Moria è il più grande campo d’identificazione ed espulsione in Grecia, allestito sull’isola di Lesbo nel 2015 per identificare i richiedenti asilo e i migranti in arrivo dalle coste turche a quelle greche dall’Asia, dall’Africa e dal Medio Oriente.
Per ridurre il flusso di persone, circa 861.000 arrivate via mare e via terra secondo l’Unhcr nel 2015, l’Unione europea ha stipulato nel 2016 un accordo con la Turchia, che prevedeva che in questi hotspot, a Lesbo e nelle altre tre isole greche di Samos, Kos e Kios, le persone fossero registrate e sottoposte a interviste per valutare il grado di vulnerabilità e l’idoneità alla protezione internazionale.
Quelli considerati non idonei dovevano essere rispediti in Turchia, la quale però non accetta migranti rimpatriati provenienti dalla terra ferma. La conseguenza è che le persone, prima di essere sottoposte alla commissione d’asilo, che può avvenire anche anni dopo l’arrivo a Lesbo, rimangono bloccate sull’isola, diventata così una prigione a cielo aperto.
Quelli considerati non idonei dovevano essere rispediti in Turchia, la quale però non accetta migranti rimpatriati provenienti dalla terra ferma. La conseguenza è che le persone, prima di essere sottoposte alla commissione d’asilo, che può avvenire anche anni dopo l’arrivo a Lesbo, rimangono bloccate sull’isola, diventata così una prigione a cielo aperto.
Il campo di Moria non è più solo un campo di transito, ma un accampamento dove i richiedenti asilo stanziano per anni in condizione igieniche, sanitarie e sociali decadenti.
C’è un bagno ogni 70 persone e non tutti riescono a procurarsi il cibo se non si svegliano all’alba per mettersi in fila. Gli ospiti vivono in cattività, alcuni subiscono e perpetrano violenze, o tentano il suicidio, perdono lentamente il loro senso di umanità, già messo alla prova nei paesi da cui sono fuggiti, principalmente Afghanistan, Siria e Iraq.
Alessandro Barberio è uno psichiatra dell’equipe del dipartimento di salute mentale di Trieste e ha testimoniato tutto questo a partire da gennaio del 2018, quando è arrivato per la prima volta a Lesbo per far parte dell’equipe di Medici Senza Frontiere (MSF).
C’è un bagno ogni 70 persone e non tutti riescono a procurarsi il cibo se non si svegliano all’alba per mettersi in fila. Gli ospiti vivono in cattività, alcuni subiscono e perpetrano violenze, o tentano il suicidio, perdono lentamente il loro senso di umanità, già messo alla prova nei paesi da cui sono fuggiti, principalmente Afghanistan, Siria e Iraq.
Alessandro Barberio è uno psichiatra dell’equipe del dipartimento di salute mentale di Trieste e ha testimoniato tutto questo a partire da gennaio del 2018, quando è arrivato per la prima volta a Lesbo per far parte dell’equipe di Medici Senza Frontiere (MSF).
“A Trieste avevo già curato migranti vittime di tratta o tortura, ma mai avuto a che fare con un numero così alto di persone che ogni giorno presentava gli stessi sintomi, con storie simili e stessi livelli di violenza subita. Chi arriva da paesi come il Camerun o il Congo, subisce una violenza devastante. Le persone sono perseguitate, vedono i propri cari morti davanti a loro, fratelli decapitati”.
“Questa violenza li insegue fino a Moria, dove le condizioni del campo non li tranquillizzano, ma anzi fanno esplodere i sintomi. Alla sindrome post traumatica da stress, si aggiungono allucinazioni visive e uditive, angoscia elevata, confusione, disorganizzazione, che a volte li porta a tentare il suicidio: se per giorni non riesci a dormire perché senti o vedi continuamente allucinazioni minacciose, collegate agli episodi di violenza, sei portato a fare anche questo”.
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