Globalist
I rumors di Nairobi, sempre più chiassosi, raccontano di inquirenti che non sanno bene cosa fare e dove cercare.
Il 20 novembre 2018 Silvia Romano è stata rapita in Kenya nel villaggio di Chakama, a 80 chilometri da Malindi. Angelo Ferrari lo racconta bene sull'Agi.it: giorni in cui si sono alternate speranze, delusioni, silenzi e proclami che celavano una qualche certezza. Sembrava configurarsi come un rapimento lampo per la natura della banda composta da criminali comuni, almeno così la pensavano le autorità di polizia del Kenya.
E invece si sta rivelando qualcosa di più. La polizia ha parlato l'ultima volta il 21 gennaio, spiegando di essere certa che Silvia fosse ancora in Kenya, dunque sarebbe ancora nascosta nella boscaglia del Tana River con la complicità della popolazione locale.
Dopo 90 giorni tre sono le domande che inquietano: in Kenya si sta indagando? I criminali che l'hanno rapita hanno chiesto un riscatto? In Kenya si sta trattando per la liberazione della cooperante italiana? Le risposte possono essere date solo dalla polizia del Kenya e dalle autorità italiane. Entrambe, però, tacciono. Ma ancora.
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giovedì 28 febbraio 2019
Afghanistan, quasi 11000 vittime civili nel 2018 e l'Europa continua ad organizzare rimpatri forzati nel “paese sicuro”
Corriere della Sera
Il rapporto annuale “Protezione dei civili nei conflitti armati” pubblicato due giorni fa dalla Missione Onu di assistenza in Afghanistan può essere riassunto in un terrificante numero a cinque cifre.
Nel 2018 le vittime civili sono state 10.993: 3804 morti e 7189 feriti.
Dei 3804 morti, 927 erano minorenni, molti dei quali in tenera età: un dato senza precedenti da quando l’Unama pubblica i suoi rapporti sulle vittime civili in Afghanistan.
L’aumento del numero delle vittime civili è dipeso in larga parte dagli attacchi dei gruppi armati anti-governativi, come i Talebani e lo Stato islamico della provincia del Khorasan. Ma non solo: il 2018 è stato l’anno record delle vittime causate tanto da attentati suicidi quanto da attacchi aerei.
Dati scioccanti, cui dobbiamo aggiungere l’amara considerazione che i feriti e le famiglie degli uccisi raramente otterranno giustizia.
Eppure, come abbiamo più volte denunciato in questo blog, l’Europa continua a organizzare i rimpatri forzati degli afgani.
Alla parola “vergogna”, c’è poco altro da aggiungere.
Riccardo Noury
Il rapporto annuale “Protezione dei civili nei conflitti armati” pubblicato due giorni fa dalla Missione Onu di assistenza in Afghanistan può essere riassunto in un terrificante numero a cinque cifre.
Nel 2018 le vittime civili sono state 10.993: 3804 morti e 7189 feriti.
Dei 3804 morti, 927 erano minorenni, molti dei quali in tenera età: un dato senza precedenti da quando l’Unama pubblica i suoi rapporti sulle vittime civili in Afghanistan.
L’aumento del numero delle vittime civili è dipeso in larga parte dagli attacchi dei gruppi armati anti-governativi, come i Talebani e lo Stato islamico della provincia del Khorasan. Ma non solo: il 2018 è stato l’anno record delle vittime causate tanto da attentati suicidi quanto da attacchi aerei.
Dati scioccanti, cui dobbiamo aggiungere l’amara considerazione che i feriti e le famiglie degli uccisi raramente otterranno giustizia.
Eppure, come abbiamo più volte denunciato in questo blog, l’Europa continua a organizzare i rimpatri forzati degli afgani.
Alla parola “vergogna”, c’è poco altro da aggiungere.
"Prima gli italiani", ma non devono avere l'Alzheimer. Il comune di Roma taglia i fondi già insufficienti per la loro assistenza
santegidio.org
Tutti gli studi scientifici rilevano una costante crescita del numero delle persone affette da Alzheimer, patologia che è stata definita in un rapporto 2012 dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) e dell’Alzheimer’s Disease International (ADI) «una priorità mondiale di salute pubblica».
Basti pensare che su tutto il territorio romano solo 59 persone, nel 2017, usufruivano di un’assistenza domiciliare specifica. I centri diurni (servizi semiresidenziali) fino all’anno scorso potevano accogliere circa 540 persone alla settimana. Con la nuova organizzazione tale disponibilità viene ridotta di quasi un quinto. Si tratta di circa 100 anziani che non potranno più accedere ai centri diurni. Con quali alternative?
Nella nuova organizzazione del 2018 è stata introdotta la possibilità per alcuni anziani, dimessi dai Centri Diurni perché considerati troppo gravi, di usufruire dell’assistenza domiciliare, erogata però solo per due mesi, quando ovviamente si tratta di persone che continueranno anche dopo ad avere bisogno di cure. Va inoltre sottolineato che si possono contare sulla punta delle dita i pochissimi fortunati che sono riusciti ad accedere ai fondi previsti per la disabilità gravissima.
Proprio nel momento di maggiore necessità e fragilità, i malati rimangono quindi, in grandissima maggioranza, assistiti solo dai familiari, talvolta unicamente dal coniuge, spesso anziano. Chi ha risorse economiche, ricorre all’aiuto di un assistente familiare, per gli altri l’unica soluzione resta l’istituzionalizzazione con tutte le conseguenze negative che questa comporta per il malato e la sua famiglia e con i costi che impone, sempre più insostenibili, per i conti pubblici.
Riteniamo che di fronte al grande allarme espresso dalla comunità scientifica sulla diffusione di questa malattia le scelte compiute non possono certo rappresentare una risposta assistenziale appropriata.
Sarebbe invece opportuno chiedersi quali risorse economiche, interventi, professionalità, idee mettere in campo per sostenere con urgenza i cittadini affetti da Alzheimer e le loro famiglie nel percorso difficile di una malattia che li mette a dura prova. Un compito che dovrebbe riguardare in primo luogo chi, per dovere istituzionale, è preposto a programmare interventi sociali appropriati.
Tutti gli studi scientifici rilevano una costante crescita del numero delle persone affette da Alzheimer, patologia che è stata definita in un rapporto 2012 dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) e dell’Alzheimer’s Disease International (ADI) «una priorità mondiale di salute pubblica».
In Italia si contano circa seicentomila persone affette da questa malattia, il 4% degli over 65. Secondo il Rapporto sullo Stato di Salute della popolazione della Regione Lazio si stima che i casi di Alzheimer e di altre forme di demenza siano intorno ai 35.000, a Roma circa 14.600 (secondo uno studio di The European House-Ambrosetti e Msd, pubblicato il 18/07/2017).
Di fronte alla crescente diffusione di questa malattia - che richiede cure di alta specializzazione e che vede le famiglie accollarsi il maggiore impegno assistenziale - la Comunità di Sant’Egidio rileva, con preoccupazione e allarme, una riduzione, da parte dell’Assessorato alla Persona, Scuola e Comunità Solidale del Comune di Roma, delle prestazioni, già del tutto insufficienti, rivolte a questa fascia di persone.
Basti pensare che su tutto il territorio romano solo 59 persone, nel 2017, usufruivano di un’assistenza domiciliare specifica. I centri diurni (servizi semiresidenziali) fino all’anno scorso potevano accogliere circa 540 persone alla settimana. Con la nuova organizzazione tale disponibilità viene ridotta di quasi un quinto. Si tratta di circa 100 anziani che non potranno più accedere ai centri diurni. Con quali alternative?
Nella nuova organizzazione del 2018 è stata introdotta la possibilità per alcuni anziani, dimessi dai Centri Diurni perché considerati troppo gravi, di usufruire dell’assistenza domiciliare, erogata però solo per due mesi, quando ovviamente si tratta di persone che continueranno anche dopo ad avere bisogno di cure. Va inoltre sottolineato che si possono contare sulla punta delle dita i pochissimi fortunati che sono riusciti ad accedere ai fondi previsti per la disabilità gravissima.
Proprio nel momento di maggiore necessità e fragilità, i malati rimangono quindi, in grandissima maggioranza, assistiti solo dai familiari, talvolta unicamente dal coniuge, spesso anziano. Chi ha risorse economiche, ricorre all’aiuto di un assistente familiare, per gli altri l’unica soluzione resta l’istituzionalizzazione con tutte le conseguenze negative che questa comporta per il malato e la sua famiglia e con i costi che impone, sempre più insostenibili, per i conti pubblici.
Riteniamo che di fronte al grande allarme espresso dalla comunità scientifica sulla diffusione di questa malattia le scelte compiute non possono certo rappresentare una risposta assistenziale appropriata.
Sarebbe invece opportuno chiedersi quali risorse economiche, interventi, professionalità, idee mettere in campo per sostenere con urgenza i cittadini affetti da Alzheimer e le loro famiglie nel percorso difficile di una malattia che li mette a dura prova. Un compito che dovrebbe riguardare in primo luogo chi, per dovere istituzionale, è preposto a programmare interventi sociali appropriati.
mercoledì 27 febbraio 2019
Messaggio del Papa al "7° Congresso mondiale contro la Pena di Morte": "E' una grave violazione del diritto alla vita di ogni persona. Non vengano eliminate altre vite, si offra la via del pentimento"
Vatican News
Il Papa, in un videomessaggio, esorta i governanti e tutti coloro che hanno responsabilità nei loro Paesi “a compiere i passi necessari verso la totale abolizione della pena di morte”.
La dignità della persona non si perde mai, anche quando si commette “il peggiore dei crimini”. La vita è un dono da proteggere ed è “fonte di tutti gli altri doni e di tutti gli altri diritti”. “La convinzione di offrire anche al colpevole la possibilità di pentimento non può essere mai abbandonata”. Indicando questa triplice prospettiva, quella della dignità della persona, del dono della vita e della possibilità di pentimento, Papa Francesco rinnova, in un videomessaggio, il proprio appello per la totale abolizione della pena capitale. L’occasione è il settimo Congresso mondiale contro la pena di morte, apertosi oggi a Bruxelles nella sede del Parlamento europeo.
Il Papa, in un videomessaggio, esorta i governanti e tutti coloro che hanno responsabilità nei loro Paesi “a compiere i passi necessari verso la totale abolizione della pena di morte”.
La dignità della persona non si perde mai, anche quando si commette “il peggiore dei crimini”. La vita è un dono da proteggere ed è “fonte di tutti gli altri doni e di tutti gli altri diritti”. “La convinzione di offrire anche al colpevole la possibilità di pentimento non può essere mai abbandonata”. Indicando questa triplice prospettiva, quella della dignità della persona, del dono della vita e della possibilità di pentimento, Papa Francesco rinnova, in un videomessaggio, il proprio appello per la totale abolizione della pena capitale. L’occasione è il settimo Congresso mondiale contro la pena di morte, apertosi oggi a Bruxelles nella sede del Parlamento europeo.
Nessuno può essere uccisoPapa Francesco ricorda che “per proteggere la società dal male che alcuni individui possono causare”, la soluzione non è la pena capitale. Questa non può essere considerata, come è avvenuto “per molto tempo”, “la risposta adeguata alla gravità di alcuni reati a tutela del bene comune”. Il Papa indica poi una porta che non si può mai chiudere: “Nessuno può essere ucciso e privato dell'opportunità di abbracciare nuovamente la comunità che ha ferito e fatto soffrire”. La pena di morte, aggiunge, è “una grave violazione del diritto alla vita di ogni persona”.
Vite da guadagnare per il bene della società
Il Papa osserva anche che ci sono dati incoraggianti: è un fattore positivo, sottolinea, “il fatto che sempre più Paesi scommettano sulla vita e non sulla pena di morte o addirittura l'abbiano completamente eliminata dalla loro legislazione penale”. Per continuare a procedere in questa direzione, Papa Francesco esorta a “riconoscere la dignità di ogni persona” e a “lavorare in modo che non vengano eliminate altre vite, ma guadagnate per il bene della società nel suo complesso”.
Inammissibilità della pena di morte
Il Papa ricorda anche che, recentemente, ha approvato una modifica al testo del Catechismo della Chiesa cattolicarelativo alla pena capitale. “La Chiesa insegna alla luce del Vangelo - si legge tra l’altro in questo documento - che la pena di morte è inammissibile perché attenta all’inviolabilità e dignità della persona e si impegna con determinazione per la sua abolizione in tutto il mondo”.
Riparare il danno commesso
Nel videomessaggio, Francesco lega questa inammissibilità anche ad una possibile e decisiva trasformazione interiore: “L'obiettivo dell'abolizione della pena di morte in tutto il mondo - conclude il Pontefice - rappresenta una coraggiosa affermazione del principio della dignità della persona umana e della convinzione che l'umanità può affrontare il crimine, oltre che rifiutare il male, offrendo al condannato la possibilità e il tempo per riparare il danno commesso, pensare alla sua azione e quindi essere in grado di cambiare la sua vita, almeno internamente”.
Il Papa osserva anche che ci sono dati incoraggianti: è un fattore positivo, sottolinea, “il fatto che sempre più Paesi scommettano sulla vita e non sulla pena di morte o addirittura l'abbiano completamente eliminata dalla loro legislazione penale”. Per continuare a procedere in questa direzione, Papa Francesco esorta a “riconoscere la dignità di ogni persona” e a “lavorare in modo che non vengano eliminate altre vite, ma guadagnate per il bene della società nel suo complesso”.
Inammissibilità della pena di morte
Il Papa ricorda anche che, recentemente, ha approvato una modifica al testo del Catechismo della Chiesa cattolicarelativo alla pena capitale. “La Chiesa insegna alla luce del Vangelo - si legge tra l’altro in questo documento - che la pena di morte è inammissibile perché attenta all’inviolabilità e dignità della persona e si impegna con determinazione per la sua abolizione in tutto il mondo”.
