. 

«Oggi è una data storica per il nostro Paese - ha detto ricordando che il 23 gennaio del 1958 cadde la dittatura di Perez Jimenez - a tutte le forze Forze armate il nostro appello è molto chiaro, questo Parlamento vi tende la mano e vi chiede di mettervi al fianco della Costituzione e del popolo, il vostro popolo».

Maduro: «Siamo la maggioranza, il popolo di Chavez»
«Siamo la maggioranza, siamo il popolo di Hugo Chavez»: così il presidente venezuelano Nicolas Maduro — dal balcone — ha parlato ai suoi sostenitori accorsi davanti al palazzo presidenziale di Caracas. «Siamo in questo palazzo per volontà popolare, solo la gente ci può portare via, è in corso un colpo di stato», ha aggiunto, facendo appello ai suoi sostenitori perché si riuniscano davanti al palazzo Miraflores. «Concedo 72 ore ai diplomatici Usa perché lascino il Paese», ha aggiunto: «Dispongo di interrompere le relazioni diplomatiche e commerciali con il governo imperialista» di Washington. «Ci difenderemo a ogni costo, siamo in una battaglia storica, nessuno abbassi la guardia».


Il riconoscimento di Trump
Trump lanciato un appello a tutte le capitali occidentali, invitandole a seguire il suo esempio e a rinnegare il governo di Nicolas Maduro. Il primo Paese a seguire il presidente Usa è stato il Canada che si è dichiarato pronto a riconoscere subito Guaidó presidente del Venezuela. 

«I cittadini del Venezuela hanno sofferto troppo a lungo nelle mani del regime illegittimo di Maduro. Oggi ho ufficialmente riconosciuto il presidente dell'Assemblea nazionale venezuelana, Juan Guaidó , come presidente ad interim», ha scritto su Twitter il presidente Usa, che ha poi detto che «tutte le opzioni sono sul tavolo» nel caso in cui venisse «toccato» Guaidó. Anche il Brasile, la Colombia, il Perù, il Guatemala, l’Ecuador, l'Argentina, il Costa Rica, il Cile e il Paraguay hanno riconosciuto il presidente autoproclamato. Il Messico e la Bolivia, invece, hanno annunciato di riconoscere il governo del presidente Maduro e non quello dell'autoproclamato Guaidó. 

«Non saremo mai di nuovo un giardino degli Stati Uniti», ha scritto su Twitter il presidente della Bolivia, Evo Morales.

Tempesta sui campi profughi in Libano, a rischio circa 20 mila rifugiati, molti sono i bambini

La Repubblica
Una violenta tempesta si è abbattuta nei giorni scorsi sul Libano, allagando i campi e gli insediamenti dei rifugiati siriani. 


La tempesta “ Norma" ha lasciato centinaia di famiglie rifugiate al freddo e senza un riparo, mettendo a rischio soprattutto la vita dei bambini. Alcune tende sono crollate, altre sono completamente allagate. 

Sono 20 mila le persone a rischio che hanno urgente bisogno di assistenza. UNHCR è al lavoro per distribuire materassi, coperte e altri materiali per consentire a queste persone di sopravvivere al gelo.

La vita di moltissimi rifugiati siriani, già sfuggiti alla guerra, è adesso di nuovo in pericolo a causa delle inondazioni e del gelo.

Caritas Lombardia "Rispettiamo le istituzioni ma obbediamo alla nostra coscienza". Il "Decreto Sicurezza" taglia i fondi, ma i migranti continueranno a essere accolti nelle loro strutture.

