Sono almeno 39 le vittime di un raid aereo nell'area di Idlib, in Siria. Lo riporta la Bbc online precisando che c'è stato un primo attacco seguito subito dopo da un secondo, dello stesso velivolo, che ha colpito anche i soccorritori intervenuti. Non è ancora chiaro chi sono i responsabili dei raid.
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sabato 31 agosto 2019
La guerra in Siria non è finita - Raid aereo a Idlib, 39 morti, colpiti anche i soccorritori
Ansa
Sono almeno 39 le vittime di un raid aereo nell'area di Idlib, in Siria. Lo riporta la Bbc online precisando che c'è stato un primo attacco seguito subito dopo da un secondo, dello stesso velivolo, che ha colpito anche i soccorritori intervenuti. Non è ancora chiaro chi sono i responsabili dei raid.
Sono almeno 39 le vittime di un raid aereo nell'area di Idlib, in Siria. Lo riporta la Bbc online precisando che c'è stato un primo attacco seguito subito dopo da un secondo, dello stesso velivolo, che ha colpito anche i soccorritori intervenuti. Non è ancora chiaro chi sono i responsabili dei raid.
Rifugiati Rohingya: 61 Ong lanciano un appello sul peggioramento della crisi in Myanmar
Vita
In un appello congiunto, 61 Ong che operano in Bangladesh e in Birmania segnalano che, in caso i Rohingya fossero rimpatriati forzatamente in Myanmar, le loro condizioni non sarebbero sicure. Le Ong chiedono che i rifugiati possano decidere liberamente del loro futuro. Il racconto di Danish Refugee Council (Drc), la più grande organizzazione internazionale non governativa in Danimarca
Cox’s Bazar, Bangladesh, 21 agosto 2019. Circa 1 milione di Rohingya stanno ancora aspettando giustizia e di potere decidere del loro futuro, due anni dopo essere scappati dalle loro case a causa delle atrocità di massa perpetrate in Birmania, e stanno lottando per avere sicurezza e dignità in Bangladesh come rifugiati. In un appello congiunto, 61 Ong a livello locale, nazionale e internazionale, che operano nei due Paesi, hanno chiesto che siano riconosciuti diritti umani per tutti nello Stato Rakhine, in Birmania, e hanno chiesto che i rifugiati Rohingya abbiano un ruolo nel prendere decisioni che riguardano le loro vite, comprese le condizioni per il loro ritorno in Birmania, spiega il Danish Refugee Council.
Le Ong hanno espresso molta preoccupazione per la sicurezza di tutte le famiglie colpite dall’emergenza nello Stato Rakhine, inclusi i Rohingya, dal momento che il conflitto si intensifica e l’intervento umanitario rimane limitato. Hanno insistito che i governi del Bangladesh e della Birmania assicurino che ogni processo di rimpatrio sia sicuro, volontario e dignitoso, dal momento che la notizia di un possibile rimpatrio accelerato di 3.450 rifugiati ha iniziato a circolare questa settimana.
Negli ultimi due anni, le ong hanno aiutato il governo del Bangladesh e le agenzie Onu a fornire un supporto che ha consentito la sopravvivenza delle persone all’interno del più grande campo profughi del mondo. I loro sforzi collettivi hanno permesso di rendere più stabili le condizioni nei campi, e hanno aiutato a impedire epidemie di malattie. Ma i rifugiati hanno bisogno di dignità- non solo di sopravvivenza. Le agenzie hanno chiesto alla comunità internazionale di aumentare i finanziamenti per la risposta umanitaria in Bangladesh e Birmania per migliorare la vita dei rifugiati e delle comunità ospitanti, così come le vite degli rifugiati all’interno del Paese.
«I rifugiati Rohingya in Bangladesh vivono in un ambiente sicuramente non protetto, né sostenibile, ed è fondamentale che vengano consultati in tutte le decisioni che li riguardano- inclusi i rimpatri. E che non ritornino prematuramente a una situazione dove i loro diritti e la loro sicurezza non possano essere garantiti», afferma Mikkel Trolle, direttore regionale delDanish Refugee Council: «Attraverso il nostro lavoro nei campi profughi e nelle comunità ospitanti a Cox’s Bazar, abbiamo riscontrato come gli sforzi congiunti del governo del Bangladesh, delle agenzie Onu e delle Ong abbiano salvato delle vite, ma ora è tempo di assicurare che queste persone vivano una vita dignitosa e che siano autosufficienti. Soluzioni di medio e lungo termine sono necessarie urgentemente per proteggere i rifugiati e le comunità ospitanti. Educazione, skills building e mezzi di sussistenza sono essenziali per qualunque soluzione durevole di successo, incluso il reinserimento».