Riparare il danno commesso
Nel videomessaggio, Francesco lega questa inammissibilità anche ad una possibile e decisiva trasformazione interiore: “L'obiettivo dell'abolizione della pena di morte in tutto il mondo - conclude il Pontefice - rappresenta una coraggiosa affermazione del principio della dignità della persona umana e della convinzione che l'umanità può affrontare il crimine, oltre che rifiutare il male, offrendo al condannato la possibilità e il tempo per riparare il danno commesso, pensare alla sua azione e quindi essere in grado di cambiare la sua vita, almeno internamente”.
Pena di morte abolita in 142 Stati
In totale, sono 142 gli Stati che per legge, o nella pratica, hanno abolito la pena di morte. Nel mondo sono quasi 22 mila i detenuti condannati alla pena capitale. Nell’ultimo rapporto sulla pena di morte curato da Amnesty International, si sottolinea che nel 2017 le esecuzioni registrate nel mondo sono state 993. Sono stati inoltre 23 i Paesi in cui sono state eseguite pene capitali. Solo in Iran si è registrato, nel 2017, il 51% di tutte le esecuzioni. Dopo l’Iran, altri Paesi in cui si è registrato il maggior numero di esecuzioni capitali sono Arabia Saudita, Iraq e Pakistan.
In totale, sono 142 gli Stati che per legge, o nella pratica, hanno abolito la pena di morte. Nel mondo sono quasi 22 mila i detenuti condannati alla pena capitale. Nell’ultimo rapporto sulla pena di morte curato da Amnesty International, si sottolinea che nel 2017 le esecuzioni registrate nel mondo sono state 993. Sono stati inoltre 23 i Paesi in cui sono state eseguite pene capitali. Solo in Iran si è registrato, nel 2017, il 51% di tutte le esecuzioni. Dopo l’Iran, altri Paesi in cui si è registrato il maggior numero di esecuzioni capitali sono Arabia Saudita, Iraq e Pakistan.
Amedeo Lomonaco – Città del Vaticano
Guerre dimenticate - Yemen: Oxfam, bambine date in spose per comprare cibo.
ANSAmed
A quasi quattro anni dall'inizio della guerra in Yemen, l'aumento esponenziale dei prezzi dei beni alimentari, unito alla mancanza di fonti di reddito, sta costringendo la popolazione a misure disperate per poter sopravvivere.
E' l'allarme lanciato oggi da Oxfam, in occasione della conferenza dei paesi donatori sulla crisi in programma oggi a Ginevra. Di fronte, una vera e propria catastrofe umanitaria, con quasi 10 milioni di persone sull'orlo della carestia. Le prime a farne le spese sono le bambine.
Nel Governatorato di Amran nel nord del Paese, ad esempio, tante famiglie stremate, rimaste senza cibo e senza una casa, arrivano al punto di dare in matrimonio figlie anche piccolissime, in un caso anche di tre anni, per poter comprare cibo e salvare il resto della famiglia.
Nel Governatorato di Amran nel nord del Paese, ad esempio, tante famiglie stremate, rimaste senza cibo e senza una casa, arrivano al punto di dare in matrimonio figlie anche piccolissime, in un caso anche di tre anni, per poter comprare cibo e salvare il resto della famiglia.
Una pratica quella dei matrimoni precoci, che seppur per lungo tempo è stata abituale in Yemen, adesso sta raggiungendo, nell'indifferenza del mondo, proporzioni e modalità scioccanti.
"L'incontro dei donatori a Ginevra oggi è fondamentale per assicurare al popolo dello Yemen cibo, acqua e medicine - ha detto Paolo Pezzati, policy advisor per le emergenze umanitarie di Oxfam Italia -.
"L'incontro dei donatori a Ginevra oggi è fondamentale per assicurare al popolo dello Yemen cibo, acqua e medicine - ha detto Paolo Pezzati, policy advisor per le emergenze umanitarie di Oxfam Italia -.
Ma solo la fine della guerra potrà arrestare la spirale di disperazione, che induce migliaia di famiglie a scelte drammatiche. Tutte le parti in conflitto e i loro sostenitori devono impegnarsi ad un cessate il fuoco in tutto il paese, compiere passi concreti verso una pace duratura".
Lesotho: manca acqua potabile, arresto della crescita per un bambino su tre
Osservatorio Diritti
La prima visita dell'Onu in Lesotho punta sull'assenza di acqua potabile e di servizi igienico-sanitari. A rischio sono in particolare le persone affette da Hiv e i bambini.
«La mancanza di servizi legati all’acqua potabile e igiene sanitaria aumenta la vulnerabilità della popolazione, in particolare per quelli già a rischio, quali orfani, persone affette da Hiv/ Aids, famiglie guidate da donne, contadine rurali e persone che vivono in aree remote».
Sono le parole di Léo Heller, relatore speciale sui diritti umani per l’acqua potabile e le strutture igienico sanitarie delle Nazioni Unite, a seguito della prima visita effettuata in Lesotho,paese dell’Africa sudorientale.
«Realizzare il diritto umano all’igiene – sono le parole di Heller – significa che le ragazze non smetteranno di andare a scuola perché non possono permettersi di comprare gli assorbenti. Significa anche che i bambini sotto i cinque anni non dovrebbero defecare all’aperto di fronte ai loro coetanei. Che le donne non dipendano da un secchio d’acqua riempito in un pozzo lontano e non protetto. Ma, cosa più importante, significa che potrebbero diventare autonomi ed emancipati».
Da qui la possibilità, richiesta dal relatore Heller, di istituire una Commissione nazionale per i diritti umani nel Lesotho. «Spero – dice – che la Commissione sia presto costituita con un mandato per supervisionare le questioni relative ai diritti economici, sociali e culturali e intraprendere la sua funzione di controllo con indipendenza e autonomia per far rispettare tali diritti».
La prima visita dell'Onu in Lesotho punta sull'assenza di acqua potabile e di servizi igienico-sanitari. A rischio sono in particolare le persone affette da Hiv e i bambini.
«La mancanza di servizi legati all’acqua potabile e igiene sanitaria aumenta la vulnerabilità della popolazione, in particolare per quelli già a rischio, quali orfani, persone affette da Hiv/ Aids, famiglie guidate da donne, contadine rurali e persone che vivono in aree remote».
Sono le parole di Léo Heller, relatore speciale sui diritti umani per l’acqua potabile e le strutture igienico sanitarie delle Nazioni Unite, a seguito della prima visita effettuata in Lesotho,paese dell’Africa sudorientale.
«Realizzare il diritto umano all’igiene – sono le parole di Heller – significa che le ragazze non smetteranno di andare a scuola perché non possono permettersi di comprare gli assorbenti. Significa anche che i bambini sotto i cinque anni non dovrebbero defecare all’aperto di fronte ai loro coetanei. Che le donne non dipendano da un secchio d’acqua riempito in un pozzo lontano e non protetto. Ma, cosa più importante, significa che potrebbero diventare autonomi ed emancipati».
Da qui la possibilità, richiesta dal relatore Heller, di istituire una Commissione nazionale per i diritti umani nel Lesotho. «Spero – dice – che la Commissione sia presto costituita con un mandato per supervisionare le questioni relative ai diritti economici, sociali e culturali e intraprendere la sua funzione di controllo con indipendenza e autonomia per far rispettare tali diritti».
Acqua e servizi igienico-sanitari, la storia di Palesa
Nella sua relazione conclusiva, Heller porta all’attenzione la storia di una ragazza del Lesotho, Palesa.Una storia che rappresenta una realtà diffusa, che dà il senso di quanto si consuma nel paese africano ai danni della sua popolazione.
Palesa è una ragazza che vive nella zona rurale montuosa del Lesotho. La madre era sieropositiva e ha dovuto assumere farmaci per proteggere Palesa dalla trasmissione del virus. Ma aveva bisogno di acqua pulita per assumere le medicine e per la sua alimentazione, e mentre il padre di Palesa era al lavoro, la madre incinta doveva camminare per lunghe distanze per andare a prendere acqua e trasportare secchi pesanti, mettendo anche a rischio la gravidanza.
All’età di 5 anni, i genitori di Palesa non potevano permettersi di avere accesso a acqua pulita e prodotti per l’igiene, e Palesa soffriva spesso di diarrea. Ha sofferto di arresto della crescita, così come circa un terzo dei bambini in Lesotho.
Quando cresceva, Palesa non aveva un bagno al suo asilo e defecava all’aperto, dove tutti i suoi coetanei la vedevano seminuda. Quando aveva 15 anni, i genitori morirono e si ritrovò sola a prendersi cura di suo fratello e sua sorella e fare le faccende domestiche. Era difficile per Palesa seguire le lezioni perché non aveva il tempo di fare i compiti mentre doveva andare a prendere l’acqua.
«La storia di Palesa – dice il relatore Onu – è basata su un personaggio immaginario, ma la sua storia non è una finzione. Lo sviluppo umano non diventerà mai reale fino a quando i diritti umani all’acqua e ai servizi igienico-sanitari saranno ignorati».
Aids e arresto della crescita: in Lesotho manca l’acqua
In Lesotho l’acqua, i servizi igienici e l’igiene sono fattori guida e moltiplicatori di vulnerabilità, con conseguenze negative sullo sviluppo umano. Infatti, l’indice di sviluppo umano del Lesotho è stimato a 0,520 per il 2017, che rientra nella categoria di basso sviluppo umano.
Il personaggio immaginario, la madre di Palesa, rappresenta il 25% della popolazione che vive affetta da Hiv nel Lesotho, che si classifica – con questi numeri – al secondo posto nel mondo in termini di prevalenza del virus.
Nella sua relazione conclusiva, Heller porta all’attenzione la storia di una ragazza del Lesotho, Palesa.Una storia che rappresenta una realtà diffusa, che dà il senso di quanto si consuma nel paese africano ai danni della sua popolazione.
Palesa è una ragazza che vive nella zona rurale montuosa del Lesotho. La madre era sieropositiva e ha dovuto assumere farmaci per proteggere Palesa dalla trasmissione del virus. Ma aveva bisogno di acqua pulita per assumere le medicine e per la sua alimentazione, e mentre il padre di Palesa era al lavoro, la madre incinta doveva camminare per lunghe distanze per andare a prendere acqua e trasportare secchi pesanti, mettendo anche a rischio la gravidanza.
All’età di 5 anni, i genitori di Palesa non potevano permettersi di avere accesso a acqua pulita e prodotti per l’igiene, e Palesa soffriva spesso di diarrea. Ha sofferto di arresto della crescita, così come circa un terzo dei bambini in Lesotho.
Quando cresceva, Palesa non aveva un bagno al suo asilo e defecava all’aperto, dove tutti i suoi coetanei la vedevano seminuda. Quando aveva 15 anni, i genitori morirono e si ritrovò sola a prendersi cura di suo fratello e sua sorella e fare le faccende domestiche. Era difficile per Palesa seguire le lezioni perché non aveva il tempo di fare i compiti mentre doveva andare a prendere l’acqua.
«La storia di Palesa – dice il relatore Onu – è basata su un personaggio immaginario, ma la sua storia non è una finzione. Lo sviluppo umano non diventerà mai reale fino a quando i diritti umani all’acqua e ai servizi igienico-sanitari saranno ignorati».
Aids e arresto della crescita: in Lesotho manca l’acqua
In Lesotho l’acqua, i servizi igienici e l’igiene sono fattori guida e moltiplicatori di vulnerabilità, con conseguenze negative sullo sviluppo umano. Infatti, l’indice di sviluppo umano del Lesotho è stimato a 0,520 per il 2017, che rientra nella categoria di basso sviluppo umano.
Il personaggio immaginario, la madre di Palesa, rappresenta il 25% della popolazione che vive affetta da Hiv nel Lesotho, che si classifica – con questi numeri – al secondo posto nel mondo in termini di prevalenza del virus.
Felicia Buonomo
martedì 26 febbraio 2019
Un abbraccio e il perdono: Yacoubou Ibrahim, il migrante aggredito al rione Sanità incontra i baby aggressori
Fanpage
Incredibile e commovente epilogo dell’aggressione ad un mediatore culturale di colore, avvenuta qualche giorno fa al rione Sanità. I ragazzini che avevano spruzzato spray urticante negli occhi di Yacoubou Ibrahim, facendolo cadere rovinosamente, sono stati rintracciati dalle forze dell’ordine.
Yacoubou Ibrahim quando era stato aggredito con uno spray urticante, nel pieno del rione Sanità a Napoli, era stato molto chiaro: intervistato da Fanpage.it aveva detto che non credeva ad una aggressione di stampo razzista. Oggi, di questa storia, c'è stato un epilogo che non solo conferma le sue ragioni ma riafferma anche un altro principio: che c'è bisogno più di ascolto che di rabbia, più di reciproca comprensione che di ostilità.
Incredibile e commovente epilogo dell’aggressione ad un mediatore culturale di colore, avvenuta qualche giorno fa al rione Sanità. I ragazzini che avevano spruzzato spray urticante negli occhi di Yacoubou Ibrahim, facendolo cadere rovinosamente, sono stati rintracciati dalle forze dell’ordine.
Ma l’uomo li ha voluti incontrare e perdonare. Si tratta di due bambini di 10 e 13 anni che si sono presentati con un disegno: “Scusaci, non siamo una baby gang”.
Cos'è accaduto? Qualche giorno dopo l'aggressione dell'uomo, le forze dell'ordine si sono messe sulle tracce dei ragazzini. E li hanno trovati senza grande sforzo. Ma la storia è andata diversamente da un epilogo teoricamente già scritto. Yacoubou Ibrahim, che di mestiere fa il mediatore culturale e ha contatti con educatori del territorio e parroci, ha chiesto di incontrarli, i ragazzini.