Vita
Continueranno ad accogliere a proprie spese le circa 500 persone che in base alla nuova legge non hanno più diritto all'accoglienza e al relativo contributo. «Rispettiamo le istituzioni ma la nostra coscienza ci impone di andare oltre quanto previsto dallo Stato, per il bene dei nostri ospiti ma anche delle comunità che le accolgono, che si troverebbero a fare i conti con migranti abbandonati a loro stessi e quindi facile preda dei circuiti irregolari», ha detto Luciano Gualzetti

Non è una questione di soldi. «Rispettiamo le istituzioni e collaboriamo lealmente con loro, ma in questo caso la nostra coscienza ci impone di andare oltre quanto previsto dallo Stato, per il bene dei nostri ospiti ma anche delle comunità che le accolgono, che si troverebbero a fare i conti con migranti abbandonati a loro stessi e quindi facile preda dei circuiti irregolari, dentro i quali si annida ogni cosa», così Luciano Gualzetti, direttore della Caritas Ambrosiana e delegato regionale, ha dichiarato la scelta di campo delle Caritas della Lombardia rispetto al "decreto Salvini". 
I migranti che per effetto di quella legge perderanno il diritto a rimanere nei centri di accoglienza gestiti dalle Caritas della Lombardia, non saranno allontanati ma ci resteranno a totale carico degli organismi ecclesiali. Gualzetti ha comunicato la notizia ieri durante un convegno organizzato con l’associazione «Città dell’uomo».

Anche per chi ha diritto a rimanere nei Centri, le nuove convezioni con le Prefetture prevedono, come è noto, cifre più basse: le Caritas della Lombardia tuttavia continueranno a garantire a proprie spese i percorsi di integrazione, in particolare i corsi professionali e i tirocini in azienda. Inoltre continuerà l’impegno con Caritas Italiana per allargare l'accoglienza tramite i canali umanitari, che consentono ai migranti in condizione di grave vulnerabilità di arrivare in Italia senza dover affrontare i rischi delle traversate in mare, gestite dagli scafisti.

In Lombardia, stimano le Caritas, sono almeno 500 le persone che senza questa decisione, secondo la legge 132/18, sarebbero uscite dal sistema di protezione, in particolare titolari di permesso per motivi umanitari e chi avrà il nuovo permesso per protezione speciale che non prevede più l’ingresso nel nuovo sistema di accoglienza (ex Sprar).

Attualmente sono 4.514 i migranti presenti nelle strutture delle dieci diocesi lombarde sui 26.864 complessivamente accolti in Lombardia. Di questi 3.129 si trovano nei Centri di accoglienza straordinaria gestiti in convezione con le Prefetture, 847 negli Sprar dei Comuni, 163 nei centri per minori stranieri non accompagnati. Oltre la metà, 2.293, sono presenti nella rete di accoglienza diffusa della Diocesi di Milano, altri 1.204 nella Diocesi di Bergamo e il resto nelle diocesi di Brescia, Como, Crema, Cremona, Lodi, Mantova, Pavia, Vigevano.

Sudan - Amnesty: Asim Omer Khalifa studente condannato a morte, finalmente assolto. Si indaga sulle torture subite in carcere.

Blog Diritti Umani - Human Rights
Amnesty International riferisce che un tribunale sudanese ha assolto, Asim Omer Khalifa, uno studente accusato di aver ucciso un agente di polizia durante le proteste del 2016, dopo un primo processo in cui era stato condannato a morte.
Asim Omer Khalifa durante l'arresto
Membro del Partito del Popolo del Congresso del Popolo (PCP), attualmente membro della coalizione di governo, è stato condannato a morte nel settembre 2017. Il verdetto aveva scatenato una manifestazione studentesca davanti al tribunale, dispersa con gas lacrimogeni dalla polizia.

Una corte d'appello aveva ordinato un nuovo processo, e il 22 gennaio, il giudice ha assolto  lo studente.

Amnesty International ha accolto con favore il verdetto, invitando le autorità di condurre un'inchiesta sulle torture che Omer Asim avrebbe subito in carcere.
"Anche se Asim è stato assolto, la giustizia sarà piena solo dopo i responsabili saranno stati individuati", ha dichiarato Joan Nyanyuki, direttore di Amnesty International per l'Africa orientale. e il Corno d'Africa.

Dal 19 dicembre 2018, il Sudan, che sta vivendo una grave crisi economica è stato l'obiettivo di un'ondata di protesta anti-governativa, innescata dalla triplicazione del prezzo del pane.