Alcuni dati:
- In Myanmar circa 128.000 rifugiati Rohingya e altre comunità musulmane sono stati confinati nello Stato Rakhine dal 2012, senza possibilità di tornare a casa
- In Bangladesh i bambini rifugiati hanno bisogno di accedere a servizi educativi più efficaci. Sono più di 25.000 i bambini che non vanno a scuola. Inoltre il 97 per cento degli adolescenti di età tra i 15 e i 18 anni non frequenta nessuna struttura educativa
- In Bangladesh la percentuale di famiglie delle comunità ospitanti che viveva con meno di 60 dollari al mese ha avuto un picco dal 10 al 22 per cento in seguito all’afflusso di migranti nel mese di agosto 2017.
In un appello congiunto, 61 Ong che operano in Bangladesh e in Birmania segnalano che, in caso i Rohingya fossero rimpatriati forzatamente in Myanmar, le loro condizioni non sarebbero sicure. Le Ong chiedono che i rifugiati possano decidere liberamente del loro futuro. Il racconto di Danish Refugee Council (Drc), la più grande organizzazione internazionale non governativa in Danimarca
Le Ong hanno espresso molta preoccupazione per la sicurezza di tutte le famiglie colpite dall’emergenza nello Stato Rakhine, inclusi i Rohingya, dal momento che il conflitto si intensifica e l’intervento umanitario rimane limitato. Hanno insistito che i governi del Bangladesh e della Birmania assicurino che ogni processo di rimpatrio sia sicuro, volontario e dignitoso, dal momento che la notizia di un possibile rimpatrio accelerato di 3.450 rifugiati ha iniziato a circolare questa settimana.
Negli ultimi due anni, le ong hanno aiutato il governo del Bangladesh e le agenzie Onu a fornire un supporto che ha consentito la sopravvivenza delle persone all’interno del più grande campo profughi del mondo. I loro sforzi collettivi hanno permesso di rendere più stabili le condizioni nei campi, e hanno aiutato a impedire epidemie di malattie. Ma i rifugiati hanno bisogno di dignità- non solo di sopravvivenza. Le agenzie hanno chiesto alla comunità internazionale di aumentare i finanziamenti per la risposta umanitaria in Bangladesh e Birmania per migliorare la vita dei rifugiati e delle comunità ospitanti, così come le vite degli rifugiati all’interno del Paese.
«I rifugiati Rohingya in Bangladesh vivono in un ambiente sicuramente non protetto, né sostenibile, ed è fondamentale che vengano consultati in tutte le decisioni che li riguardano- inclusi i rimpatri. E che non ritornino prematuramente a una situazione dove i loro diritti e la loro sicurezza non possano essere garantiti», afferma Mikkel Trolle, direttore regionale delDanish Refugee Council: «Attraverso il nostro lavoro nei campi profughi e nelle comunità ospitanti a Cox’s Bazar, abbiamo riscontrato come gli sforzi congiunti del governo del Bangladesh, delle agenzie Onu e delle Ong abbiano salvato delle vite, ma ora è tempo di assicurare che queste persone vivano una vita dignitosa e che siano autosufficienti. Soluzioni di medio e lungo termine sono necessarie urgentemente per proteggere i rifugiati e le comunità ospitanti. Educazione, skills building e mezzi di sussistenza sono essenziali per qualunque soluzione durevole di successo, incluso il reinserimento».
Alcuni dati:
- In Myanmar circa 128.000 rifugiati Rohingya e altre comunità musulmane sono stati confinati nello Stato Rakhine dal 2012, senza possibilità di tornare a casa
- In Bangladesh i bambini rifugiati hanno bisogno di accedere a servizi educativi più efficaci. Sono più di 25.000 i bambini che non vanno a scuola. Inoltre il 97 per cento degli adolescenti di età tra i 15 e i 18 anni non frequenta nessuna struttura educativa
- In Bangladesh la percentuale di famiglie delle comunità ospitanti che viveva con meno di 60 dollari al mese ha avuto un picco dal 10 al 22 per cento in seguito all’afflusso di migranti nel mese di agosto 2017.
India - Le violenze ignorate nel Kasmir - Diffusi soprusi verso in musulmani e tremila in carcere
Corriere della Sera
Le testimonianze raccolte dalla Bbc nei villaggi musulmani. La replica: azioni preventive. Tremila in carcere. "Hanno picchiato ogni parte del mio corpo. Ci hanno preso a calci, ci hanno picchiato con dei cavi. Poi ci hanno colpito sulla parte posteriore delle gambe. Quando siamo svenuti ci hanno dato scosse elettriche per farci rinvenire.
Le testimonianze raccolte dalla Bbc nei villaggi musulmani. La replica: azioni preventive. Tremila in carcere. "Hanno picchiato ogni parte del mio corpo. Ci hanno preso a calci, ci hanno picchiato con dei cavi. Poi ci hanno colpito sulla parte posteriore delle gambe. Quando siamo svenuti ci hanno dato scosse elettriche per farci rinvenire.
