Dalle inchieste siciliane emerge che diversi ufficiali di Tripoli fanno il doppio gioco, facendosi pagare per portare i migranti nelle zone in cui ci sono navi che possono soccorrerli. Una rivelazione che getta oscure ombre sull'aiuto militare dell'Italia e della Ue.
Torturano i migranti nei campi di prigionia. Se questi pagano di nuovo, li fanno partire e li lasciano in mare vicino a qualche nave di passaggio. Poi cambiano vestito, indossano la divisa, e li vanno a riprendere con le navi della Guardia Costiera. E li riportano nei lager dove tutto ricomincia.
Un’inchiesta dell’Espresso rivela che i boss del traffico di esseri umani e i comandanti della Guardia costiera che dovrebbero stroncarlo sono spesso le stesse persone. Addestrati, finanziati e forniti di imbarcazioni da Italia e Unione Europea.
Il doppio gioco di alcuni responsabili della Guardia costiera libica è confermato da oltre duemila testimonianze di migranti che sono agli atti di numerose inchieste giudiziarie, anche italiane, come quelle delle Procure di Trapani e di Catania.
E una conferma ulteriore è agli atti dell’inchiesta giudiziaria relativa al sequestro da parte della Procura di Trapani della nave Juventa della Ong tedesca Jugend Rettet, battente bandiera olandese. In particolare, riferendosi a un episodio avvenuto il 18 giugno 2017 si parla di «grave collusione tra singole unità della Guardia costiera libica e i trafficanti di esseri umani».
L’inchiesta della Procura di Catania (il processo si è concluso nell’estate scorsa) dimostra ancora il ruolo di alcuni ufficiali della Guardia costiera che facevano contemporaneamente i soccorritori ed i trafficanti.
Si tratta degli ufficiali della Guardia costiera libica Tarok All e Bdelbafid Mohammad, arrestati dai militari della nave della Marina militare Italiana “Bergamini” e poi condannati in Italia per traffico di essere umani. Un gruppo di africani ha riferito che i due ufficiali libici li avevano caricati sui loro barchini sulla spiaggia di Zuara accompagnandoli fino a qualche miglio dalla nave italiana per fuggire subito dopo.
Le procure di Trapani e Catania ormai hanno nomi, cognomi e tanti episodi scandalosi. Ma senza una collaborazione giudiziaria tra Italia e Libia resta difficile, nella maggior parte dei casi, incriminare i colpevoli.
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