E cosi i due sono presentati in chiesa, alla San Severo, e si sono mostrati per quelli che sono: birbanti che avevano fatto un pessimo gesto. Hanno portato un disegno. E lui li ha abbracciati. "Assieme agli educatori del territorio e ai parroci ci siamo messi alla ricerca di questi ragazzini, ci abbiano parlato, abbiamo ascoltato le loro famiglie, abbiamo coinvolto carabinieri e polizia.
Oggi li abbiamo fatti incontrare, tutti attorno ad un tavolo – scrive Ivo Poggiani, presidente della Terza Municipalità, quella in cui ricade il rione Sanità – Vittima e ‘carnefici'. Si sono scusati con Yacoubou, lo hanno abbracciato. E chi sono questi carnefici? 10 e 13 anni, scugnizzi del quartiere, ragazzi che hanno bisogno solo di un po' di affetto e di una chance, che hanno bisogno di modelli positivi, di scuola, di spazi di aggregazione. Iniziamo noi a non chiamarli baby gang, magari poi non ci diventano".
Casal Bertone: baracche in fiamme, clochard morto carbonizzato. Per i senza fissa dimora è la tredicesima vittima dell'inverno a Roma
Roma Today
Casal Bertone: baracche in fiamme, clochard morto carbonizzato
Ancora un clochard morto a Roma. Questa volta carbonizzato. E' la tredicesima vittima da quando è inizato l'inverno. Una tragedia, quest'ultima, avvenuta nella notte tra il 25 e il 26 febbraio a Roma est, a seguito di un incendio avvenuto in alcune baracche di fortuna in via di Casal Bertone, all'altezza del civico 91.
I Vigili del Fuoco, intervenuti intorno all'una di notte per spegnere un incendio di sterpaglie a ridosso dei binari dei treni ad alta velocità, hanno fatto la macabra scoperta. Vicino a due baracche distrutte dal fuoco, infatti, dopo aver domato le fiamme hanno rinvenuto il cadavere di un uomo, probabilmente un senza fissa dimora. Sul posto la squadra della Scientifica e la Polfer che indaga.“
L'uomo, vicino a sè, non aveva documenti o portafogli. Ancora da determinare le sue generalità, solo le analisi del medico legale potrenno dire di più. Un dramma che ricorda quello dell'8 gennaio all'altezza del Ponte Sublicio, vicino il Tevere.
Secondo una ricostruzione, l'incendio di Casal Bertone sarebbe stato causato da un rogo acceso nella notte da chi vive lì, forse per scaldarsi dal troppo freddo.
Solamente il 3 febbraio la Comunità di Sant'Egidio, con una messa, aveva ricordato le precedenti 12 vittime dell'inverno. Oggi quel conto va aggiornato. “
Lorenzo Nicolini
“
Casal Bertone: baracche in fiamme, clochard morto carbonizzato
Ancora un clochard morto a Roma. Questa volta carbonizzato. E' la tredicesima vittima da quando è inizato l'inverno. Una tragedia, quest'ultima, avvenuta nella notte tra il 25 e il 26 febbraio a Roma est, a seguito di un incendio avvenuto in alcune baracche di fortuna in via di Casal Bertone, all'altezza del civico 91.
I Vigili del Fuoco, intervenuti intorno all'una di notte per spegnere un incendio di sterpaglie a ridosso dei binari dei treni ad alta velocità, hanno fatto la macabra scoperta. Vicino a due baracche distrutte dal fuoco, infatti, dopo aver domato le fiamme hanno rinvenuto il cadavere di un uomo, probabilmente un senza fissa dimora. Sul posto la squadra della Scientifica e la Polfer che indaga.“
L'uomo, vicino a sè, non aveva documenti o portafogli. Ancora da determinare le sue generalità, solo le analisi del medico legale potrenno dire di più. Un dramma che ricorda quello dell'8 gennaio all'altezza del Ponte Sublicio, vicino il Tevere.
Secondo una ricostruzione, l'incendio di Casal Bertone sarebbe stato causato da un rogo acceso nella notte da chi vive lì, forse per scaldarsi dal troppo freddo.
Solamente il 3 febbraio la Comunità di Sant'Egidio, con una messa, aveva ricordato le precedenti 12 vittime dell'inverno. Oggi quel conto va aggiornato. “
Lorenzo Nicolini
“
Demos e Cal, una politica inclusiva fondata sull’essere… umani
Civonline.it
A Fiumicino la presentazione ufficiale di un nuovo progetto politico con l’intervento del Consigliere regionale Ciani. Un’azione determinata alla tutela della qualità della vita, in termini di servizi alla persona e di protezione ambientale.
Fortini si è soffermato sulla necessità di un’azione politica determinata alla tutela della qualità della vita, sia in termini di servizi alla persona, sia di tutela ambientale. Spazio anche ai giovani di Cal, con Andrea Alonge, che ha sottolineato gli sforzi progettuali per l’istituzione della Casa della Pace, un luogo di cultura e aggregazione giovanile, totalmente mancanti sul territorio.
A Fiumicino la presentazione ufficiale di un nuovo progetto politico con l’intervento del Consigliere regionale Ciani. Un’azione determinata alla tutela della qualità della vita, in termini di servizi alla persona e di protezione ambientale.
Fiumicino - Una sala piena di persone e “umanità”, quella che ha accolto la presentazione ufficiale a Fiumicino del progetto politico Demos.
Si è parlato di problemi reali, di valori, degli “ultimi”; ma anche di ambiente, di grandi opere, di una politica che nasce dall’ascolto delle persone con una visione del futuro. Ed è proprio su questa linea che l’intervento del Consigliere Regionale Paolo Ciani ha raccolto i maggiori applausi.
«Il ritorno ad una politica di inclusione – ha detto – dove bambini, anziani e disabilità non sono più argomenti marginali ma centrali per lo sviluppo di una democrazia». Sotto accusa la politica di ieri («troppo distante dai cittadini, arroccata nella conservazione del potere», ha detto Ciani) e quella oggi al governo del Paese («che oscilla tra incompetenza e contrapposizione»).
«Quando mi dicono che i problemi degli italiani vengono prima di quelli di una persona che fugge dalle guerre o dalla fame – ha detto Ciani – mi fanno paura. Possibile non si capisce che se il cuore di un uomo si atrofizza al punto da non avere pietà per chi soffre non l’avrà neanche per i propri conterranei?».
La serata è stata aperta dagli interventi del presidente di Cal (Comune autonomia e libertà) Domenico Perna Ruggiero, per poi passare la parola ai consiglieri Maurizio Ferreri e Armando Fortini. «Ad una politica di confusione, della non coerenza- ha detto Ferreri – noi rispondiamo con posizioni ben chiare in merito alla solidarietà alla salvaguardia della salute, dell’ambiente, del lavoro e dei diritti».
Fortini si è soffermato sulla necessità di un’azione politica determinata alla tutela della qualità della vita, sia in termini di servizi alla persona, sia di tutela ambientale. Spazio anche ai giovani di Cal, con Andrea Alonge, che ha sottolineato gli sforzi progettuali per l’istituzione della Casa della Pace, un luogo di cultura e aggregazione giovanile, totalmente mancanti sul territorio.
Un laboratorio dove Scuole, Enti caritatevoli, Associazioni etc. possono incontrarsi e insieme lavorare su proposte, svolgere dibattiti e organizzare convegni, manifestazioni culturali e artistiche inerenti la salvaguardia dei diritti umani. Interessanti gli interventi, competenti, dei delegati del Sindaco Alfredo Diorio – protezione civile, dell’associazione Nuovo Domani (sull’importanza del volontariato, della protezione civile e sul tema erosione), Mauro Stasio – problemi disabilità, dell’associazione Insieme con i disabili Onlus (sul progetto della Casa di Enzo, e soprattutto del Dopo di noi), Tarek Ashry – rapporti con Enti caritatevoli, e Luisa Serratore – diritti degli animali, presidente Movimento Vita.
Interventi anche dell’associazionismo, presente con rappresentanti della Comunità di Sant’Egidio, del Comitato FuoriPista, dell’associazione I Due Leocorni e di altre realtà del territorio. «Un punto di partenza, per costruire insieme una politica – ed un mondo – a misura di essere umano».
Migranti, il muro di Salvini - Anomalo "buco" di natanti davanti alla Libia. Nessuna nave transita. Nessun testimone. Nessun soccorso.
Il Foglio
I siti che tracciano le rotte delle navi lasciano scoperto il mare davanti a Tripoli. Ora i salvataggi sono eventi “fantasma”.
Gli eventi delle ultime settimane al largo della Libia dicono che la guerra del governo italiano alle ong non ha reso il Mediterraneo un posto più sicuro. Anzi, il tratto di mare che ci separa dall’Africa del nord è diventato un fronte sempre più pericoloso dove si sta creando un vuoto di sorveglianza su quello che succede nelle acque tra Italia, Libia e Malta.
La raccolta di informazioni per monitorare le imbarcazioni in transito in quest'area è sempre più difficile. Sui siti che tracciano in tempo reale le rotte delle imbarcazioni in navigazione, come MarineTraffic, My Ship Tracking o Vesselfinder, il corridoio usato dai trafficanti di uomini che va da 10 miglia a sud di Malta fino alle coste libiche mostra dei vuoti anomali su chi è in navigazione.
I siti che tracciano le rotte delle navi lasciano scoperto il mare davanti a Tripoli. Ora i salvataggi sono eventi “fantasma”.
La raccolta di informazioni per monitorare le imbarcazioni in transito in quest'area è sempre più difficile. Sui siti che tracciano in tempo reale le rotte delle imbarcazioni in navigazione, come MarineTraffic, My Ship Tracking o Vesselfinder, il corridoio usato dai trafficanti di uomini che va da 10 miglia a sud di Malta fino alle coste libiche mostra dei vuoti anomali su chi è in navigazione.
A tratti, in questa area piuttosto vasta, sembra non transiti più nessuno. “E’ così da alcuni mesi – ci spiega Sergio Scandura di Radio Radicale, che da anni traccia gli arrivi e le partenze dei migranti nel Mediterraneo – sicuramente dal caso dell’Asso 28”.
Nell’estate 2018, questa nave italiana aveva creato un precedente notevole perché, dopo il salvataggio di un centinaio di migranti, li aveva riportati in Libia, che però non è considerata un “porto sicuro” secondo le convenzioni internazionali.
“Oggi monitorare cosa succede in quel tratto di mare è impossibile. Di certo non possiamo affidarci ai dati su partenze e arrivi che ci fornisce la cosiddetta Guardia costiera libica”, dice Scandura. L’identificazione delle imbarcazioni in transito avviene grazie ai segnali mandati dai transponder. Si tratta di dispositivi che le navi sono obbligate a installare a bordo e che inviano dei segnali Vhf alle stazioni radio posizionate lungo le coste – tra la Sicilia, la Tunisia e la Libia – che danno informazioni sul tipo e sul nome della nave, oltre che sulla rotta. Ma da mesi, in questa zona di mare, questi segnali sembrano muti. Sono attivi solo i sistemi Sat-Ais, che però sono “anonimi”, non forniscono informazioni sull’imbarcazione e non sono obbligatori per gli armatori.
Per Scandura non si conoscono i motivi di questi “buchi”. Ma la loro conseguenza è il totale vuoto di notizie su chi parte, e su chi muore, al largo della Libia. E’ successo anche di recente, nella notte tra l’11 e il 12 febbraio. “Tramite Alarm Phone (che dà supporto telefonico a chiunque provi ad attraversare il Mediterraneo verso l’Italia, ndr) siamo venuti a conoscenza di due imbarcazioni partite dalla Libia – spiega Scandura – La prima salpata da Khoms, a est di Tripoli, aveva a bordo 150 persone che sono state rintracciate dalla Guardia costiera libica per essere poi riportate indietro”.
Per Scandura non si conoscono i motivi di questi “buchi”. Ma la loro conseguenza è il totale vuoto di notizie su chi parte, e su chi muore, al largo della Libia. E’ successo anche di recente, nella notte tra l’11 e il 12 febbraio. “Tramite Alarm Phone (che dà supporto telefonico a chiunque provi ad attraversare il Mediterraneo verso l’Italia, ndr) siamo venuti a conoscenza di due imbarcazioni partite dalla Libia – spiega Scandura – La prima salpata da Khoms, a est di Tripoli, aveva a bordo 150 persone che sono state rintracciate dalla Guardia costiera libica per essere poi riportate indietro”.
Luca Gambardella
lunedì 25 febbraio 2019
Dopo la Conferenza Internazionale "Human Fraternity" di Abu Dhabi, lo Sheykh di al-Azhar, Ahmed al-Tayyeb invia una lettera a Sant'Egidio
santegidio.org
A seguito della Conferenza Internazionale "Human Fraternity" di Abu Dhabi, conclusa con l'importante documento sulla "Fratellanza Umana per la pace e mondiale e la convivenza comune" firmato con papa Francesco, Ahmed al Tayyeb, sheykh di Al Azhar, ha scritto una lettera ad Andrea Riccardi sottolineando l'importanza del lungo rapporto di dialogo e di fraternità con la Comunità di Sant'Egidio.
Mio caro fratello, professor Andrea Riccardi,
le porgo i miei cordiali saluti.
Con l'occasione della visita di padre Vittorio e della nostra sorella la professoressa Paola Pizzo, desidero inviare i miei saluti più calorosi a lei e a quanti lavorano con lei nella Comunità di Sant'Egidio.
Desidero felicitarmi per la vostra fedele amicizia e la vostra fraternità sincera delle quali ci avete ricolmato lungo gli anni passati in cui siamo stati lieti di conoscervi.
Allo stesso modo apprezziamo in voi la perseveranza nel rafforzare i vincoli di fraternità che hanno posto le basi alla realizzazione del documento sulla "Fraternità umana" di Abu Dhabi.
Chiedo a Dio che ci conceda di aiutarci tutti a portare a compimento il cammino dell'incontro, del dialogo e della relazione gli uni con gli altri per aprire vasti orizzonti all'ombra della nostra salda amicizia.