La regione a maggioranza musulmana contesa tra India e Pakistan |
Se urlavamo ci riempivano la bocca di fango". Una mezza dozzina di villaggi, diversi testimoni: alza il velo sul Kashmir l'inchiesta di Sameer Hashmi, corrispondente della Bbc, che ha documentato i presunti abusi e torture subite dai musulmani per mano dell'esercito indiano. Il giornalista spiega di non aver potuto verificare le dichiarazioni dei testimoni.
Ma come prova pubblica le fotografie di corpi martoriati. Per paura di ritorsioni, le vittime hanno deciso di non denunciare l'accaduto alle autorità. E non hanno voluto rivelare alla Bbc i loro veri nomi. "Ci picchiano come se fossimo animali. Non ci considerano umani", ha riferito un altro testimone ad Hashmi.
Le torture e gli abusi sarebbero avvenute il 6 agosto, dopo che New Delhi ha revocato l'articolo 37 della Costituzione che garantisce l'autonomia della regione contesa con il Pakistan, arrestando 3mila persone, imponendo il coprifuoco e sospendendo comunicazioni telefoniche e internet. E dopo che sono stati inviati altri 4o mila militari in quella che viene giò considerata una delle zone più militarizzate del mondo.
Da parte loro i vertici dell'esercito indiano hanno risposto di "non aver mai maltrattato alcun civile", bollando le accuse come "infondate e non comprovate". L'operazione militare nel Kashmir è stata presentata come "preventiva" e tesa al "mantenimento della legge e dell'ordine" nell'unica regione indiana a maggioranza musulmana. "Nessuna accusa specifica di questa natura ci è mai giunta. Queste accuse sono state alimentate da elementi nemici" ha dichiarato alla Bbc il colonnello Aman Anand, portavoce dell'esercito.
Secondo le testimonianze raccolte dall'emittente britannica, però i militari avrebbero torturato i civili per ottenere informazioni sui nomi di oppositori, di simpatizzanti dei gruppi separatisti e manifestanti da anni in lotta contro il dominio indiano. "Il mondo non può ignorare il Kashmir. Se non agirà per fermare l'assalto dell'India sul Kashmir, due Stati muniti di armi nucleari si avvicineranno a un confronto militare diretto", ha scritto il premier pachistano Imran Khan, in un editoriale pubblicato ieri sul New York Times.
Marta Serafini
Ma come prova pubblica le fotografie di corpi martoriati. Per paura di ritorsioni, le vittime hanno deciso di non denunciare l'accaduto alle autorità. E non hanno voluto rivelare alla Bbc i loro veri nomi. "Ci picchiano come se fossimo animali. Non ci considerano umani", ha riferito un altro testimone ad Hashmi.
Le torture e gli abusi sarebbero avvenute il 6 agosto, dopo che New Delhi ha revocato l'articolo 37 della Costituzione che garantisce l'autonomia della regione contesa con il Pakistan, arrestando 3mila persone, imponendo il coprifuoco e sospendendo comunicazioni telefoniche e internet. E dopo che sono stati inviati altri 4o mila militari in quella che viene giò considerata una delle zone più militarizzate del mondo.
Da parte loro i vertici dell'esercito indiano hanno risposto di "non aver mai maltrattato alcun civile", bollando le accuse come "infondate e non comprovate". L'operazione militare nel Kashmir è stata presentata come "preventiva" e tesa al "mantenimento della legge e dell'ordine" nell'unica regione indiana a maggioranza musulmana. "Nessuna accusa specifica di questa natura ci è mai giunta. Queste accuse sono state alimentate da elementi nemici" ha dichiarato alla Bbc il colonnello Aman Anand, portavoce dell'esercito.
Secondo le testimonianze raccolte dall'emittente britannica, però i militari avrebbero torturato i civili per ottenere informazioni sui nomi di oppositori, di simpatizzanti dei gruppi separatisti e manifestanti da anni in lotta contro il dominio indiano. "Il mondo non può ignorare il Kashmir. Se non agirà per fermare l'assalto dell'India sul Kashmir, due Stati muniti di armi nucleari si avvicineranno a un confronto militare diretto", ha scritto il premier pachistano Imran Khan, in un editoriale pubblicato ieri sul New York Times.
Marta Serafini
Migranti - Mare Jonio - Salvati donne e bambini, nello stillicidio disumano rimangono in 34 a bordo e lanciano l'allarme: "Non abbiamo più acqua"
Globalist
Rimangono a bordo in 34 al limite delle acque territoriali, dal momento che i ministri Salvini, Toninelli e Trenta hanno firmato il divieto di ingresso in Italia.
