Se c'è un paese in cui espressioni come "invasione" o "alterazione etnica" potrebbero avere un senso, questo non è l'Italia ma il Libano. E non è per un presunto "piano Kalergi" ma per la guerra accanto. Tra registrati (938.531 secondo le Nazioni Unite) e irregolari (550.000 secondo il governo di Beirut), dal 2011 un milione e mezzo di rifugiati siriani - cui vanno aggiunti altri 31.000 palestinesi fuggiti dalla Siria - hanno aumentato di un quarto la popolazione del Libano.
E a "volontarizzare" le richieste di rientro contribuiscono ulteriori fattori: gli ostacoli frapposti al rinnovo dei permessi di soggiorno, gli sgomberi forzati di accampamenti precari, i tagli ai servizi essenziali, i coprifuoco, gli arresti di massa e - se tutto questo non bastasse - gli attacchi ai campi per rifugiati. Come quello del 5 giugno a Deir al-Ahmar, un campo informale nella valle della Bekaa che ospitava 600 rifugiati siriani e che oggi non esiste più: una cinquantina di uomini, nottetempo, ha dato fuoco a tre tende e ne ha rase al suolo con un bulldozer altre due.
Chi soffia sul fuoco? I sovranisti locali: il Movimento dei liberi patrioti. L'8 giugno ha avviato una distribuzione massiccia di volantini con questi slogan: "La Siria è un paese sicuro e il Libano non ce la fa più", "Proteggiamo i lavoratori libanesi" dalla presenza di rifugiati che accettano salari minori da parte di datori di lavoro (libanesi) senza scrupoli. Tutto il mondo è paese. Soprattutto quando, anziché dare una mano, i leader europei tirano un sospiro di sollievo se vedono un altro paese accollarsi la maggior parte dell'onere dell'accoglienza.
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