Il parere giuridico della professoressa Francesca De Vittor sulla vicenda della nave della Ong che non ha rispettato il divieto di fare rotta su Lampedusa. «La comandante non ha fatto altro che rispettare un obbligo imposto dal diritto internazionale»
Nonostante la si accusi ora di aver violato le leggi dello Stato italiano, e in particolare il divieto di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina previsto dall’art. 12 del d.lgs. 186/1998 e il divieto di ingresso imposto dal Ministro dell’Interno sul fondamento del DL 53/2019, c.d. sicurezza-bis, la comandante Rackete, fin dall’inizio dei soccorsi, non ha fatto altro che rispettare un obbligo imposto dal diritto internazionale e dalle leggi sia italiane sia del suo stato di bandiera.
Ciò che in tutta questa vicenda appare invece manifestamente illegittimo, sia dal punto di vista del diritto costituzionale italiano sia del diritto internazionale è proprio il c.d. decreto sicurezza bis.L’obbligo di soccorso in mare è previsto sia dal diritto internazionale consuetudinario (che nel nostro ordinamento ha valore di diritto costituzionale in base al rinvio operato dall’art. 10 Cost.), sia dalla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (CNUDM) e dalla Convenzione di Amburgo sulla ricerca e il soccorso in mare (SAR) (entrambe ratificate dall’Italia e che nel nostro ordinamento hanno valore di legge, anzi superiore alla legge per l’art. 117 Cost.). Per previsione espressa di quest’ultima Convenzione il soccorso si conclude solo con lo sbarco delle persone in un porto sicuro, che è un porto in cui la loro vita non è più in pericolo e i diritti umani fondamentali sono loro garantiti.
L’unico porto di sbarco che era stato indicato alla Sea Watch 3 è il porto di Tripoli, dove nessuno sbarco di migranti è lecito perché in ragione delle gravissime violazioni dei diritti umani fondamentali che i migranti subiscono in Libia, nonché del conflitto in corso, la Libia non può essere in alcun modo considerata un porto sicuro (si veda da ultimo la Raccomandazione agli stati della Commissaria ai diritti umani del Consiglio d’Europa).
Come deciso dal GIP di Trapani in una recente sentenza l’essere riportati in Libia avrebbe costituito un’offesa ingiusta alla quale i migranti stessi avrebbero potuto opporsi anche con la forza in legittima difesa (art. 52 c.p.).
Una volta chiarito che verso Tripoli la Sea Watch non avrebbe in alcun caso potuto dirigersi, la comandante si è lecitamente diretta verso il porto sicuro più vicino, e quindi Lampedusa. Tutti gli stati membri della Convenzione SAR hanno l’obbligo di cooperare affinché il comandante della nave che ha prestato soccorso sia liberato dalla propria responsabilità (ovvero possa far sbarcare le persone soccorse) nel minor tempo possibile e con la minor deviazione dalla propria rotta.
L’aver individuato Lampedusa come luogo di sbarco costituisce quindi non solo un comportamento legittimo, ma anche il più ovvio da parte della Comandante che aveva una legittima aspettativa di vedersi assegnare lì un luogo di sbarco. Starà alla magistratura valutare eventuali responsabilità penali a carico della comandante e dell’equipaggio della nave, ma è presumibile che anche qualora eventuali comportamenti illeciti siano constatati venga comunque riconosciuta la scriminante dello stato di necessità (art. 54 c.p.) o dell’aver commesso il fatto in adempimento di un dovere (art. 51 c.p.). Va in ogni caso ricordato che in nessuno dei casi in cui sono state aperte indagini a carico di Ong per i soccorsi in mare si è mai giunti a una condanna: quando i giudici si sono pronunciati hanno sempre considerato legittimo il comportamento di chi aveva prestato il soccorso in mare.