"Il personale sanitario di bordo della Mare Jonio ha inviato alle autorità competenti una nuova richiesta urgente di entrata in porto della nave, a causa del rischio di emergenza igienico-sanitaria". Lo rende noto Mediterranea Saving Humans. "A creare allarme è la mancanza di acqua destinata a uso igienico e alle altre necessità di bordo, mancanza che si protrae da ormai 40 ore e di cui le autorità sono informate già dalle prime ore di ieri mattina", hanno spiegato.
Sono giunti nel porto di Lampedusa intorno alla mezzanotte i 64 migranti sbarcati dalla mare Jonio dopo il via libera del Viminale. Si tratta di donne, alcune delle quali incinte, bambini con i loro familiari e dei naufraghi più vulnerabili con esigenze sanitarie trasbordati su una motovedetta della capitaneria di porto. I migranti sono stati fatti sbarcare sul molo Favaloro che è zona militare e dove è inibita la presenza a civili e giornalisti.
Rimangono a bordo in 34 al limite delle acque territoriali, dal momento che i ministri Salvini, Toninelli e Trenta hanno firmato il divieto di ingresso in Italia.
Sono giunti nel porto di Lampedusa intorno alla mezzanotte i 64 migranti sbarcati dalla mare Jonio dopo il via libera del Viminale. Si tratta di donne, alcune delle quali incinte, bambini con i loro familiari e dei naufraghi più vulnerabili con esigenze sanitarie trasbordati su una motovedetta della capitaneria di porto. I migranti sono stati fatti sbarcare sul molo Favaloro che è zona militare e dove è inibita la presenza a civili e giornalisti.
venerdì 30 agosto 2019
USA - Mississsipi. 680 "clandestini" arrestati nelle fabbriche. I loro bambini sono restati soli. Gara di solidarietà
Corriere della Sera
Centinaia si offrono di aiutarli. Gli adulti arrestati durante i raid nelle fabbriche. Solidarietà per i piccoli. Parenti, vicini, amici, preti, è una catena di solidarietà che si allunga anche fuori dallo stato quella messa in piedi in Mississippi per aiutare le centinaia di bambini rimasti senza uno o entrambi i genitori dopo il più grande raid della polizia contro immigrati illegali della storia recente degli Stati Uniti.
ra la mattina del 7 agosto quando gli agenti dell'Ice hanno fatto irruzione in sette fabbriche per la lavorazione del pollame arrestando in poche ore oltre 680 persone in due contee a Nord e a Est della capitale Jackson.
Centinaia si offrono di aiutarli. Gli adulti arrestati durante i raid nelle fabbriche. Solidarietà per i piccoli. Parenti, vicini, amici, preti, è una catena di solidarietà che si allunga anche fuori dallo stato quella messa in piedi in Mississippi per aiutare le centinaia di bambini rimasti senza uno o entrambi i genitori dopo il più grande raid della polizia contro immigrati illegali della storia recente degli Stati Uniti.
A Morton, 3.600 anime, oltre il 10% della popolazione è stata incarcerata o licenziata. Manuel Ramirez ha raccontato al sito Slate che quella mattina una sua vicina di casa, mamma single di tre bambini di 12, lo e 5 anni, l'ha chiamato mentre la polizia perquisiva la sua fabbrica: "Manuel, non posso uscire. Ho fede, e ti affido i miei figli".
Da quel giorno Manuel li accudisce con passione, ma oppresso dalla paura che gli agenti arrivino anche da lui, irregolare come tantissimi ispanici in queste zone. Per le strade di questi paesini si vedono suore venute da lontano, maestre che girano con una dozzina di bambini, uno sforzo comune di una intera comunità per attutire lo choc dei ragazzi. Ma tutti hanno paura.
Un papà, è sempre Slate a raccontarlo, ha lasciato il motore acceso nel parcheggio della scuola temendo che andando a prendere il figlio potesse cadere in una trappola. E per i nuclei familiari che hanno perso una o entrambe le entrate le conseguenze economiche saranno pesantissime.
Chi è stato rilasciato - 300 nei giorni successivi ai raid - dovrà affrontare un processo che potrebbe concludersi con l'espulsione, e cosa ne sarà delle case comprate con anni di risparmi e sopra ogni cosa, dei figli nati qui e quindi cittadini americani secondo quello ius soli iscritto nel 14esimo emendamento della Costituzione che Trump definisce "ridicolo" e di cui vorrebbe sbarazzarsi? Intanto funzionari americani sostengono di aver fatto il possibile per rilasciare alcuni dei genitori in modo che i bambini potessero avere a casa almeno la mamma o il papà, ma non tutti i detenuti, spaventati dal loro status di irregolari, potrebbero aver comunicato alle autorità di avere dei bambini. Brian Cox, portavoce dell'Ice, non sembra preoccuparsene più di tanto. "La realtà è che adulti con minori vengono arrestati dalla polizia ogni giorno - ha detto alla Cnn - e ciascun arresto, per definizione, separa una persona dalla famiglia".