ES

martedì 22 gennaio 2019

Migranti applicazione del "DecretoSicurezza": chiusura del Cara di Castelnuovo di Porto: centinaia dormiranno per strada preda della criminalità, bambini fuori dalla scuola e 120 italiani senza lavoro

Dire
“Quello che sta avvenendo nel Cara di Castelnuovo di Porto, dove c’è il secondo centro rifugiati più grande d’Italia, è qualcosa di indegno, che offende la nostra storia e i principi sanciti nella Costituzione italiana”. A sostenerlo è Alessio Pascucci, coordinatore nazionale di Italia in Comune e sindaco di Cerveteri.


“Il ministro dell’interno ha mandato l’esercito per sgomberare il centro rifugiati. Parliamo di una struttura che accoglie 320 persone che l’esercito, a quanto raccontano fonti locali, sta inspiegabilmente dividendo per uomini, donne e bambini”, attacca Pascucci.

“Un metodo vergognoso sul quale chiediamo subito chiarezza al governo nazionale. Trovo gravissimo che il sindaco della città, Riccardo Travaglini, al quale va tutta la nostra solidarietà, non sia stato avvisato e non abbia neppure diritto di conoscere che fine faranno queste persone. I migranti, avvisati solo poche ore fa, sono stati costretti ad abbandonare i propri alloggi dopo anni di integrazione. 


A Castelnuovo di Porto erano stati avviati progetti di integrazione e ora i bambini dovranno interrompere gli studi, così come chi aveva trovato un’occupazione dovrà lasciarla senza sapere quale sarà il suo futuro”, osserva il coordinatore di Italia in Comune.


“Tutto questo è il risultato di un decreto sicurezza che renderà le nostre città più insicure, creando nuovi irregolari e mandando a monte modelli di integrazione come quello alle porte di Roma. Tutto per l’ennesimo selfie trionfante di un Ministro che usa l’arma degli sgomberi solo con i più deboli, mentre quando si tratta di cacciare i suoi amici fascisti di Casapound che occupano sedi pubbliche con il partito, finge di non sapere”, conclude Pascucci.

Un altro giornalista assassinato in Messico, Jose Rafael Murua Manriquez: era il direttore di una radio locale

Globalist
Jose Rafael Murua Manriquez è stato trovato in un cespuglio sul bordo di una strada nella località di Mulege. Aveva ricebuto minacce ma non gli avevano dato la protezione.
La stampa non è davvero libera nel Messico, paese nel quale i narcos e i loro protettori istituzionali e politici non gradiscono troppo che qualcuno parli dei loro traffici: c'è stato un altri giornalista ucciso in Messico. L'ufficio del procuratore dello stato settentrionale della Baja California Sur ha annunciato che ieri il corpo di Jose Rafael Murua Manriquez, 34enne direttore di una radio locale, è stato trovato nei cespuglio sul bordo di una strada nella località di Mulege.

Poche ore prima la famiglia aveva denunciato la scomparsa del giornalista che sabato sera era uscito per una passeggiata e non aveva mai fatto ritorno a casa.
Jan-Albert Hootsen, rappresentante messicano del Comitato per la protezione dei giornalisti, ha reso noto oggi che Murua aveva ricevuto minacce lo scorso novembre e per questo gli era stata data una protezione.

Il flusso migratorio in Italia è causato dal neo-colonialismo francese? Solo il 9% degli immigrati sbarcati in Italia nel 2018 vengono da paesi che utilizzano (volontariamente) il FrancoCfa

Blog Diritti Umani - Human Rights
I numeri dell'immigrazione dai paesi Franco Cfa
La valuta Franco Cfa è presente in alcuni paesi africani, non tutti, per la precisione Camerun, Repubblica Centrafricana, Ciad, Repubblica del Congo, Guinea Equatorial, Gabon, Benin, Burkina Faso, Guinea-Bissau, Costa d'Avorio, Mali, Niger, Senegal e Togo. Secondo i dati pubblicati dal Ministero dell'Interno il 18 gennaio 2019, con dati aggiornati al 31 dicembre 2018, tra le nazionalità dei 23.370 migranti sbarcati in Italia troviamo al massimo la Costa d'Avorio (1.064) e il Mali (876), mentre bisogna fare attenzione a non confondere nella tabella la Guinea (che possiede il Franco guineiano, creato dopo l'uscita dal Franco CFA nel 1959) con le altre due, la Guinea Equatorial e la Guinea-Bissau.

