Il ruolo dei Tg, il racconto mediatico, il lavoro svolto dai giornalisti: così si crea una percezione sbagliata. Nel 2017, i casi di legittima difesa sono stati 27, di cui quattordici non sono stati neanche rinviati a giudizio.
Stesso ragionamento, vale per i reati. I dati del Viminale dicono che negli ultimi dieci anni sono dimezzati furti, rapine, omicidi. Ma la percezione delle persone è opposta, a tal punto che tra gli italiani crescono – come raccontato in questi anni dal Censis – odio e paura. Come mai? È la domanda che si sono fatti sul Corriere della sera Milena Gabanelli e Luigi Offedu. La risposta la hanno trovata mettendo sotto accusa i nostri Tg.
Nei cinque principali telegiornali il 36,4 per cento dei servizi è occupata dalla cronaca contro il 18,2 per cento della tv tedesca. La considerazione è esatta ma va ampliata tenendo conto di tutta la televisione italiana e ancora più in generale di tutta l’informazione. Sembra infatti che la responsabilità sia sempre degli altri (in questo caso i Tg) quando tutto il sistema mediatico italiano in questi anni ha soffiato sul fuoco, costruendo l’idea diffusa che siamo un Paese ad alto rischio criminalità e che lo Stato è assente in difesa dei propri cittadini.
Qualche tempo fa, partecipando a una trasmissione, il conduttore mi ha chiesto: «Ma se i reati diminuiscono perché le persone hanno questa percezione?». La risposta era insita nel suo programma, nelle ore e ore di servizi dedicati alle rapine, ai furti, ai furbetti del cartellino sottoposti alla gogna del pubblico e dopo qualche tempo assolti senza avere diritto di replica. L’attenzione va infatti posta non solo e non tanto sui Tg, quanto sull’intera programmazione della tv pubblica e privata. Dalla mattina fino a tarda notte chi guarda il piccolo schermo viene bombardato da servizi dedicati alle rapine, ai furti, alle persone che delinquono o alle persone che vengono accusate di aver commesso un reato e solo per questo sono considerate colpevoli.
È una dinamica che si fonda su alcuni fattori chiave. Proviamo a metterne in risalto alcuni. Il primo è quello della ridondanza: la stessa rapina viene mandata in onda più volte, con un montaggio e una musica che tendono a enfatizzare gli elementi violenti. Il secondo è quello della saturazione: tutto il palinsesto è costruito mettendo in evidenza gli aspetti negativi che accadono nella realtà. Il terzo è quello della “colpevolezza”: se si parla di una inchiesta viene presentata come una sentenza. Basta cioè un avviso di garanzia per essere giudicati colpevoli.
Se questo vale per l’informazione di carta, su cui bisogna rileggere la validissima ricerca fatta dall’Osservatorio informazione dell’Unione Camere penali, ancora di più è vero per la televisione, in cui l’impatto emotivo è più forte. Le immagini abbassano il livello di criticità, siamo più proni a pensare che ciò che vediamo sia vero, dimenticando – anche quando lo sappiano – che dietro c’è un punto di vista, una costruzione discorsiva, una visione del mondo. Per questo leggendo Gabanelli, domenica scorsa sul Corriere, sono rimasta un po’ allibita. Report per primo ha fatto passare l’immagine di un Paese allo sbando, in preda a bande di corrotti, dove tutto va male. In linea con l’attacco alla cosiddetta “casta” che ha conquistato un pezzo del giornalismo nostrano, il programma di Rai3 ha contribuito ad aumentare la sfiducia nei confronti della politica e dello Stato.
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Qualche tempo fa, partecipando a una trasmissione, il conduttore mi ha chiesto: «Ma se i reati diminuiscono perché le persone hanno questa percezione?». La risposta era insita nel suo programma, nelle ore e ore di servizi dedicati alle rapine, ai furti, ai furbetti del cartellino sottoposti alla gogna del pubblico e dopo qualche tempo assolti senza avere diritto di replica. L’attenzione va infatti posta non solo e non tanto sui Tg, quanto sull’intera programmazione della tv pubblica e privata. Dalla mattina fino a tarda notte chi guarda il piccolo schermo viene bombardato da servizi dedicati alle rapine, ai furti, alle persone che delinquono o alle persone che vengono accusate di aver commesso un reato e solo per questo sono considerate colpevoli.
È una dinamica che si fonda su alcuni fattori chiave. Proviamo a metterne in risalto alcuni. Il primo è quello della ridondanza: la stessa rapina viene mandata in onda più volte, con un montaggio e una musica che tendono a enfatizzare gli elementi violenti. Il secondo è quello della saturazione: tutto il palinsesto è costruito mettendo in evidenza gli aspetti negativi che accadono nella realtà. Il terzo è quello della “colpevolezza”: se si parla di una inchiesta viene presentata come una sentenza. Basta cioè un avviso di garanzia per essere giudicati colpevoli.
Se questo vale per l’informazione di carta, su cui bisogna rileggere la validissima ricerca fatta dall’Osservatorio informazione dell’Unione Camere penali, ancora di più è vero per la televisione, in cui l’impatto emotivo è più forte. Le immagini abbassano il livello di criticità, siamo più proni a pensare che ciò che vediamo sia vero, dimenticando – anche quando lo sappiano – che dietro c’è un punto di vista, una costruzione discorsiva, una visione del mondo. Per questo leggendo Gabanelli, domenica scorsa sul Corriere, sono rimasta un po’ allibita. Report per primo ha fatto passare l’immagine di un Paese allo sbando, in preda a bande di corrotti, dove tutto va male. In linea con l’attacco alla cosiddetta “casta” che ha conquistato un pezzo del giornalismo nostrano, il programma di Rai3 ha contribuito ad aumentare la sfiducia nei confronti della politica e dello Stato.
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