Intanto i servizi sociali si pongono il problema di come affrontare i casi più gravi. "È facile per parenti e vicini prendersi cura di questi bambini nel breve termine - ha spiegato Anne Brandon, portavoce del Mississippi Department of Child Protection Services - ma quando l'assenza diventa di mesi, persino anni, a seconda di quello che succede, è molto più difficile: questa per la nostra comunità è una maratona, non uno sprint".
di Marilisa Palumbo
Da quel giorno Manuel li accudisce con passione, ma oppresso dalla paura che gli agenti arrivino anche da lui, irregolare come tantissimi ispanici in queste zone. Per le strade di questi paesini si vedono suore venute da lontano, maestre che girano con una dozzina di bambini, uno sforzo comune di una intera comunità per attutire lo choc dei ragazzi. Ma tutti hanno paura.
Un papà, è sempre Slate a raccontarlo, ha lasciato il motore acceso nel parcheggio della scuola temendo che andando a prendere il figlio potesse cadere in una trappola. E per i nuclei familiari che hanno perso una o entrambe le entrate le conseguenze economiche saranno pesantissime.
Chi è stato rilasciato - 300 nei giorni successivi ai raid - dovrà affrontare un processo che potrebbe concludersi con l'espulsione, e cosa ne sarà delle case comprate con anni di risparmi e sopra ogni cosa, dei figli nati qui e quindi cittadini americani secondo quello ius soli iscritto nel 14esimo emendamento della Costituzione che Trump definisce "ridicolo" e di cui vorrebbe sbarazzarsi? Intanto funzionari americani sostengono di aver fatto il possibile per rilasciare alcuni dei genitori in modo che i bambini potessero avere a casa almeno la mamma o il papà, ma non tutti i detenuti, spaventati dal loro status di irregolari, potrebbero aver comunicato alle autorità di avere dei bambini. Brian Cox, portavoce dell'Ice, non sembra preoccuparsene più di tanto. "La realtà è che adulti con minori vengono arrestati dalla polizia ogni giorno - ha detto alla Cnn - e ciascun arresto, per definizione, separa una persona dalla famiglia".
Intanto i servizi sociali si pongono il problema di come affrontare i casi più gravi. "È facile per parenti e vicini prendersi cura di questi bambini nel breve termine - ha spiegato Anne Brandon, portavoce del Mississippi Department of Child Protection Services - ma quando l'assenza diventa di mesi, persino anni, a seconda di quello che succede, è molto più difficile: questa per la nostra comunità è una maratona, non uno sprint".
di Marilisa Palumbo
Afghanistan, la comunità dei difensori dei diritti umani è sotto attacco
Amnesty International
Amnesty International ha denunciato oggi che la comunità dei difensori dei diritti umani dell’Afghanistan è sotto un crescente attacco da parte delle autorità e dei gruppi armati.
Ogni anno viene superato il numero di vittime civili di quello precedente e il mese di luglio è stato il più violento da oltre due anni a questa parte. In questo contesto, l’azione dei difensori dei diritti umani viene ampiamente ignorata dal governo afgano e dalla comunità internazionale.
Nel suo rapporto “Difensori indifesi: gli attacchi contro la comunità dei diritti umani in Afghanistan“, Amnesty International denuncia che il governo ha ripetutamente mancato di indagare sugli attacchi contro i difensori dei diritti umani, a volte accusandoli addirittura di aver fatto false denunce o suggerendo loro di armarsi per difendersi autonomamente.
“Quello attuale è uno dei periodi più pericolosi per i difensori dei diritti umani in Afghanistan. Non solo operano in un ambiente tra i più estremi ma devono anche fronteggiare minacce da parte sia del governo che dei gruppi armati“, ha dichiarato Omar Waraich, vicedirettore di Amnesty International per l’Asia meridionale.
“La comunità internazionale ha un ruolo importante da giocare. Se da un lato ha sempre riconosciuto il coraggio dei difensori dei diritti umani afgani, dall’altro non ha valorizzato i risultati che hanno raggiunto e non li ha sostenuti concretamente in momenti via via sempre più difficili“, ha commentato Waraich.
Nel suo rapporto, Amnesty International denuncia casi di difensori dei diritti umani minacciati, intimiditi, feriti e uccisi in attacchi su cui le autorità afgane non hanno svolto indagini né avviato procedimenti giudiziari.
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Amnesty International ha denunciato oggi che la comunità dei difensori dei diritti umani dell’Afghanistan è sotto un crescente attacco da parte delle autorità e dei gruppi armati.
Ogni anno viene superato il numero di vittime civili di quello precedente e il mese di luglio è stato il più violento da oltre due anni a questa parte. In questo contesto, l’azione dei difensori dei diritti umani viene ampiamente ignorata dal governo afgano e dalla comunità internazionale.