Vi prego di non dimenticarci nelle vostre preghiere.
Ahmed al-Tayyeb
Sheykh di al-Azhar
A seguito della Conferenza Internazionale "Human Fraternity" di Abu Dhabi, conclusa con l'importante documento sulla "Fratellanza Umana per la pace e mondiale e la convivenza comune" firmato con papa Francesco, Ahmed al Tayyeb, sheykh di Al Azhar, ha scritto una lettera ad Andrea Riccardi sottolineando l'importanza del lungo rapporto di dialogo e di fraternità con la Comunità di Sant'Egidio.
Nella lettera, Al Tayyeb esprime la sua gioia e gratitudine per la "fedele amicizia" e per "la perseveranza nel rafforzare i vincoli di fraternità che hanno posto le basi alla realizzazione del documento sulla "Fraternità umana" di Abu Dhabi."
La Comunità di Sant'Egidio esprime la sua gratitudine per questa lettera e per un'amicizia che data da circa 10 anni, in cui sono state numerose le occasioni di incontro e di dialogo, nonchè momenti significativi come la partecipazione agli Incontri Internazionali di Preghiera per la Pace e la visita al luogo dell'attentato al Bataclan, a Parigi.
La Comunità di Sant'Egidio esprime la sua gratitudine per questa lettera e per un'amicizia che data da circa 10 anni, in cui sono state numerose le occasioni di incontro e di dialogo, nonchè momenti significativi come la partecipazione agli Incontri Internazionali di Preghiera per la Pace e la visita al luogo dell'attentato al Bataclan, a Parigi.
Mio caro fratello, professor Andrea Riccardi,
le porgo i miei cordiali saluti.
Con l'occasione della visita di padre Vittorio e della nostra sorella la professoressa Paola Pizzo, desidero inviare i miei saluti più calorosi a lei e a quanti lavorano con lei nella Comunità di Sant'Egidio.
Desidero felicitarmi per la vostra fedele amicizia e la vostra fraternità sincera delle quali ci avete ricolmato lungo gli anni passati in cui siamo stati lieti di conoscervi.
Allo stesso modo apprezziamo in voi la perseveranza nel rafforzare i vincoli di fraternità che hanno posto le basi alla realizzazione del documento sulla "Fraternità umana" di Abu Dhabi.
Chiedo a Dio che ci conceda di aiutarci tutti a portare a compimento il cammino dell'incontro, del dialogo e della relazione gli uni con gli altri per aprire vasti orizzonti all'ombra della nostra salda amicizia.
Vi prego di non dimenticarci nelle vostre preghiere.
Ahmed al-Tayyeb
Sheykh di al-Azhar
Venezuela: in due giorni di repressione, 25 morti alla frontiera con il Brasile
Ansa
Domenica il leader dell'opposizione venezuelana Juan Guaidò ha detto che chiederà alla comunità internazionale di mantenere "tutte le opzioni aperte" nella lotta per cacciare il presidente Nicolas Maduro.
In due giorni di repressione, da sabato scorso, le forze di sicurezza e gli irregolari chavisti hanno ucciso 25 persone e ne hanno ferite almeno 84 a Gran Sabana, alla frontiera venezuelana con il Brasile. Lo ha denunciato il sindaco della località, Emilio Gonzalez, che si è rifugiato in Brasile, attraversando il confine clandestinamente.
L'appello di Guaidò è giunto dopo una turbolenta giornata in cui una campagna di aiuti umanitari sostenuta dagli Stati Uniti da inviare in Venezuela ha incontrato una forte resistenza da parte delle forze di sicurezza, che hanno sparato lacrimogeni sui manifestanti lasciando almeno due morti e circa 300 feriti.
Sabato sera il leader dell'opposizione proclamatosi presidente ad interim ha twittato: "Gli eventi di oggi mi hanno obbligato a prendere una decisione: proporre in modo formale alla comunità internazionale di mantenere tutte le opzioni disponibili per liberare questo Paese, che lotta e continuerà a lottare".
Guaido' ha detto che incontrerà oggi il vicepresidente degli Stati Uniti, Mike Pence, nel vertice d'emergenza dei ministri degli Esteri del gruppo di Lima sulla crisi del Venezuela nella capitale colombiana Bogotà.
Sono ore drammatiche in Venezuela. La "valanga umanitaria" di aiuti, annunciata da Guaidò e destinata alla popolazione stremata del Venezuela, è stata bloccata con la forza alle frontiere da Nicolas Maduro. Le sue forze di sicurezza hanno lanciato una brutale repressione contro i manifestanti al confine con la Colombia, mentre i "colectivos" (gruppi irregolari chavisti) fedeli al presidente hanno sparato vicino a quello con il Brasile.
[...]
Sabato sera il leader dell'opposizione proclamatosi presidente ad interim ha twittato: "Gli eventi di oggi mi hanno obbligato a prendere una decisione: proporre in modo formale alla comunità internazionale di mantenere tutte le opzioni disponibili per liberare questo Paese, che lotta e continuerà a lottare".
Guaido' ha detto che incontrerà oggi il vicepresidente degli Stati Uniti, Mike Pence, nel vertice d'emergenza dei ministri degli Esteri del gruppo di Lima sulla crisi del Venezuela nella capitale colombiana Bogotà.
Sono ore drammatiche in Venezuela. La "valanga umanitaria" di aiuti, annunciata da Guaidò e destinata alla popolazione stremata del Venezuela, è stata bloccata con la forza alle frontiere da Nicolas Maduro. Le sue forze di sicurezza hanno lanciato una brutale repressione contro i manifestanti al confine con la Colombia, mentre i "colectivos" (gruppi irregolari chavisti) fedeli al presidente hanno sparato vicino a quello con il Brasile.
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La Libia è un inferno, ed è la Farnesina a dirlo, paese molto rischioso per gli italiani. Ma Salvini continua a rimandare indietro i migranti
Linkiesta
Il ministro dell'Interno ripete da mesi che riportare i migranti in Libia significa salvarli. Ma quando vengono rispediti a Tripoli finiscono in carcere in condizioni spaventose, senza acqua né cibo per giorni, sottoposti a torture, a rischio di epidemia e alla compravendita.
Riportare i migranti in Libia significa salvarli, ripete da mesi il ministro dell’Interno Matteo Salvini. Ma se sei italiano è meglio non metterci piede: non ci sono «adeguati standard di sicurezza». Un paradosso certificato dal sito del ministero degli Affari esteri, che nel suo periodico aggiornamento del portale “Viaggiare sicuri” inserisce la Libia tra i Paesi maggiormente a rischio, invitando gli italiani a non partire o ad abbandonare quella zona, in virtù di una «assai precaria situazione di sicurezza».
Il ministro dell'Interno ripete da mesi che riportare i migranti in Libia significa salvarli. Ma quando vengono rispediti a Tripoli finiscono in carcere in condizioni spaventose, senza acqua né cibo per giorni, sottoposti a torture, a rischio di epidemia e alla compravendita.
Riportare i migranti in Libia significa salvarli, ripete da mesi il ministro dell’Interno Matteo Salvini. Ma se sei italiano è meglio non metterci piede: non ci sono «adeguati standard di sicurezza». Un paradosso certificato dal sito del ministero degli Affari esteri, che nel suo periodico aggiornamento del portale “Viaggiare sicuri” inserisce la Libia tra i Paesi maggiormente a rischio, invitando gli italiani a non partire o ad abbandonare quella zona, in virtù di una «assai precaria situazione di sicurezza».
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Ma è lo stesso governo di cui fa parte a smentire il ministro dell’Interno. L’aggiornamento risale infatti soltanto al 12 febbraio, dunque pochi giorni fa e in piena era gialloverde. «I viaggi (in Libia, ndr) sono assolutamente sconsigliati in ragione delle precarie condizioni di sicurezza nel Paese», si legge proprio in cima alla scheda delle informazioni generali. Poi tutta una sezione riguarda le condizioni di sicurezza del Paese, con l’invito ai connazionali «a non recarsi in Libia e, a quelli presenti, a lasciare temporaneamente il Paese in ragione della assai precaria situazione di sicurezza».
Ma è lo stesso governo di cui fa parte a smentire il ministro dell’Interno. L’aggiornamento risale infatti soltanto al 12 febbraio, dunque pochi giorni fa e in piena era gialloverde. «I viaggi (in Libia, ndr) sono assolutamente sconsigliati in ragione delle precarie condizioni di sicurezza nel Paese», si legge proprio in cima alla scheda delle informazioni generali. Poi tutta una sezione riguarda le condizioni di sicurezza del Paese, con l’invito ai connazionali «a non recarsi in Libia e, a quelli presenti, a lasciare temporaneamente il Paese in ragione della assai precaria situazione di sicurezza».
Una situazione determinata dagli «scontri tra gruppi armati» che interessano «varie aree del Paese (incluso in Tripolitania, nell’area intorno a Sirte, a Sebha, Bengasi, Derna e Sabratha)». Il pericolo è alto anche nella capitale, segnala la Farnesina, zona in cui imperversa «la minaccia terroristica» e ad «elevato rischio rapimenti». Elevati i tassi di criminalità, «anche nelle principali città e strade del Paese, tra cui il tratto stradale costiero dalla Tunisia all'Egitto».
Una volta riportati in Libia, i migranti intercettati in mare finiscono in carcere in condizioni spaventose, spesso senza acqua né cibo per giorni, sottoposti a torture, a rischio di epidemia e sottoposti alla compravendita degli aguzzini locali.
Tra i pericoli segnalati anche la presenza di cellule jihadiste in varie zone del Paese, inclusa la capitale. «Attacchi terroristici rivolti a libici e stranieri, anche con ricorso ad autobombe, hanno avuto luogo a Tripoli (da ultimo contro la Commissione Elettorale il 2 maggio e contro la National Oil Corporation il 10 settembre 2018 - continua il report - Si sottolinea che standard adeguati di sicurezza non sono garantiti nemmeno nei grandi hotel della capitale, che sono anzi considerati ad alto rischio. Si richiama inoltre l'elevato rischio di sequestri di cittadini stranieri, a scopo di estorsione o di matrice terrorista, in tutto il Paese».
Spostarsi sul territorio è rischioso, al punto che tra le raccomandazioni vi è quella di evitarlo, assieme a riprese video o fotografie «a qualsiasi sito di rilevanza politica (ministeri, ambasciate, eccetera) nonché militare (inclusi porti, aeroporti e check point)», raccomandazioni che confermano una situazione socio-politica tutt’altro che serena. Così come la situazione sanitaria: le strutture sul territorio «sono inadeguate», tanto da consigliare lo spostamento di eventuali pazienti in Italia, Tunisia o Malta, anche se «le evacuazioni mediche dalla Libia sono per il momento estremamente problematiche», mentre molti medicinali risultano irreperibili. E per concludere, gli aeroporti sono spesso chiusi per «eventi sul piano della sicurezza», mentre si registrano attacchi aerei «sulla città di Misurata», in particolare contro l’aeroporto internazionale, il porto e alcune strutture industriali. Così come si verificano di frequente chiusure al valico di frontiera libico-tunisino di Ras Jadir. E in ogni caso, conclude la Farnesina, «ogni spostamento nel Paese, su ruota, comporta un elevatissimo rischio ed è fortemente sconsigliato».
La Libia, dunque, non è un posto sicuro. E se non bastassero le raccomandazioni del ministero degli Affari esteri, anche il report dell’Unhcr evidenzia una situazione drammatica: una volta riportati in Libia, i migranti intercettati in mare finiscono in carcere in condizioni spaventose, spesso senza acqua né cibo per giorni, sottoposti a torture, a rischio di epidemia e sottoposti alla compravendita degli aguzzini locali. Col rischio, poi, di pagare una seconda volta nel tentativo di attraversare il Mediterraneo e scappare dall’inferno. Al punto da arrivare a dire «meglio morire in mare che tornare in Libia»
Una volta riportati in Libia, i migranti intercettati in mare finiscono in carcere in condizioni spaventose, spesso senza acqua né cibo per giorni, sottoposti a torture, a rischio di epidemia e sottoposti alla compravendita degli aguzzini locali.
Tra i pericoli segnalati anche la presenza di cellule jihadiste in varie zone del Paese, inclusa la capitale. «Attacchi terroristici rivolti a libici e stranieri, anche con ricorso ad autobombe, hanno avuto luogo a Tripoli (da ultimo contro la Commissione Elettorale il 2 maggio e contro la National Oil Corporation il 10 settembre 2018 - continua il report - Si sottolinea che standard adeguati di sicurezza non sono garantiti nemmeno nei grandi hotel della capitale, che sono anzi considerati ad alto rischio. Si richiama inoltre l'elevato rischio di sequestri di cittadini stranieri, a scopo di estorsione o di matrice terrorista, in tutto il Paese».
Spostarsi sul territorio è rischioso, al punto che tra le raccomandazioni vi è quella di evitarlo, assieme a riprese video o fotografie «a qualsiasi sito di rilevanza politica (ministeri, ambasciate, eccetera) nonché militare (inclusi porti, aeroporti e check point)», raccomandazioni che confermano una situazione socio-politica tutt’altro che serena. Così come la situazione sanitaria: le strutture sul territorio «sono inadeguate», tanto da consigliare lo spostamento di eventuali pazienti in Italia, Tunisia o Malta, anche se «le evacuazioni mediche dalla Libia sono per il momento estremamente problematiche», mentre molti medicinali risultano irreperibili. E per concludere, gli aeroporti sono spesso chiusi per «eventi sul piano della sicurezza», mentre si registrano attacchi aerei «sulla città di Misurata», in particolare contro l’aeroporto internazionale, il porto e alcune strutture industriali. Così come si verificano di frequente chiusure al valico di frontiera libico-tunisino di Ras Jadir. E in ogni caso, conclude la Farnesina, «ogni spostamento nel Paese, su ruota, comporta un elevatissimo rischio ed è fortemente sconsigliato».
