Le armi italiane nel mondo, vendute all'estero anche in tempo di pace, finiscono per alimentare conflitti, in contrasto con quanto prevede la legge. Lo svela Italian Arms, un gruppo di ricercatori e giornalisti che sta tracciando chi utilizza le armi lecitamente esportate dall'Italia.
Un gruppo di giornalisti – tra cui l’autore di questo articolo – e di ricercatori, Italian Arms,sta tracciando gli effettivi utilizzatori finali delle armi autorizzate ad uscire dall’Italia con l’intento di dimostrare possibili violazioni delle normative internazionali in tema di esportazioni.
Armi italiane nel mondo: il mercato internazionale
Secondo la legge 185/90, le esportazioni sono vietate
«quando sono in contrasto con la Costituzione (che all’articolo 11 ripudia la guerra come mezzo per risolvere le crisi internazionali, ndr), con gli impegni internazionali dell’Italia, con gli accordi concernenti la non proliferazione e con i fondamentali interessi della sicurezza dello Stato, della lotta contro il terrorismo e del mantenimento di buone relazioni con altri Paesi, nonché quando mancano adeguate garanzie sulla definitiva destinazione dei materiali di armamento».
La realtà, però, è più complicata. Le condizioni politiche di un Paese non sono immutabili. Così finisce che armamenti venduti a un governo in tempo di pace diventino strumento di repressione o per attacchi contro civili. Quando un’arma viene venduta anche non direttamente a Paesi in guerra ma in aree ad alta instabilità, inoltre, è facile che finisca per alimentare i conflitti dell’area.
E qui si arriva a una delle palesi ipocrisie del mercato delle armi italiane e non solo: quando sono i governi che acquistano, c’è spesso dietro un interesse bellico o repressivo. Soprattutto quando i grossi ordini si ripetono negli anni, è difficile che gli armamenti servano per il sistema di difesa, mentre è più probabile che saranno usate per l’attacco o per fermare proteste
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