Nel suo rapporto “Difensori indifesi: gli attacchi contro la comunità dei diritti umani in Afghanistan“, Amnesty International denuncia che il governo ha ripetutamente mancato di indagare sugli attacchi contro i difensori dei diritti umani, a volte accusandoli addirittura di aver fatto false denunce o suggerendo loro di armarsi per difendersi autonomamente.
“Quello attuale è uno dei periodi più pericolosi per i difensori dei diritti umani in Afghanistan. Non solo operano in un ambiente tra i più estremi ma devono anche fronteggiare minacce da parte sia del governo che dei gruppi armati“, ha dichiarato Omar Waraich, vicedirettore di Amnesty International per l’Asia meridionale.
“La comunità internazionale ha un ruolo importante da giocare. Se da un lato ha sempre riconosciuto il coraggio dei difensori dei diritti umani afgani, dall’altro non ha valorizzato i risultati che hanno raggiunto e non li ha sostenuti concretamente in momenti via via sempre più difficili“, ha commentato Waraich.
Nel suo rapporto, Amnesty International denuncia casi di difensori dei diritti umani minacciati, intimiditi, feriti e uccisi in attacchi su cui le autorità afgane non hanno svolto indagini né avviato procedimenti giudiziari.
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Appello al nuovo Governo: che la “svolta” sia soprattutto cambiamento di linguaggio per fermare l’odio
Associazione Carta di Roma
Appello al nuovo governo, per un impegno verso un nuovo linguaggio politico
Appello al nuovo governo, per un impegno verso un nuovo linguaggio politico
Questo è un appello al governo che si sta formando in queste ore. Un appello agli uomini e alle donne della politica che affermano di voler segnare una svolta nella gestione di questo paese.
Noi siamo convinti che la svolta nell’azione politica non può essere separata da una svolta anche del linguaggio istituzionale, soprattutto sul tema delle migrazioni che è tema centrale.
Nell’ultimo anno abbiamo ascoltato e subito una comunicazione istituzionale incattivita e violenta, centrata sulla necessità di incutere paura utilizzando argomenti lontanissimi dalla realtà dei fatti. Abbiamo sentito parlare di invasione di fronte ad un calo di oltre l’80 per cento di arrivi, di aumento dei reati di fronte ai dati del Viminale che danno in calo tutti i reati, di epidemie di malattie terribili che non si sono mai verificate, di crociere di fronte ai disperati viaggi su imbarcazioni di cartone, di pacchia di fronte a persone sopravvissute a fame e guerra che spesso diventano schiave nei campi.
Abbiamo assistito e subito, increduli e frastornati, al ripetersi continuo dell’individuazione di nemici cui addebitare tutte le nostre difficoltà, i nostri problemi cui, in realtà, solo la politica può e deve dare una risposta e trovare una soluzione.
La svolta deve essere anche e soprattutto nel linguaggio perché i cittadini italiani sono quelli che in Europa hanno la percezione più distorta dell’immigrazione.
Questo è un appello alle istituzioni per l’uso di parole adeguate, che siano coerenti con la realtà, che rispondano al concetto elementare di verità dei fatti.
Che i naufraghi si chiamino naufraghi, che i soccorritori si chiamino soccorritori, che la solidarietà si chiami solidarietà, che i razzisti si chiamino razzisti e non facinorosi.
Che non si utilizzi più la parola clandestini per definire chiunque arriva dal mare.
Che l’odio non sia più un messaggio legittimo da diffondere attraverso il linguaggio politico, e, soprattutto, attraverso il linguaggio istituzionale.
Associazione Carta di Roma (Valerio Cataldi, Pietro Suber, Paola Barretta, Piera Francesca Mastantuono, Sabika Shah Povia), A buon diritto, Acli, Amnesty Italia, Amref, Arci, , Asgi, Paolo Borrometi (Presidente Articolo 21), Stefano Corradino (Direttore Articolo 21), Centro Astalli, Cospe, Guido D’Ubaldo (Segretario ODG), Maurizio Di Schino (Segretario UCSI), Vittorio Di Trapani(Segretario Usigrai), Fcei (Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia), Lorenzo Frigerio (Libera Informazione), Giuseppe Giulietti (Presidente FNSI), Raffaele Lorusso (Segretario FNSI), Lunaria, Elisa Marincola (Portavoce Articolo 21), Medici Senza Frontiere Italia, SIMN (Scalabrini International Migration Network), Paola Spadari (Presidente OdG Lazio), UNHCR (Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati), Carlo Verna (Presidente ODG).
Noi siamo convinti che la svolta nell’azione politica non può essere separata da una svolta anche del linguaggio istituzionale, soprattutto sul tema delle migrazioni che è tema centrale.
