Ad un anno dall'annuncio del governo italiano di chiudere i propri porti alle navi umanitarie almeno 1.151 persone, uomini, donne e bambini, sono morte, e oltre 10.000 sono state riportate forzatamente in Libia, esposte ad ulteriori ed inutili sofferenze.
Lo scrivono Sos Mediterranee e Medici senza frontiere che chiedono di garantire con urgenza un sistema di ricerca e soccorso in mare adeguato, "compreso un coordinamento delle autorità competenti nel Mar Mediterraneo, per evitare morti inutili".
"La risposta dei governi europei alla crisi umanitaria nel Mar Mediterraneo e in Libia è stata una corsa al ribasso" sostiene Annemarie Loof, responsabile per le operazioni di MSF. "Un anno fa abbiamo implorato i governi europei di mettere al primo posto la vita delle persone. Abbiamo chiesto un intervento per mettere fine alla disumanizzazione delle persone vulnerabili in mare per finalità politiche.
Invece, ad un anno di distanza, la risposta europea ha raggiunto un punto ancora più basso". Da quando è stato bloccato l'ingresso nei porti italiani alla nave di ricerca e soccorso Aquarius, gestita da Sos Mediterranee in collaborazione con Msf, esattamente un anno fa, "lo stallo è diventato la nuova regola nel Mar Mediterraneo centrale, con oltre 18 incidenti documentati", fanno sapere le due organizzazioni.
Invece, ad un anno di distanza, la risposta europea ha raggiunto un punto ancora più basso". Da quando è stato bloccato l'ingresso nei porti italiani alla nave di ricerca e soccorso Aquarius, gestita da Sos Mediterranee in collaborazione con Msf, esattamente un anno fa, "lo stallo è diventato la nuova regola nel Mar Mediterraneo centrale, con oltre 18 incidenti documentati", fanno sapere le due organizzazioni.
Questi blocchi si sono protratti per un totale di 140 giorni, ovvero più di 4 mesi in cui 2.443 uomini, "donne e bambini sono rimasti trattenuti in mare mentre i leader europei decidevano il loro futuro.
La criminalizzazione del salvataggio di vite in mare non solo porta conseguenze negative per le navi umanitarie, ma sta erodendo il principio fondamentale del prestare assistenza alle persone che si trovano in pericolo. Le navi commerciali, e addirittura quelle militari, sono sempre più riluttanti nel soccorrere le persone in pericolo a causa dell'alto rischio di essere bloccate in mare e di vedersi negato lo sbarco in un porto sicuro.
Per le navi mercantili che effettuano un salvataggio, in particolare, diventa estremamente complicato rimanere bloccati o essere costretti a dover riportare le persone in Libia, in contrasto con il diritto internazionale".
"Un anno fa chiedevamo che stalli politici pericolosi e disumani in mare non costituissero un precedente. Invece, è esattamente quello che è successo - afferma Sam Turner, capomissione MSF in Libia - questa impasse politica tra i paesi europei e la loro incapacità di mettere la vita delle persone al primo posto, è ancora più scioccante oggi mentre i combattimenti continuano a imperversare a Tripoli".
Solo nelle ultime 6 settimane, un numero crescente di persone ha cercato di fuggire dalla Libia, con oltre 3.800 persone che sono salite a bordo di imbarcazioni insicure per tentare l'attraversata.
Anche se l'UNHCR e altre organizzazioni come MSF hanno chiesto un'evacuazione umanitaria di rifugiati e i migranti dalla Libia dall'inizio del conflitto a Tripoli, la realtà, dicono le organizzazioni umanitarie, è che per ciascuna persona che viene evacuata o trasferita nel 2018, più del doppio viene riportato forzatamente in Libia dalla Guardia costiera libica. "L'assenza di navi umanitarie nel Mediterraneo centrale in questo periodo mostra l'infondatezza dell'esistenza di un fattore di attrazione - dichiara Frédéric Penard, direttore delle operazioni di Sos Mediterranee - la realtà è che anche con un numero sempre minore di navi umanitarie in mare, le persone con poche alternative continueranno a provare questa attraversata mortale a prescindere dai rischi.
L'unica differenza, ora, è che queste persone corrono un rischio quattro volte maggiore di morire rispetto all'anno scorso, secondo l'Organizzazione Internazionale per le Migrazioni".
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