La Libia, dunque, non è un posto sicuro. E se non bastassero le raccomandazioni del ministero degli Affari esteri, anche il report dell’Unhcr evidenzia una situazione drammatica: una volta riportati in Libia, i migranti intercettati in mare finiscono in carcere in condizioni spaventose, spesso senza acqua né cibo per giorni, sottoposti a torture, a rischio di epidemia e sottoposti alla compravendita degli aguzzini locali. Col rischio, poi, di pagare una seconda volta nel tentativo di attraversare il Mediterraneo e scappare dall’inferno. Al punto da arrivare a dire «meglio morire in mare che tornare in Libia»
domenica 24 febbraio 2019
Autostrada del Tibet, la tomba dei camionisti. Sono 30 milioni, percorrono fino a 400 mila Km all'anno lavorando 20 ore al giorno.
Asai News
La morte di una coppia getta luce sulle terribili condizioni di lavoro per circa 30milioni di camionisti. Oltre 14 milioni di camion trasportano il 76% di tutto il traffico merci cinese. Percorrono in media circa 100mila chilometri ogni anno. Il trasporto di merci su gomma in Cina è più economico, veloce e flessibile rispetto a quello su rotaia. Una giornata lavorativa può durare 20 ore e ciascuna corsa anche un intero mese.
Hong Kong (AsiaNews/China Labour Bulletin) – Ni Wanhui e sua moglie Li Chan avevano appena festeggiato l'undicesimo compleanno del figlio maggiore nella città natale di Hebei, e stavano guidando il loro camion sulla lunga strada verso ovest, Chongqing, Qinghai e Tibet. Un viaggio di 3.800 chilometri sola andata. Il 27 dicembre 2018, la polizia del Qinghai ha trovato i loro corpi lungo un tratto a detta di tutti pericoloso della strada verso il Tibet. I primi rapporti indicano l'ipossia acuta come causa di morte.
La sezione Wudaoliang dell'autostrada tibetana è nota ai camionisti cinesi come “la zona proibita della vita” (生命 禁区). Ad un'altitudine di 4.600 metri, i conducenti sono a serio rischio di mal di montagna, che causa cefalea, stanchezza, disorientamento e perdita di conoscenza. Per i camionisti, è l'unico modo per entrare ed uscire dal Tibet.
Prima della loro tragica morte, i coniugi erano diventati celebrità minori da social media su Kuaishou, popolare piattaforma per la condivisione di filmati, con oltre 214mila follower e 300 video che documentavano le loro vite sulla strada. Le loro morti hanno gettato luce sulle terribili condizioni di lavoro che i camionisti cinesi devono sopportare ogni giorno. È un lavoro fisicamente impegnativo, a bassa retribuzione e molto stressante. E per i conducenti che hanno sottoscritto un prestito per l'acquisto del proprio camion, vi è l'ulteriore pressione di ripagare il finanziamento quanto prima. Questo li costringe a rimanere sulla strada il più a lungo possibile.
Secondo le stime, i camionisti cinesi sono 30 milioni. Essi percorrono in media circa 100mila chilometri ogni anno, ma alcuni effettuano spostamenti fino a 400mila chilometri. Le statistiche ufficiali riportano che più di 14 milioni di camion trasportano il 76% di tutto il traffico merci cinese e negli ultimi 20 anni tale proporzione è andata aumentando in modo costante. I camionisti hanno consegnato quasi 40 miliardi di tonnellate di merci nel 2017, il doppio del volume nel 2007.
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La morte di una coppia getta luce sulle terribili condizioni di lavoro per circa 30milioni di camionisti. Oltre 14 milioni di camion trasportano il 76% di tutto il traffico merci cinese. Percorrono in media circa 100mila chilometri ogni anno. Il trasporto di merci su gomma in Cina è più economico, veloce e flessibile rispetto a quello su rotaia. Una giornata lavorativa può durare 20 ore e ciascuna corsa anche un intero mese.
Hong Kong (AsiaNews/China Labour Bulletin) – Ni Wanhui e sua moglie Li Chan avevano appena festeggiato l'undicesimo compleanno del figlio maggiore nella città natale di Hebei, e stavano guidando il loro camion sulla lunga strada verso ovest, Chongqing, Qinghai e Tibet. Un viaggio di 3.800 chilometri sola andata. Il 27 dicembre 2018, la polizia del Qinghai ha trovato i loro corpi lungo un tratto a detta di tutti pericoloso della strada verso il Tibet. I primi rapporti indicano l'ipossia acuta come causa di morte.
La sezione Wudaoliang dell'autostrada tibetana è nota ai camionisti cinesi come “la zona proibita della vita” (生命 禁区). Ad un'altitudine di 4.600 metri, i conducenti sono a serio rischio di mal di montagna, che causa cefalea, stanchezza, disorientamento e perdita di conoscenza. Per i camionisti, è l'unico modo per entrare ed uscire dal Tibet.
Prima della loro tragica morte, i coniugi erano diventati celebrità minori da social media su Kuaishou, popolare piattaforma per la condivisione di filmati, con oltre 214mila follower e 300 video che documentavano le loro vite sulla strada. Le loro morti hanno gettato luce sulle terribili condizioni di lavoro che i camionisti cinesi devono sopportare ogni giorno. È un lavoro fisicamente impegnativo, a bassa retribuzione e molto stressante. E per i conducenti che hanno sottoscritto un prestito per l'acquisto del proprio camion, vi è l'ulteriore pressione di ripagare il finanziamento quanto prima. Questo li costringe a rimanere sulla strada il più a lungo possibile.
Secondo le stime, i camionisti cinesi sono 30 milioni. Essi percorrono in media circa 100mila chilometri ogni anno, ma alcuni effettuano spostamenti fino a 400mila chilometri. Le statistiche ufficiali riportano che più di 14 milioni di camion trasportano il 76% di tutto il traffico merci cinese e negli ultimi 20 anni tale proporzione è andata aumentando in modo costante. I camionisti hanno consegnato quasi 40 miliardi di tonnellate di merci nel 2017, il doppio del volume nel 2007.
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Trump - Il muro di demagogia con il Messico - Per completarlo, se finanziato, ci vorrebbero 20 anni.
LimesIntenzionato a completare la barriera esistente tra gli Stati Uniti e il Messico, Donald Trump ha dichiarato l’emergenza nazionale per arrogarsi circa 8 miliardi di dollari in fondi destinati alla Difesa da convogliare al progetto. L’unico mezzo a sua disposizione per aggirare il Congresso che, trasversalmente, non gli ha voluto concedere tale cifra.
Perché conta: La querelle riguardante il muro dimostra plasticamente quanto sia difficile – quasi impossibile – per un presidente realizzare un progetto domestico in modo unilaterale. Perché certamente Trump non completerà mai il muro. Forse non ne realizzerà neppure un metro. La decisione presidenziale è già stata impugnata in tribunale da 16 Stati federati, da molteplici associazioni umanitarie e ambientaliste, nonché da privati cittadini. Con la certezza che sarà la Corte suprema a decidere della questione.
Per cui nel migliore dei casi, per Trump, il massimo tribunale deciderà in suo favore tra almeno un anno, consentendogli di iniziare la costruzione di alcuni chilometri di barriera – secondo i migliori calcoli, 8 miliardi di dollari bastano per realizzare 376 chilometri (234 miglia) di muro, circa un terzo di quanto già esiste (1.052 chilometri), poco più di un decimo dell’intero confine (3.110 chilometri).
Considerato l’andamento della vicenda, di questo passo ci vorrebbero almeno 20 anni per allocare i fondi necessari al completamento della barriera, decisamente più dei 6 anni scarsi di presidenza (2 più 4) che Trump potrebbe avere a disposizione qualora fosse rieletto.
Perché conta: La querelle riguardante il muro dimostra plasticamente quanto sia difficile – quasi impossibile – per un presidente realizzare un progetto domestico in modo unilaterale. Perché certamente Trump non completerà mai il muro. Forse non ne realizzerà neppure un metro. La decisione presidenziale è già stata impugnata in tribunale da 16 Stati federati, da molteplici associazioni umanitarie e ambientaliste, nonché da privati cittadini. Con la certezza che sarà la Corte suprema a decidere della questione.
Per cui nel migliore dei casi, per Trump, il massimo tribunale deciderà in suo favore tra almeno un anno, consentendogli di iniziare la costruzione di alcuni chilometri di barriera – secondo i migliori calcoli, 8 miliardi di dollari bastano per realizzare 376 chilometri (234 miglia) di muro, circa un terzo di quanto già esiste (1.052 chilometri), poco più di un decimo dell’intero confine (3.110 chilometri).
Considerato l’andamento della vicenda, di questo passo ci vorrebbero almeno 20 anni per allocare i fondi necessari al completamento della barriera, decisamente più dei 6 anni scarsi di presidenza (2 più 4) che Trump potrebbe avere a disposizione qualora fosse rieletto.
Per tacere di cosa (non) succederebbe se la Corte suprema giudicasse invalida la misura presidenziale. Mentre, se pure i giudici dessero ragione a Trump ma nel successivo novembre fosse eletto un presidente contrario allo stato di emergenza, la costruzione si interromperebbe immediatamente, con la consegna ai posteri di una manciata di chilometri di muro edificati ex novo. A fronte di uno sforzo titanico da parte del magnate newyorkese, sfociato nella dimostrazione dell’impotenza presidenziale.
Dario Fabbri
Dario Fabbri
Italia - Carcere solo carcere, proposta di legge Lega per mandarci anche i bambini di 12 anni
riforma.it
Una proposta di legge presentata dalla Lega in Commissione giustizia alla Camera propone di abbassare l'età minima per l'imputabilità dei minori.
Una proposta di legge presentata dalla Lega in Commissione giustizia alla Camera propone di abbassare l'età minima per l'imputabilità dei minori.
Lo scorso 7 febbraio è stato presentato alla Camera il disegno di legge numero 1580, con cui si propone una modifica della legge 448/88, che norma il processo penale per i minori, introducendo l'abbassamento dell'età imputabile da 14 a 12 anni, così come l'eccezione alla regola della diminuzione di pena nel caso del reato di associazione mafiosa commesso dai minorenni.
Il disegno di legge si inserisce, secondo i proponenti, nel quadro di un più duro contrasto alla criminalità organizzata e alla necessità di rispondere a quella che viene ritenuta una situazione di insicurezza portata dal fenomeno delle cosiddette "baby gang".
Tuttavia, le statistiche sui reati minorili non sembrano confermare questa percezione. L'Associazione Italiana dei Magistrati per i Minorenni e per la Famiglia ha subito criticato questa proposta, affermando che "i presupposti su cui poggiano le considerazioni dei proponenti la modifica legislativa non trovano riscontro nei dati a disposizione del Ministero della Giustizia" e allo stesso tempo sottolineando che, di fronte a un esame dei dati di altri Paesi, "emerge una situazione della giustizia penale minorile italiana stabile quanto ai numeri, se non in calo, e in ogni caso di gran lunga meno allarmante di quella relativa a sistemi giudiziari che hanno da tempo fissato un'età per la punibilità penale molto precoce come il Regno Unito, la Francia, gli Stati Uniti, l'Olanda".
Ampliando lo sguardo, è abbastanza chiaro come la proposta si inserisca in modo coerente nella logica di questa legislatura e dell'attuale ministro della Giustizia, sostenitore delle misure detentive come principale strumento dell'azione penale e in questo supportato anche dagli esponenti della Lega. Eppure, l'idea di condurre in carcere, seppur minorile, dei ragazzini di dodici anni, suscita più di una perplessità. "Io credo - afferma Susanna Marietti, coordinatrice dell'Associazione Antigone, che si occupa di diritto e diritti nel sistema penale italiano - che dei ragazzini di 12 anni possano vivere situazioni problematiche alle quali possono rispondere anche con condotte non appropriate, ma gli adulti siamo noi: noi dobbiamo fare in modo, con un progetto educativo complessivo e serio, di riportarli su un'altra strada e di spiegargli che non si fa, come facciamo con i nostri figli, non di pensare di metterli in carcere".
Continua a leggere l'articolo Intervista a Susanna Marietti (Antigone) >>>
Marco Magnano
Tuttavia, le statistiche sui reati minorili non sembrano confermare questa percezione. L'Associazione Italiana dei Magistrati per i Minorenni e per la Famiglia ha subito criticato questa proposta, affermando che "i presupposti su cui poggiano le considerazioni dei proponenti la modifica legislativa non trovano riscontro nei dati a disposizione del Ministero della Giustizia" e allo stesso tempo sottolineando che, di fronte a un esame dei dati di altri Paesi, "emerge una situazione della giustizia penale minorile italiana stabile quanto ai numeri, se non in calo, e in ogni caso di gran lunga meno allarmante di quella relativa a sistemi giudiziari che hanno da tempo fissato un'età per la punibilità penale molto precoce come il Regno Unito, la Francia, gli Stati Uniti, l'Olanda".
Ampliando lo sguardo, è abbastanza chiaro come la proposta si inserisca in modo coerente nella logica di questa legislatura e dell'attuale ministro della Giustizia, sostenitore delle misure detentive come principale strumento dell'azione penale e in questo supportato anche dagli esponenti della Lega. Eppure, l'idea di condurre in carcere, seppur minorile, dei ragazzini di dodici anni, suscita più di una perplessità. "Io credo - afferma Susanna Marietti, coordinatrice dell'Associazione Antigone, che si occupa di diritto e diritti nel sistema penale italiano - che dei ragazzini di 12 anni possano vivere situazioni problematiche alle quali possono rispondere anche con condotte non appropriate, ma gli adulti siamo noi: noi dobbiamo fare in modo, con un progetto educativo complessivo e serio, di riportarli su un'altra strada e di spiegargli che non si fa, come facciamo con i nostri figli, non di pensare di metterli in carcere".