Nell’ultimo anno abbiamo ascoltato e subito una comunicazione istituzionale incattivita e violenta, centrata sulla necessità di incutere paura utilizzando argomenti lontanissimi dalla realtà dei fatti. Abbiamo sentito parlare di invasione di fronte ad un calo di oltre l’80 per cento di arrivi, di aumento dei reati di fronte ai dati del Viminale che danno in calo tutti i reati, di epidemie di malattie terribili che non si sono mai verificate, di crociere di fronte ai disperati viaggi su imbarcazioni di cartone, di pacchia di fronte a persone sopravvissute a fame e guerra che spesso diventano schiave nei campi.
Abbiamo assistito e subito, increduli e frastornati, al ripetersi continuo dell’individuazione di nemici cui addebitare tutte le nostre difficoltà, i nostri problemi cui, in realtà, solo la politica può e deve dare una risposta e trovare una soluzione.
La svolta deve essere anche e soprattutto nel linguaggio perché i cittadini italiani sono quelli che in Europa hanno la percezione più distorta dell’immigrazione.
Questo è un appello alle istituzioni per l’uso di parole adeguate, che siano coerenti con la realtà, che rispondano al concetto elementare di verità dei fatti.
Che i naufraghi si chiamino naufraghi, che i soccorritori si chiamino soccorritori, che la solidarietà si chiami solidarietà, che i razzisti si chiamino razzisti e non facinorosi.
Che non si utilizzi più la parola clandestini per definire chiunque arriva dal mare.
Che l’odio non sia più un messaggio legittimo da diffondere attraverso il linguaggio politico, e, soprattutto, attraverso il linguaggio istituzionale.
Associazione Carta di Roma (Valerio Cataldi, Pietro Suber, Paola Barretta, Piera Francesca Mastantuono, Sabika Shah Povia), A buon diritto, Acli, Amnesty Italia, Amref, Arci, , Asgi, Paolo Borrometi (Presidente Articolo 21), Stefano Corradino (Direttore Articolo 21), Centro Astalli, Cospe, Guido D’Ubaldo (Segretario ODG), Maurizio Di Schino (Segretario UCSI), Vittorio Di Trapani(Segretario Usigrai), Fcei (Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia), Lorenzo Frigerio (Libera Informazione), Giuseppe Giulietti (Presidente FNSI), Raffaele Lorusso (Segretario FNSI), Lunaria, Elisa Marincola (Portavoce Articolo 21), Medici Senza Frontiere Italia, SIMN (Scalabrini International Migration Network), Paola Spadari (Presidente OdG Lazio), UNHCR (Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati), Carlo Verna (Presidente ODG).
Texas - Pena di morte - APPELLO URGENTE per Billy Crutsinger. L'esecuzione fissata il 4 settembre 2019. FIRMA ONLINE
santegidio.org
Billy Jack Crutsinger |
Billy Jack Crutsinger è stato condannato a morte sedici anni fa per omicidio. Le circostanze del suo arresto non furono a norma di legge, ma Billy rilasciò presto la sua confessione, mostrando una condotta quasi ingenua quando, subito dopo il terribile gesto, rinunciò alla sua difesa.
Billy ha avuto una vita triste e difficile. Nato in una famiglia povera e con molti problemi, fin dall'infanzia è stato accompagnato da molti lutti, fino a rimanere solo dopo la morte dei suoi tre figli.
Secondo il parere di molti Billy ha danni cerebrali forse dovuti all’alcol. Nel decidere la sua condanna a morte si sarebbe dovuto tenere conto dei pareri espressi circa la sua piena capacità mentale, ma non è stato così.
Dal 2011 Billy corrisponde con Ilaria della Comunità di Sant’Egidio e altri amici. Billy attraverso la corrispondenza ha scoperto di non essere solo. Il suo cuore, indurito da una vita difficile e dai molti lutti, non ha trovato certo sollievo nella solitudine della piccola cella del Polunsky Unit. Eppure le lettere, l'amicizia e quelle parole diverse su di sé provenienti da lontano hanno fatto emergere dei lati del suo animo che lui stesso non conosceva. Billy non ha studiato, ma il suo linguaggio semplice sorprende per la profondità di certi suoi pensieri, per la costanza nel ricordare le difficoltà degli altri, per la ricerca di spiritualità. La forza dell’amicizia è penetrata anche nella sua cella.
Ecco alcuni stralci dalle sue lettere:
“Sorrido sempre quando leggo le tue lettere: mi rendono felice e pieno di gioia. Ti ho già detto che ti considero come la figlia che ho perso: sei stata l’angelo che Gesù mi ha mandato. Ti voglio bene.”
“Non ho perso la fede, no davvero: tu e i tuoi amici mi aiutate moltissimo a ricordarmi sempre il Suo amore per me.”