Fonte: Open OnLine - Ministero dell'Interno

lunedì 21 gennaio 2019

Migranti, il dossier di Human Rights Watch: "Libia un inferno senza uscita". Ipocrisia dell'Europa, fingere che la Libia offra condizioni dignitose ai migranti

La Repubblica
La denuncia dell'associazione: "Lì abusi e terrore che proprio le politiche dell’Italia e dell’Ue hanno contribuito a creare”.
“Un inferno senza uscita”. Questa è la condizione dei migranti in Libia. La stessa che si troveranno a vivere di nuovo anche i cento salvati la scorsa notte, dopo un soccorso lanciato solo per le pressioni di Palazzo Chigi, ora diretti a Misurata.


Ma un dossier di Human Rights Watch ricorda a tutti la grande ipocrisia dell’Europa: fingere che la Libia offra condizioni dignitose ai migranti. No, in quel Paese c’è “un ciclo estremo di abuso che proprio le politiche dell’Italia e dell’Ue hanno contribuito a creare”.
Human Rights Watch documenta i gironi di questo inferno. Una grave sovrappopolazione carceraria, mancanza di igiene, malnutrizione, assenza di cure sanitarie adeguate. “Gravi violenze sono state registrate in quattro centri di detenzione nell’ovest del Paese, incluse percosse e frustate”. 

Non sono deduzioni, non sono notizie di seconda mano ma il risultato delle ispezioni condotte sul campo. Che hanno messo in luce la situazione disperata in cui sopravvivono decine di bambini, compresi alcuni neonati, “costretti in locali spartani e inadeguati in tre dei quattro centri visitati”. Quelle piccole vittime non sono un’eccezione: il 20 per cento degli arrivi totali in Europa dalla Libia è rappresentato da bambini.
“Migranti e richiedenti asilo detenuti in Libia, anche bambini, sono intrappolati in un incubo - afferma Judith Sunderland, condirettrice per l’Europa di Hrw - e i governi dell'Ue non fanno che perpetuare questo stato di cose, invece di sottrarre i migranti agli abusi”. “Mettere toppe per migliorare le condizioni in cui si trovano - aggiunge - non assolvono l'Ue dalla responsabilità di aver consentito in prima battuta un sistema barbaro di detenzione”.
Alla denuncia dell’organizzazione umanitaria, la Commissione europea ha risposto che “il suo dialogo con le autorità libiche è concentrato sul rispetto dei diritti umani di migranti e rifugiati. Ci sono stati concreti miglioramenti, pur permanendo altre sfide”.

Ma parlare di autorità libiche è un eufemismo. Tutta la Cirenaica, da dove partono i barconi verso l’Europa, è nel caos. Persino a Tripoli si è combattuto per l’intera scorsa settimana, con lanci di razzi e cannonate che hanno ucciso tredici persone e lasciato a terra 52 feriti. Il governo riconosciuto dalle Nazioni Unite appare sempre più fragile, sgretolato dalle faide interne. 

E nel Paese c’è un solo potere: quello delle milizie. Le stesse che spesso si arricchiscono con il doppiogioco: gestiscono il traffico di migranti e poi incassano gli aiuti europei per fermarlo. 

Aprono e chiudono il rubinetto degli imbarchi secondo il loro tornaconto, trattando gli esseri umani come merce da sfruttare al massimo. “Le milizie hanno terrorizzato sia i libici che i migranti mentre nessuna autorità osa tenergli testa ed assicurare giustizia”, ha detto Hanan Salah, ricercatrice esperta sulla Libia a Human Rights Watch.