Se di responsabilità si vuole parlare, sarebbe meglio parlare di quelle dell’Italia. Va infatti considerato che la nave, probabilmente già da prima, ma sicuramente da quando è entrata nelle acque territoriali italiane, si trova sotto la giurisdizione dell’Italia per l’applicazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, pertanto il prolungarsi del trattenimento a bordo della nave dei migranti, già estremamente provati, integra da parte dello Stato italiano una violazione dell’art. 3 e dell’art. 5 della Convenzione (su questa conclusione non incide il rifiuto della Corte di imporre all’Italia misure cautelari ed urgenti, tale pronuncia, infatti, non è sul merito della vicenda ma appunto solo sulla misura cautelare).
In un periodo in cui le più fondamentali norme dell’ordinamento internazionale e costituzionale sono sempre più spesso violate da politiche di ostacolo alle operazioni di soccorso in mare, studiosi e operatori del diritto sono chiamati a confrontarsi nel tentativo di fare chiarezza sul contenuto del diritto nazionale e internazionale applicabile e sulle conseguenze della sua violazione. È questo lo scopo della tavola rotonda su “La politica dei porti-chiusi. Questioni di legittimità e responsabilità nazionale ed internazionale” organizzata in Università Cattolica lunedì 15 luglio dalle 16.30 alle 18.30.
di Francesca De Vittor: docente di Diritto internazionale e Diritti dell’uomo alla facoltà di Giurisprudenza
Una volta chiarito che verso Tripoli la Sea Watch non avrebbe in alcun caso potuto dirigersi, la comandante si è lecitamente diretta verso il porto sicuro più vicino, e quindi Lampedusa. Tutti gli stati membri della Convenzione SAR hanno l’obbligo di cooperare affinché il comandante della nave che ha prestato soccorso sia liberato dalla propria responsabilità (ovvero possa far sbarcare le persone soccorse) nel minor tempo possibile e con la minor deviazione dalla propria rotta.
L’aver individuato Lampedusa come luogo di sbarco costituisce quindi non solo un comportamento legittimo, ma anche il più ovvio da parte della Comandante che aveva una legittima aspettativa di vedersi assegnare lì un luogo di sbarco. Starà alla magistratura valutare eventuali responsabilità penali a carico della comandante e dell’equipaggio della nave, ma è presumibile che anche qualora eventuali comportamenti illeciti siano constatati venga comunque riconosciuta la scriminante dello stato di necessità (art. 54 c.p.) o dell’aver commesso il fatto in adempimento di un dovere (art. 51 c.p.). Va in ogni caso ricordato che in nessuno dei casi in cui sono state aperte indagini a carico di Ong per i soccorsi in mare si è mai giunti a una condanna: quando i giudici si sono pronunciati hanno sempre considerato legittimo il comportamento di chi aveva prestato il soccorso in mare.
Se di responsabilità si vuole parlare, sarebbe meglio parlare di quelle dell’Italia. Va infatti considerato che la nave, probabilmente già da prima, ma sicuramente da quando è entrata nelle acque territoriali italiane, si trova sotto la giurisdizione dell’Italia per l’applicazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, pertanto il prolungarsi del trattenimento a bordo della nave dei migranti, già estremamente provati, integra da parte dello Stato italiano una violazione dell’art. 3 e dell’art. 5 della Convenzione (su questa conclusione non incide il rifiuto della Corte di imporre all’Italia misure cautelari ed urgenti, tale pronuncia, infatti, non è sul merito della vicenda ma appunto solo sulla misura cautelare).
In un periodo in cui le più fondamentali norme dell’ordinamento internazionale e costituzionale sono sempre più spesso violate da politiche di ostacolo alle operazioni di soccorso in mare, studiosi e operatori del diritto sono chiamati a confrontarsi nel tentativo di fare chiarezza sul contenuto del diritto nazionale e internazionale applicabile e sulle conseguenze della sua violazione. È questo lo scopo della tavola rotonda su “La politica dei porti-chiusi. Questioni di legittimità e responsabilità nazionale ed internazionale” organizzata in Università Cattolica lunedì 15 luglio dalle 16.30 alle 18.30.
di Francesca De Vittor: docente di Diritto internazionale e Diritti dell’uomo alla facoltà di Giurisprudenza