La Repubblica
Coinvolti sudanesi ed eritrei che in patria svolgono un lungo servizio militare. La promessa di riacquistare la libertà. Seimila prigionieri solo nella capitale. Il grido d'aiuto arriva dal centro di detenzione di Qaser Ben Gashir con un messaggio vocale whatsapp, sullo sfondo le detonazioni delle bombe. "Abbiamo caricato armi e più tardi le caricheremo di nuovo.
Alcuni soldati sono andati via con le casse di armamenti, altri sono qui con noi. Gli abbiamo chiesto di riportarci in cella ma non vogliono". Quella che era una voce che circolava da un paio di giorni trova più di una conferma.
Nei centri di detenzione di Tripoli, quelli dove vengono reclusi arbitrariamente (come sottolinea l'Organizzazione internazionale delle migrazioni) i migranti soccorsi in mare dalla Guardia costiera libica, dai giorni vengono distribuite vecchie divise militari.
I migranti, soprattutto sudanesi ed eritrei che nei loro paesi sono costretti ad un infinito servizio militare, vengono "arruolati" dalle milizie di Al Serraji e utilizzati per rintuzzare l'avanzata dell'esercito di Haftar. Al momento con compiti di supporto, ma il precipitare della situazione fa temere che possano anche essere mandati al fronte.
"Ci viene riferito - dice l'inviato dell'Unhcr per il Mediterraneo centrale, Vincent Cochetel - che alcuni sudanesi sono stati rilasciati dai centri di detenzione, sono state date loro uniformi militari e gli è stato detto che potrebbero combattere". Quanto costretti o quanto volontariamente, "incentivati" dalla prospettiva di ritornare liberi e di lasciare quelle carceri in cui, solo a Tripoli, sono detenuti quasi 6000 migranti, 600 dei quali bambini, non è facile da definire. Il centro di Qaser Ben Gashir sarebbe il principale serbatoio di manodopera militare con improvvisi trasferimenti in luoghi sconosciuti di decine di migranti.
Diverse fonti accreditate sul territorio riferiscono che in almeno tre centri di detenzione a Tripoli sono state distribuite uniformi e ai migranti è stato ordinato di caricare armi sui convogli. A Qaser Ben Gashir, ad Ain Zara, ad Abu Salim, migliaia di migranti sono nel panico, con il terrore di fare la fine del topo in trappola. Alcuni di loro sono riusciti a far sentire la loro voce con messaggi, registrazioni e video via whatsapp.
"Ci sono molti tipi di armi di cui non conosciamo neanche i nomi, pistole, fucili, mitragliatori. Ci sono molte macchine piene di grosse pistole", è la testimonianza di un migrante riportata dall'Irish Times. Ma c'è anche un'emergenza umanitaria ormai in corso perché cibo, acqua e medicine non vengono distribuiti da giorni e in alcuni centri non c'è più neanche la luce. "Siamo molto preoccupati per la situazione - dicono i rappresentanti dell'Unhcr in Libia - soprattutto nei centri che ricadono nell'area degli scontri. Siamo pronti a supportare le opzioni che offrono sicurezza".
Lavora in condizioni difficilissime lo staff di Medici senza frontiere a Tripoli. "Il conflitto che infuria sta aumentando drasticamente la vulnerabilità dei profughi e riduce al contempo la capacità della comunità umanitaria di fornire risposte di salvataggio.
Lo stesso centro di detenzione in cui pochi giorni fa il segretario generale dell'Onu ha assistito alla sofferenza e alla disperazione dei migranti è ora coinvolto in un'area di conflitto attivo con 600 persone intrappolate tra cui molte donne e bambini e in un altro centro persone sono state arruolate per lavorare per gruppi armati - conferma Craig Kenzie, coordinatore del progetto di Msf a Tripoli. Facciamo appello affinché tutti i rifugiati e i migranti detenuti siano immediatamente evacuati e chiediamo che le persone intercettate in mare non vengano riportate indietro. La Libia non è un posto sicuro, qui nessuno può garantire la loro sicurezza".
Alessandra Ziniti
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