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Marco Magnano
sabato 23 febbraio 2019
Grecia. L'assurda storia di Seán Binder "Arrestato perché salvavo esseri umani sull'isola di Lesbo"
Il Manifesto
L'incredibile storia di Seán Binder accusato di spionaggio, traffico di esseri umani, riciclaggio di denaro e altri reati.
L'incredibile storia di Seán Binder accusato di spionaggio, traffico di esseri umani, riciclaggio di denaro e altri reati.
In un'Europa attraversata dal razzismo, migliaia di ragazze e ragazzi agiscono in prima persona contro la strage di migranti. Seán Binder, studente di origini tedesche cresciuto in Irlanda, è uno di loro.
Il 18 agosto scorso è stato arrestato sull'isola greca di Lesbo con accuse pesantissime. Era insieme a Sara Mardini, nuotatrice siriana di 23 anni che nel 2015 ha salvato 18 persone nel naufragio della barca con cui si dirigeva in Europa. Lo abbiamo incontrato alla presentazione di "Welcoming Europe. Per un'Europa che accoglie".
Perché sei andato a Lesbo?
A ottobre 2017 avevo appena finito un master in "Difesa europea e politiche di sicurezza". Molto di quello che avevo studiato come "sicurezza" riguardava la cosiddetta "crisi dei rifugiati". Ho pensato di avere delle conoscenze su quello che stava accadendo e siccome ho anche delle competenze pratiche, sono un sommozzatore per la ricerca e il soccorso, ho sentito di poter essere utile sull'isola. All'inizio facevo parte dell'equipaggio di una barca, aiutando negli interventi in mare, e del gruppo di terra, che sosteneva le imbarcazione approdate sulla costa. I rifugiati possono arrivare in stato di ipotermia e avere bisogno di interventi di primo soccorso. Li fornivamo con un team medico. Lavoravamo insieme alle autorità locali, in un'ottima relazione.
Cosa ti è successo sull'isola?
Anche se la "crisi" non è più sui giornali, le barche continuano ad arrivare. Le persone cercano ancora di raggiungere l'Europa. Possono esserci tra 50 e 80 arrivi al giorno. Noi aiutavamo le imbarcazioni in difficoltà, assistendo la guardia costiera greca o Frontex nel recupero di persone in pericolo. Lo abbiamo fatto fino a febbraio 2018 quando siamo stati arrestati per la prima volta. In quel momento ero diventato coordinatore dell'organizzazione [Emergency Response Centre International, ong greca ndr]. Coordinavo gli interventi di emergenza e formavamo altre ong assicurandoci di utilizzare le prassi migliori e rispettare tutte le procedure. Avevamo anche aperto un ambulatorio a Moria, uno dei più grandi centri d'accoglienza europei, offrendo assistenza sanitaria. La polizia greca è venuta a prenderci alle 2 di notte, ci ha perquisito e indagato, ma non ha trovato niente. Così il giorno seguente siamo stati rilasciati. Successivamente sui giornali hanno iniziato a circolare strane notizie, si diceva che i servizi segreti fossero sull'isola, si nominavano James Bond e gli 007. Sembrava veramente bizzarro, ma poi ad agosto siamo stati arrestati di nuovo. Siamo finiti in "detenzione preventiva": non eravamo stati giudicati colpevoli di nulla, ma siccome le accuse erano molto pesanti hanno deciso di isolarci dalla società. Siamo rimasti in carcere per 106 lunghi giorni accusati di spionaggio, traffico di esseri umani, riciclaggio di denaro e altri reati.
Pensi ci sia stata una ragione politica?
In nessun modo mi definirei un prigioniero politico. Però quando abbiamo dato le informazioni sul nostro caso ad Amnesty International, Human Rights Watch e altri esperti di diritto penale greco e internazionale, tutti sono stati concordi nel dire che non c'erano prove. Le leggi che hanno provato a usare contro di noi non si applicano al caso. Quindi deve esserci un'altra ragione. C'è una tendenza di criminalizzazione dell'umanitario che attraversa l'Europa. Ci sono almeno 46 casi simili al nostro, contro persone che hanno distribuito acqua o si sono assicurate che i rifugiati non morissero di freddo. C'è un'idea radicata secondo cui le organizzazioni umanitarie sarebbero un "fattore di attrazione" perché rendono la traversata dei migranti più sicura, spingendoli a partire. Per me è un'accusa molto seria. La prima volta che ci ho riflettuto sopra mi sono detto "oh mio dio, quanto sono ingenuo. Per ogni persona che tiro fuori dall'acqua ne metto in pericolo altre per le quali non posso fare niente. Devo fermarmi". Poi però mi sono messo a studiare e ho scoperto che nessuna ricerca indipendente è arrivata a queste conclusioni. Nessuno ha potuto dimostrare che esiste una correlazione tra le attività di ricerca e soccorso e la quantità di persone che partono. L'unica correlazione è tra queste attività e i morti in mare: più sono, meno gente perde la vita. Quindi se criminalizzi l'umanitario muoiono più persone. Per me questo è spaventoso.
Giansandro Merli
Perché sei andato a Lesbo?
A ottobre 2017 avevo appena finito un master in "Difesa europea e politiche di sicurezza". Molto di quello che avevo studiato come "sicurezza" riguardava la cosiddetta "crisi dei rifugiati". Ho pensato di avere delle conoscenze su quello che stava accadendo e siccome ho anche delle competenze pratiche, sono un sommozzatore per la ricerca e il soccorso, ho sentito di poter essere utile sull'isola. All'inizio facevo parte dell'equipaggio di una barca, aiutando negli interventi in mare, e del gruppo di terra, che sosteneva le imbarcazione approdate sulla costa. I rifugiati possono arrivare in stato di ipotermia e avere bisogno di interventi di primo soccorso. Li fornivamo con un team medico. Lavoravamo insieme alle autorità locali, in un'ottima relazione.
Cosa ti è successo sull'isola?
Anche se la "crisi" non è più sui giornali, le barche continuano ad arrivare. Le persone cercano ancora di raggiungere l'Europa. Possono esserci tra 50 e 80 arrivi al giorno. Noi aiutavamo le imbarcazioni in difficoltà, assistendo la guardia costiera greca o Frontex nel recupero di persone in pericolo. Lo abbiamo fatto fino a febbraio 2018 quando siamo stati arrestati per la prima volta. In quel momento ero diventato coordinatore dell'organizzazione [Emergency Response Centre International, ong greca ndr]. Coordinavo gli interventi di emergenza e formavamo altre ong assicurandoci di utilizzare le prassi migliori e rispettare tutte le procedure. Avevamo anche aperto un ambulatorio a Moria, uno dei più grandi centri d'accoglienza europei, offrendo assistenza sanitaria. La polizia greca è venuta a prenderci alle 2 di notte, ci ha perquisito e indagato, ma non ha trovato niente. Così il giorno seguente siamo stati rilasciati. Successivamente sui giornali hanno iniziato a circolare strane notizie, si diceva che i servizi segreti fossero sull'isola, si nominavano James Bond e gli 007. Sembrava veramente bizzarro, ma poi ad agosto siamo stati arrestati di nuovo. Siamo finiti in "detenzione preventiva": non eravamo stati giudicati colpevoli di nulla, ma siccome le accuse erano molto pesanti hanno deciso di isolarci dalla società. Siamo rimasti in carcere per 106 lunghi giorni accusati di spionaggio, traffico di esseri umani, riciclaggio di denaro e altri reati.
Pensi ci sia stata una ragione politica?
In nessun modo mi definirei un prigioniero politico. Però quando abbiamo dato le informazioni sul nostro caso ad Amnesty International, Human Rights Watch e altri esperti di diritto penale greco e internazionale, tutti sono stati concordi nel dire che non c'erano prove. Le leggi che hanno provato a usare contro di noi non si applicano al caso. Quindi deve esserci un'altra ragione. C'è una tendenza di criminalizzazione dell'umanitario che attraversa l'Europa. Ci sono almeno 46 casi simili al nostro, contro persone che hanno distribuito acqua o si sono assicurate che i rifugiati non morissero di freddo. C'è un'idea radicata secondo cui le organizzazioni umanitarie sarebbero un "fattore di attrazione" perché rendono la traversata dei migranti più sicura, spingendoli a partire. Per me è un'accusa molto seria. La prima volta che ci ho riflettuto sopra mi sono detto "oh mio dio, quanto sono ingenuo. Per ogni persona che tiro fuori dall'acqua ne metto in pericolo altre per le quali non posso fare niente. Devo fermarmi". Poi però mi sono messo a studiare e ho scoperto che nessuna ricerca indipendente è arrivata a queste conclusioni. Nessuno ha potuto dimostrare che esiste una correlazione tra le attività di ricerca e soccorso e la quantità di persone che partono. L'unica correlazione è tra queste attività e i morti in mare: più sono, meno gente perde la vita. Quindi se criminalizzi l'umanitario muoiono più persone. Per me questo è spaventoso.
Giansandro Merli
Stati Uniti. Amnesty: "Via pena di morte solo per risparmiare? Ok, purché lo facciano"
gnewsonline.it
Secondo il Wall Street Journal in sei Stati degli Usa si sta discutendo una proposta - avallata anche dai Repubblicani - per abolire la pena di morte. Si tratta di Kansas, Kentucky, Missouri, Montana, Wyoming e New Hampshire.
Secondo il Wall Street Journal in sei Stati degli Usa si sta discutendo una proposta - avallata anche dai Repubblicani - per abolire la pena di morte. Si tratta di Kansas, Kentucky, Missouri, Montana, Wyoming e New Hampshire.
In Alabama se ne discuterà nei prossimi mesi. La motivazione non è legata a valori etici. "Va abolita perché costa troppo alle casse dello Stato" è l'opinione dei proponenti. Ne parliamo con Antonio Marchesi, presidente della sezione italiana di Amnesty International.
"Non bisogna stupirsi - premette Marches, negli Stati Uniti l'approccio a questo tema è molto pragmatico. In Europa i favorevoli e i contrari alla pena di morte si basano su argomentazioni di carattere filosofico, etico o religioso. Negli Usa sappiamo che la maggioranza della popolazione in linea di principio è tendenzialmente favorevole ma poi scattano altre valutazioni".
Quali?
"Si interrogano se la pena di morte sia utile o meno, se serva effettivamente come deterrente ossia se rappresenti uno strumento realmente efficace per la prevenzione dei crimini".
"Non bisogna stupirsi - premette Marches, negli Stati Uniti l'approccio a questo tema è molto pragmatico. In Europa i favorevoli e i contrari alla pena di morte si basano su argomentazioni di carattere filosofico, etico o religioso. Negli Usa sappiamo che la maggioranza della popolazione in linea di principio è tendenzialmente favorevole ma poi scattano altre valutazioni".
Quali?
"Si interrogano se la pena di morte sia utile o meno, se serva effettivamente come deterrente ossia se rappresenti uno strumento realmente efficace per la prevenzione dei crimini".
Una domanda a cui voi rispondete no...
"Certo, secondo noi di Amnesty International la pena di morte non funge da deterrente. Ma non lo diciamo soltanto noi, lo testimoniano anche gli studi criminologici delle Nazioni Unite. Però poi entrano in gioco anche altri fattori, per esempio nell'Illinois la pena capitale è stata abolita perché sono stati registrati troppi errori giudiziari. Badi bene, non si è trattato di un'abolizione per principio ma soltanto perché, dopo averle giustiziate, si sono resi conto che molti condannati erano innocenti".
Invece ora subentrano delle considerazioni più strettamente economiche...
"Fino a qualche tempo fa c'era chi sosteneva che la pena dell'ergastolo avesse un costo più alto per la società perché lasciare in carcere un detenuto, che ha commesso un grave crimine, voleva dire mantenerlo in vita per trenta o quarant'anni. In realtà non è così perché il modo in cui si svolgono i processi capitali, gli appelli, le istanze per la grazia, nonché l'esigenza di tenere efficienti tutte le strutture e le strumentazioni necessarie a dare la morte al condannato fanno in modo che una condanna capitale costi di più per lo Stato rispetto a una lunga pena detentiva".
E qual è la vostra reazione di fronte a questi conti?
"A noi di Amnesty International, ma posso dire a tutto il movimento abolizionista, interessa l'obiettivo finale che è quello appunto di cancellare ovunque la pena di morte. Noi siamo fermamente convinti che lo strumento della pena capitale sia ingiusto ma con quei Paesi che decidono, in maniera molto pragmatica, di non praticarla per convenienza economica, dialoghiamo volentieri. E accogliamo la loro decisione. Ci mancherebbe".
"Certo, secondo noi di Amnesty International la pena di morte non funge da deterrente. Ma non lo diciamo soltanto noi, lo testimoniano anche gli studi criminologici delle Nazioni Unite. Però poi entrano in gioco anche altri fattori, per esempio nell'Illinois la pena capitale è stata abolita perché sono stati registrati troppi errori giudiziari. Badi bene, non si è trattato di un'abolizione per principio ma soltanto perché, dopo averle giustiziate, si sono resi conto che molti condannati erano innocenti".
Invece ora subentrano delle considerazioni più strettamente economiche...
"Fino a qualche tempo fa c'era chi sosteneva che la pena dell'ergastolo avesse un costo più alto per la società perché lasciare in carcere un detenuto, che ha commesso un grave crimine, voleva dire mantenerlo in vita per trenta o quarant'anni. In realtà non è così perché il modo in cui si svolgono i processi capitali, gli appelli, le istanze per la grazia, nonché l'esigenza di tenere efficienti tutte le strutture e le strumentazioni necessarie a dare la morte al condannato fanno in modo che una condanna capitale costi di più per lo Stato rispetto a una lunga pena detentiva".
E qual è la vostra reazione di fronte a questi conti?
"A noi di Amnesty International, ma posso dire a tutto il movimento abolizionista, interessa l'obiettivo finale che è quello appunto di cancellare ovunque la pena di morte. Noi siamo fermamente convinti che lo strumento della pena capitale sia ingiusto ma con quei Paesi che decidono, in maniera molto pragmatica, di non praticarla per convenienza economica, dialoghiamo volentieri. E accogliamo la loro decisione. Ci mancherebbe".
Tra gli Stati che starebbero per prendere la decisione di rinunciare definitivamente alla pena di morte ce ne sono due - Kansas e New Hampshire - che da molto tempo non fanno più esecuzioni capitali. Sembra un controsenso...
"No, perché la macchina della pena capitale è molto costosa: si devono mantenere in funzione gli strumenti che servono a mettere a morte, gli uffici giudiziari competenti, il personale, la commissione per valutare le domande di grazia, i bracci della morte. Sono settori vuoti ma ci sono. In realtà stiamo parlando di Stati che di fatto hanno smesso da tempo di fare esecuzioni capitali. Questa decisione comporterebbe lo smantellamento dell'apparato e farebbe diventare questa tendenza una scelta definitiva".
Invece c'è lo Stato del Texas che continua a praticarla convintamente e che neanche si pone il problema economico..."Sì, il Texas continua a mandare a morte, le esecuzioni sono state 559 dal 1976 a oggi. Magari decidesse di tornare sui propri passi".
Sarebbe un esempio importante anche per tutti quei Paesi che continuano a condannare a morte...
"E' chiaro. La strategia per l'abolizione della pena di morte è molto articolata, ha tempi lunghi e si procede un passo alla volta. Però oggi, nel mondo, c'è una sensibilità diversa rispetto a quarant'anni fa: nel 1975 o nel 1980 la maggioranza delle nazioni era favorevole, ormai si va verso l'abolizione".
"No, perché la macchina della pena capitale è molto costosa: si devono mantenere in funzione gli strumenti che servono a mettere a morte, gli uffici giudiziari competenti, il personale, la commissione per valutare le domande di grazia, i bracci della morte. Sono settori vuoti ma ci sono. In realtà stiamo parlando di Stati che di fatto hanno smesso da tempo di fare esecuzioni capitali. Questa decisione comporterebbe lo smantellamento dell'apparato e farebbe diventare questa tendenza una scelta definitiva".
Invece c'è lo Stato del Texas che continua a praticarla convintamente e che neanche si pone il problema economico..."Sì, il Texas continua a mandare a morte, le esecuzioni sono state 559 dal 1976 a oggi. Magari decidesse di tornare sui propri passi".
Sarebbe un esempio importante anche per tutti quei Paesi che continuano a condannare a morte...
"E' chiaro. La strategia per l'abolizione della pena di morte è molto articolata, ha tempi lunghi e si procede un passo alla volta. Però oggi, nel mondo, c'è una sensibilità diversa rispetto a quarant'anni fa: nel 1975 o nel 1980 la maggioranza delle nazioni era favorevole, ormai si va verso l'abolizione".
Come si costruisce una cultura in questo senso?
"Prima le scelte devono essere fatte dalle autorità, secondo proprie motivazioni, poi una volta attuate - quando si vede che non c'è un aumento della criminalità - i cittadini si abituano al fatto di essere in uno Stato abolizionista. Normalmente il consenso all'abolizione cresce successivamente al provvedimento".
"Prima le scelte devono essere fatte dalle autorità, secondo proprie motivazioni, poi una volta attuate - quando si vede che non c'è un aumento della criminalità - i cittadini si abituano al fatto di essere in uno Stato abolizionista. Normalmente il consenso all'abolizione cresce successivamente al provvedimento".
Massimo Filipponi
venerdì 22 febbraio 2019
Italia è allarme razzismo, atti di violenza triplicati un anno: 46 nel 2017, 126 nel 2018. Mostrarsi xenofobi non è più un tabù
La Repubblica
Sacko Soumaila era un bracciante regolare, impegnato nel sindacato di base, padre di una bambina di 5 anni, arrivato dal Mali per lavorare nei campi calabresi per soli 3 euro l'ora. Il 3 giugno scorso, a San Calogero, viene ucciso a fucilate mentre sta rovistando tra lamiere abbandonate.
Sacko Soumaila era un bracciante regolare, impegnato nel sindacato di base, padre di una bambina di 5 anni, arrivato dal Mali per lavorare nei campi calabresi per soli 3 euro l'ora. Il 3 giugno scorso, a San Calogero, viene ucciso a fucilate mentre sta rovistando tra lamiere abbandonate.
Pochi giorni dopo, il 12 giugno, a Napoli un giovane algerino protesta per un'auto che non si ferma sulle strisce pedonali e viene accoltellato da tre giovani napoletani. Lo stesso giorno due uomini ...
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Vladimiro Polchi
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In Egitto 9 esecuzioni capitali, 15 a febbraio. La «giustizia» di al-Sisi: processi di massa e confessioni sotto tortura.
Il Manifesto
La «giustizia» al tempo di al-Sisi. Processi di massa e confessioni estorte con la tortura. Vertiginoso aumento delle impiccagioni dal golpe del 2013. Le ultime eseguite a pochi giorni da attacchi jihadisti in Sinai, un osso per l'opinione pubblica
Sono stati impiccati il 20 mattina in una prigione del Cairo: i nove prigionieri uccisi ieri dal regime egiziano sono solo gli ultimi di una campagna di esecuzioni che ha raggiunto un nuovo apice nelle ultime settimane.
La «giustizia» al tempo di al-Sisi. Processi di massa e confessioni estorte con la tortura. Vertiginoso aumento delle impiccagioni dal golpe del 2013. Le ultime eseguite a pochi giorni da attacchi jihadisti in Sinai, un osso per l'opinione pubblica
Sono stati impiccati il 20 mattina in una prigione del Cairo: i nove prigionieri uccisi ieri dal regime egiziano sono solo gli ultimi di una campagna di esecuzioni che ha raggiunto un nuovo apice nelle ultime settimane.
A guardarne in foto i volti giovani e sorridenti, lo zainetto in spalla, Ahmed Wahdan, Abul Qassem Youssef, Ahmed Gamal Hegazy, Mahmoud al-Ahmady, Abu Bakr Abdel Megid, Abdel Rahman Soliman Kahwash, Ahmed al-Degwy, Ahmed Mahrous e Islam Mekkawy non sembrano affatto gli spietati esecutori di un omicidio.
Sono stati accusati, sulla base solo delle loro confessioni sotto tortura, di aver pianificato ed eseguito l’assassinio dell’ex procuratore generale Hisham Barakat, ucciso nel giugno 2015 da un’autobomba. Alle famiglie, dice il loro legale, è stato comunicato la notte precedente ma non è stato dato il permesso (un diritto sancito) di far loro visita: venite a prendervi i corpi in obitorio, il messaggio.
Dubbi sulla loro colpevolezza erano stati sollevati su Facebook dalla figlia dello stesso Barakat, Marwa, la notte prima delle impiccagioni: «Questi giovani non sono i killer di mio padre, moriranno ingiustamente». Un post poi sostituito da uno di tutt’altro tenore con il fratello di Marwa che si affrettava a parlare di un hacker infiltrato nel suo profilo Fb.
Qualunque sia l’opinione della famiglia dell’ex procuratore, restano i corpi dei nove giovani. Che si aggiungono a quelli dei sei giustiziati nelle ultime due settimane, denuncia il gruppo contro la pena di morte Reprieve: tre accusati dell’omicidio di un funzionario di polizia e tre per quello del figlio di un giudice, entrambi nel settembre 2013, un mese dopo il massacro di Rabaa (un migliaio di sostenitori del deposto presidente Morsi uccisi dalle forze armate egiziane).
Tutte e tre le ultime esecuzioni sono avvenute a pochi giorni da attacchi islamisti in Sinai contro l’esercito, a sancire quella che sembra un osso da lanciare all’opinione pubblica.
«Le esecuzioni sono salite alle stelle – dice la direttrice di Reprieve, Maya Foa – tra abusi diffusi, violazioni giudiziarie, torture, confessioni false e l’uso ripetuto di processi di massa». In sintesi il sistema giudiziario plasmato dall’ex generale al-Sisi dopo il golpe del luglio 2013. A condannare le ultime esecuzioni è stata Amnesty, il giorno prima, sperando di fermare il boia: «Giustiziare prigionieri o condannarli sulla base di confessioni estratte con la tortura non è giustizia», il commento di Najia Bounaim, direttrice di Ai per il Nord Africa.
Dal luglio 2013 le corti militari e civili egiziane hanno condannato a morte 1.451 persone, per lo più membri (o sospetti tali) dei Fratelli musulmani, alla fine di processi di massa che violano i principi standard di equità e spesso sulla base di confessioni estorte e di detenzioni cautelari lunghe anni. Di queste, secondo Reprieve, ne sono state eseguite 83 tra gennaio 2014 e febbraio 2018. Più alti i numeri forniti dal database della Cornell Law School, costruito sulla base dei report di organizzazioni per i diritti umani: dal 2013 sono stati uccisi almeno 143 condannati a morte; tra il 2007 e il 2012 se ne contarono 12.
Non solo pena di morte: la scorsa settimana delle 156 persone condannate da una corte militare 26 erano minori al tempo dell’arresto, nel 2014. Dopo quasi cinque anni di detenzione cautelare, a ragazzini che all’epoca avevano tra 14 e 17 anni sono state comminate pene dai tre ai cinque anni di prigione, in violazione della legge egiziana che proibisce l’arresto sotto i 15 anni di età e impone il giudizio da parte di una corte minorile. Dal luglio 2013 sono stati detenuti in Egitto quasi 3.200 minori.
Sono stati accusati, sulla base solo delle loro confessioni sotto tortura, di aver pianificato ed eseguito l’assassinio dell’ex procuratore generale Hisham Barakat, ucciso nel giugno 2015 da un’autobomba. Alle famiglie, dice il loro legale, è stato comunicato la notte precedente ma non è stato dato il permesso (un diritto sancito) di far loro visita: venite a prendervi i corpi in obitorio, il messaggio.
Dubbi sulla loro colpevolezza erano stati sollevati su Facebook dalla figlia dello stesso Barakat, Marwa, la notte prima delle impiccagioni: «Questi giovani non sono i killer di mio padre, moriranno ingiustamente». Un post poi sostituito da uno di tutt’altro tenore con il fratello di Marwa che si affrettava a parlare di un hacker infiltrato nel suo profilo Fb.
Qualunque sia l’opinione della famiglia dell’ex procuratore, restano i corpi dei nove giovani. Che si aggiungono a quelli dei sei giustiziati nelle ultime due settimane, denuncia il gruppo contro la pena di morte Reprieve: tre accusati dell’omicidio di un funzionario di polizia e tre per quello del figlio di un giudice, entrambi nel settembre 2013, un mese dopo il massacro di Rabaa (un migliaio di sostenitori del deposto presidente Morsi uccisi dalle forze armate egiziane).
Tutte e tre le ultime esecuzioni sono avvenute a pochi giorni da attacchi islamisti in Sinai contro l’esercito, a sancire quella che sembra un osso da lanciare all’opinione pubblica.
«Le esecuzioni sono salite alle stelle – dice la direttrice di Reprieve, Maya Foa – tra abusi diffusi, violazioni giudiziarie, torture, confessioni false e l’uso ripetuto di processi di massa». In sintesi il sistema giudiziario plasmato dall’ex generale al-Sisi dopo il golpe del luglio 2013. A condannare le ultime esecuzioni è stata Amnesty, il giorno prima, sperando di fermare il boia: «Giustiziare prigionieri o condannarli sulla base di confessioni estratte con la tortura non è giustizia», il commento di Najia Bounaim, direttrice di Ai per il Nord Africa.
Dal luglio 2013 le corti militari e civili egiziane hanno condannato a morte 1.451 persone, per lo più membri (o sospetti tali) dei Fratelli musulmani, alla fine di processi di massa che violano i principi standard di equità e spesso sulla base di confessioni estorte e di detenzioni cautelari lunghe anni. Di queste, secondo Reprieve, ne sono state eseguite 83 tra gennaio 2014 e febbraio 2018. Più alti i numeri forniti dal database della Cornell Law School, costruito sulla base dei report di organizzazioni per i diritti umani: dal 2013 sono stati uccisi almeno 143 condannati a morte; tra il 2007 e il 2012 se ne contarono 12.
Non solo pena di morte: la scorsa settimana delle 156 persone condannate da una corte militare 26 erano minori al tempo dell’arresto, nel 2014. Dopo quasi cinque anni di detenzione cautelare, a ragazzini che all’epoca avevano tra 14 e 17 anni sono state comminate pene dai tre ai cinque anni di prigione, in violazione della legge egiziana che proibisce l’arresto sotto i 15 anni di età e impone il giudizio da parte di una corte minorile. Dal luglio 2013 sono stati detenuti in Egitto quasi 3.200 minori.
Ceraso, provincia di Salerno, cittadinanza onoraria ai bimbi migranti. Un gesto per contrastare i danni del decreto sicurezza
Voce di Napoli
Tredici minori figli di migranti e ospiti a Ceraso (piccolo comune in provincia di Salerno) sono diventati cittadini onorari. L’annuncio, che risale a un mese fa, è l’ennesimo esempio di integrazione che contraddistingue il paese, la cui comunità straniera è ormai perfettamente integrata nella popolazione.
I minori, tra cui spicca la neonata Suheila, riceveranno la cittadinanza onoraria oggi 19 febbraio alle 15,30 a Palazzo di Lorenzo. Il sindaco Gennaro Maione consegnerà personalmente le onorificenze ai giovani cittadini. “Purtroppo è solo un riconoscimento simbolico, avremmo voluto fare di più – sono le parole del sindaco – ma la legge non lo consente. È comunque un segnale importante per la piena integrazione. È il nostro modo per dire no al decreto Salvini”. Tra poco però scadrà il permesso dei migranti per restare all’interno del progetto SPRAR (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) e perciò saranno costretti ad abbandonare le case nelle quali vivono.
Molti dei migranti che risiedono a Ceraso sono arrivati in Italia nel maggio del 2017, e grazie agli sforzi dell’amministrazione sono riusciti a trovare un lavoro, cosa che gli ha permesso di integrarsi più velocemente nella comunità locale. “Era opportuno che lavorassero –ha spiegato Maione– così la gente del paese non li ha visti restare senza far nulla e li ha accettati ancora meglio”.
Alla cerimonia saranno presenti, oltre al sindaco di Ceraso, la vicesindaco Pamela Ferrara, il presidente di Libera don Luigi Ciotti, il presidente della cooperativa sociale Emiliano Sanges, l’assessore ai Beni confiscati di Pignataro Maggiore Vincenzo Romagnolo, l’assessore ai Diritti di Cittadinanza e alla coesione sociale Laura Marmorale, Luisa Cavaliere dell’associazione culturale Festinalente e Riccardo Russo del servizio centrale SPRAR.
Tredici minori figli di migranti e ospiti a Ceraso (piccolo comune in provincia di Salerno) sono diventati cittadini onorari. L’annuncio, che risale a un mese fa, è l’ennesimo esempio di integrazione che contraddistingue il paese, la cui comunità straniera è ormai perfettamente integrata nella popolazione.
I minori, tra cui spicca la neonata Suheila, riceveranno la cittadinanza onoraria oggi 19 febbraio alle 15,30 a Palazzo di Lorenzo. Il sindaco Gennaro Maione consegnerà personalmente le onorificenze ai giovani cittadini. “Purtroppo è solo un riconoscimento simbolico, avremmo voluto fare di più – sono le parole del sindaco – ma la legge non lo consente. È comunque un segnale importante per la piena integrazione. È il nostro modo per dire no al decreto Salvini”. Tra poco però scadrà il permesso dei migranti per restare all’interno del progetto SPRAR (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) e perciò saranno costretti ad abbandonare le case nelle quali vivono.
Molti dei migranti che risiedono a Ceraso sono arrivati in Italia nel maggio del 2017, e grazie agli sforzi dell’amministrazione sono riusciti a trovare un lavoro, cosa che gli ha permesso di integrarsi più velocemente nella comunità locale. “Era opportuno che lavorassero –ha spiegato Maione– così la gente del paese non li ha visti restare senza far nulla e li ha accettati ancora meglio”.
Alla cerimonia saranno presenti, oltre al sindaco di Ceraso, la vicesindaco Pamela Ferrara, il presidente di Libera don Luigi Ciotti, il presidente della cooperativa sociale Emiliano Sanges, l’assessore ai Beni confiscati di Pignataro Maggiore Vincenzo Romagnolo, l’assessore ai Diritti di Cittadinanza e alla coesione sociale Laura Marmorale, Luisa Cavaliere dell’associazione culturale Festinalente e Riccardo Russo del servizio centrale SPRAR.
giovedì 21 febbraio 2019
Il Governo ostacola il Reddito di cittadinanza agli extracomunitari alzando un muro di burocrazia
Globalist
Tutte le certificazioni di reddito e patrimonio e del nucleo familiare degli extracomunitari, dovranno essere rilasciate dallo Stato di provenienza, tradotte in italiano e legalizzata dall'Autorità consolare italiana.
La commissione Lavoro del Senato ha approvato un emendamento della Lega che costringe i cittadini extracomunitari a presentare la "certificazione" di reddito e patrimonio e del nucleo familiare rilasciata dallo Stato di provenienza, "tradotta" in italiano e "legalizzata dall'Autorità consolare italiana".
Esentati i rifugiati politici e chi proviene da Paesi dai quali non è possibile ottenere la certificazione. Il ministero del Lavoro avrà però tre mesi per stilare la lista di questi Paesi.
Tutte le certificazioni di reddito e patrimonio e del nucleo familiare degli extracomunitari, dovranno essere rilasciate dallo Stato di provenienza, tradotte in italiano e legalizzata dall'Autorità consolare italiana.
Esentati i rifugiati politici e chi proviene da Paesi dai quali non è possibile ottenere la certificazione. Il ministero del Lavoro avrà però tre mesi per stilare la lista di questi Paesi.
Melegnano - Scritte razziste sulla casa di un ragazzo senegalese adottato. La madre: 'Razzismo fenomeno amplificato dai politici come Salvini'
Ansa
"Ammazza al negar", ammazza il negro: è questa la scritta minacciosa, seguita da una svastica, apparsa sul muro di casa di una coppia che ha adottato un ragazzo africano, a Melegnano, nel Milanese.
L'episodio è stato scoperto lo scorso lunedì mattina (ma è emerso oggi) quando i due, un educatore e la sua compagna, hanno trovato la scritta sul muro perimetrale di casa. Non si tratta inoltre del primo episodio in quanto una scritta analoga ("Pagate per questi negri di m...") era già apparsa sempre sul muro di casa della famiglia, che ospita da due anni, e infine ha adottato, un 22enne senegalese.
La coppia poi ha sporto denuncia nella caserma di Melegnano, e delle indagini si occupano i carabinieri della Compagnia di S.Donato Milanese e della Procura della Repubblica di Lodi.
"Quello che sta accadendo in tanti casi oggi in Italia è amplificato anche da politici come Salvini": ha detto Angela Bedoni, mamma di Bakary. "Questo episodio è il primo del genere nella vita di mio figlio, ma forse perché clima di oggi non è il clima che si respirava tre anni fa. Il problema è che l'immigrazione non è un problema", ha aggiunto.
La replica del ministro: "Io rispetto il dolore di una mamma, abbraccio suo figlio e condanno ogni forma di razzismo. E la signora rispetti la richiesta di sicurezza e legalità che arriva dagli italiani, che io concretizzo come ministro. Bloccare gli scafisti e i loro complici, fermare l'immigrazione clandestina, assumere poliziotti, installare telecamere ed espellere criminali è semplicemente giustizia, non è razzismo o tantomeno razzismo".
"Ammazza al negar", ammazza il negro: è questa la scritta minacciosa, seguita da una svastica, apparsa sul muro di casa di una coppia che ha adottato un ragazzo africano, a Melegnano, nel Milanese.
L'episodio è stato scoperto lo scorso lunedì mattina (ma è emerso oggi) quando i due, un educatore e la sua compagna, hanno trovato la scritta sul muro perimetrale di casa. Non si tratta inoltre del primo episodio in quanto una scritta analoga ("Pagate per questi negri di m...") era già apparsa sempre sul muro di casa della famiglia, che ospita da due anni, e infine ha adottato, un 22enne senegalese.
La coppia poi ha sporto denuncia nella caserma di Melegnano, e delle indagini si occupano i carabinieri della Compagnia di S.Donato Milanese e della Procura della Repubblica di Lodi.
"Quello che sta accadendo in tanti casi oggi in Italia è amplificato anche da politici come Salvini": ha detto Angela Bedoni, mamma di Bakary. "Questo episodio è il primo del genere nella vita di mio figlio, ma forse perché clima di oggi non è il clima che si respirava tre anni fa. Il problema è che l'immigrazione non è un problema", ha aggiunto.
La replica del ministro: "Io rispetto il dolore di una mamma, abbraccio suo figlio e condanno ogni forma di razzismo. E la signora rispetti la richiesta di sicurezza e legalità che arriva dagli italiani, che io concretizzo come ministro. Bloccare gli scafisti e i loro complici, fermare l'immigrazione clandestina, assumere poliziotti, installare telecamere ed espellere criminali è semplicemente giustizia, non è razzismo o tantomeno razzismo".
Immigrazione - Il neo-schiavismo nelle campagne italiane. 400mila lavoratori stranieri desindacalizzati, sfruttati e ricattati
Diritti Globali
Agromafie e sfruttamento. Intervista a Francesco Carchedi, a cura di Massimo Franchi, dal 16° Rapporto sui diritti globali.
Nel complessivo indebolimento del mondo del lavoro prodotto dalla liberalizzazione globale dei mercati e dal turboliberismo, un settore, quello agricolo, mostra ferite ancora più evidenti.
Agromafie e sfruttamento. Intervista a Francesco Carchedi, a cura di Massimo Franchi, dal 16° Rapporto sui diritti globali.
Nel complessivo indebolimento del mondo del lavoro prodotto dalla liberalizzazione globale dei mercati e dal turboliberismo, un settore, quello agricolo, mostra ferite ancora più evidenti.
Oggi un terzo degli addetti in agricoltura in Italia (400.0000 su 1.200.000) sono stranieri, per lo più desindacalizzati e sottoposti a un intenso sfruttamento perché più facilmente ricattabili dagli imprenditori. Ci sono poi, secondo le stime della FLAI-CGIL, 200.000 i lavoratori informali, molti in nero, ancor più ricattati e sottoposti a condizioni inaccettabili.
Il caso di Paola Clemente, morta di fatica sui campi nel 2015, ha dimostrato però come anche gli italiani siano pesantemente sfruttati e come a fare caporalato siano anche le agenzie interinali.
Il caso di Paola Clemente, morta di fatica sui campi nel 2015, ha dimostrato però come anche gli italiani siano pesantemente sfruttati e come a fare caporalato siano anche le agenzie interinali.
La legge 199 del 2016 giustamente attribuisce all’imprenditore la responsabilità dell’ingaggio del caporale e della manodopera. Ma quella buona normativa presenta ancora criticità che vanno sanate. Il caporalato è un fenomeno storico, non limitato, come spesso si crede al Sud d’Italia: è presente anche al Nord, così come in altri Paesi europei, dalla Spagna, alla Francia, alla Germania.
È dunque necessario guardare al fenomeno con uno sguardo globale, anche perché, ci dice Francesco Carchedi, docente all’Università di Roma e collaboratore dell’Osservatorio Placido Rizzotto sulle agromafie, a esso contribuiscono indirettamente le multinazionali con il land grabbing, un processo neocoloniale di acquisizione delle terre senza il consenso delle comunità che ci abitano, in Africa e non solo; processo che alimenta anche i flussi migratori verso le campagne italiane.
mercoledì 20 febbraio 2019
Save the Children. Sono 420 milioni i bambini che vivono in zone di guerra. Nel 2017: 10mila uccisi, 100mila morti di neonati causate dalle guerre
Avvenire
L'ong lancia il rapporto "Stop alla guerra sui bambini": nel 2017 oltre 10 mila uccisi o mutilati, 100 mila neonati l'anno muoiono per fame o malattie. Petizione contro le bombe italiane in Yemen
Sono stati oltre 10 mila i bambini uccisi o mutilati nel 2017 dai bombardamenti nelle aree di guerra. E 100 mila i neonati che muoiono ogni anno per cause dirette e indirette delle guerre, come malattie e malnutrizione. Sono solo alcuni dei dati presentati da Save the Children nel suo nuovo rapporto Stop alla guerra sui bambini che denuncia, tra l'altro, l'utilizzo da parte della Coalizione a guida saudita in Yemen per colpire obiettivi civili di bombe prodotte anche in Italia.
Nel mondo dunque sono 420 milioni - uno su cinque - i bambini che vivono in zone di conflitto, oltre 30 milioni in più del 2016 e il doppio dalla fine della Guerra Fredda. E 4,5 milioni hanno rischiato di morire per fame nei dieci Paesi coinvolti nelle guerre più sanguinose: Afghanistan, Yemen, Sud Sudan, Repubblica Centrafricana, Repubblica democratica del Congo, Siria, Iraq, Mali, Nigeria e Somalia.
L'ong lancia il rapporto "Stop alla guerra sui bambini": nel 2017 oltre 10 mila uccisi o mutilati, 100 mila neonati l'anno muoiono per fame o malattie. Petizione contro le bombe italiane in Yemen
Sono stati oltre 10 mila i bambini uccisi o mutilati nel 2017 dai bombardamenti nelle aree di guerra. E 100 mila i neonati che muoiono ogni anno per cause dirette e indirette delle guerre, come malattie e malnutrizione. Sono solo alcuni dei dati presentati da Save the Children nel suo nuovo rapporto Stop alla guerra sui bambini che denuncia, tra l'altro, l'utilizzo da parte della Coalizione a guida saudita in Yemen per colpire obiettivi civili di bombe prodotte anche in Italia.
In termini assoluti l'Asia è il luogo dove vivono più bambini in aree di conflitto, circa 195 milioni. In percentuale, invece, il primato spetta al Medio Oriente con il 40 per cento dei bambini che vivono in zone di guerra, pari a 35 milioni.
Solo in Yemen, 85mila bambini sotto i cinque anni sono morti per fame o per malattie gravi dall'inizio del conflitto, tre anni fa.«È sconvolgente - spiegato Valerio Neri, direttore generale di Save the Children - che nel XXI secolo arretriamo su principi e standard morali così semplici: proteggere i bambini e i civili dovrebbe essere un imperativo, eppure ogni giorno i bambini vengono attaccati, perché i gruppi armati e le forze militari violano le leggi e i trattati internazionali». Innumerevoli le violazioni dei diritti dei piccoli che hanno avuto la sfortuna di nascere in zone di guerra.
E il Consiglio di Sicurezza dell'Onu ha identificato sei gravissime categorie che vanno dall'uccisione e mutilazioni al reclutamento dei bambini soldato, soprattutto in Paesi come la Repubblica Centrafricana alla Repubblica democratica del Congo, dalla violenza sessuale ai rapimenti, agli attacchi a scuole e ospedali fino alla negazione dell'accesso agli aiuti umanitari.
Secondo l'analisi basata sui rapporti delle Nazioni Unite, il numero di violazioni dei diritti dei minori nel 2017 è stato di 25mila, il numero più alto mai registrato prima.