“Colpevoli o no, le persone nella vita a volte fanno scelte brutte: sono stato uno di questi e ho fatto una scelta davvero brutta. Ma sono comunque un uomo e un figlio di Cristo, che non mi castiga per sempre per ciò che ho fatto. Dobbiamo amarci e aiutarci, finché il nostro cuore sarà riempito di amore e gioia da Nostro Signore Gesù.”
“Ora ho cambiato il mio cuore in meglio: è la mia unica opportunità per rivedere i miei figli in cielo. Ho chiesto perdono a Gesù e nel mio cuore sento che mi ha ascoltato.” “Gesù mi sta portando in braccio”.
Lo stato americano del Texas ha in programma l’esecuzione di Billy Jack Crutsinger per il 4 settembre prossimo.
Secondo il parere di molti Billy ha danni cerebrali forse dovuti all’alcol. Nel decidere la sua condanna a morte si sarebbe dovuto tenere conto dei pareri espressi circa la sua piena capacità mentale, ma non è stato così.
Dal 2011 Billy corrisponde con Ilaria della Comunità di Sant’Egidio e altri amici. Billy attraverso la corrispondenza ha scoperto di non essere solo. Il suo cuore, indurito da una vita difficile e dai molti lutti, non ha trovato certo sollievo nella solitudine della piccola cella del Polunsky Unit. Eppure le lettere, l'amicizia e quelle parole diverse su di sé provenienti da lontano hanno fatto emergere dei lati del suo animo che lui stesso non conosceva. Billy non ha studiato, ma il suo linguaggio semplice sorprende per la profondità di certi suoi pensieri, per la costanza nel ricordare le difficoltà degli altri, per la ricerca di spiritualità. La forza dell’amicizia è penetrata anche nella sua cella.
Ecco alcuni stralci dalle sue lettere:
“Sorrido sempre quando leggo le tue lettere: mi rendono felice e pieno di gioia. Ti ho già detto che ti considero come la figlia che ho perso: sei stata l’angelo che Gesù mi ha mandato. Ti voglio bene.”
“Non ho perso la fede, no davvero: tu e i tuoi amici mi aiutate moltissimo a ricordarmi sempre il Suo amore per me.”
“Colpevoli o no, le persone nella vita a volte fanno scelte brutte: sono stato uno di questi e ho fatto una scelta davvero brutta. Ma sono comunque un uomo e un figlio di Cristo, che non mi castiga per sempre per ciò che ho fatto. Dobbiamo amarci e aiutarci, finché il nostro cuore sarà riempito di amore e gioia da Nostro Signore Gesù.”
“Ora ho cambiato il mio cuore in meglio: è la mia unica opportunità per rivedere i miei figli in cielo. Ho chiesto perdono a Gesù e nel mio cuore sento che mi ha ascoltato.” “Gesù mi sta portando in braccio”.
Lo stato americano del Texas ha in programma l’esecuzione di Billy Jack Crutsinger per il 4 settembre prossimo.
giovedì 29 agosto 2019
Migranti. Divieto di approdo dal governo dimissionario al gommone di bambini. Basta!
La Repubblica
L'atto del ministro dell'Interno uscente dopo la richiesta di un porto sicuro da parte della Capitaneria. Stamattina la nave di Mediterranea ha soccorso un'imbarcazione con 98 migranti, tra cui molti minori e donne incinte. "Ma prima sei persone sono annegate". La ong aveva respinto l'invito a rivolgersi alla Libia: "Non è un porto sicuro, c'è la guerra civile".
Divieto di ingresso, transito e sosta nelle acque territoriali per la Mare Jonio, la nave di Mediterranea saving humans che stamattina ha soccorso e preso a bordo circa 100 migranti su un gommone alla deriva.
L'atto del ministro dell'Interno uscente dopo la richiesta di un porto sicuro da parte della Capitaneria. Stamattina la nave di Mediterranea ha soccorso un'imbarcazione con 98 migranti, tra cui molti minori e donne incinte. "Ma prima sei persone sono annegate". La ong aveva respinto l'invito a rivolgersi alla Libia: "Non è un porto sicuro, c'è la guerra civile".
Divieto di ingresso, transito e sosta nelle acque territoriali per la Mare Jonio, la nave di Mediterranea saving humans che stamattina ha soccorso e preso a bordo circa 100 migranti su un gommone alla deriva.
Lo ha firmato il ministro dell'Interno uscente, Matteo Salvini, in una giornata che vede ancora bambini in mezzo al mare, a rischio della loro vita, mentre sono stati bloccati i voli degli aerei delle organizzazioni umanitarie che dall'alto pattugliano in cerca di naufraghi.
La richiesta della Capitaneria
Era stato l'Mrcc di Roma - il centro di coordinamento dei soccorsi italiano - a "interessare le competenti autorità italiane per l'individuazione di un place of safety", il porto sicuro più vicino in cui sbarcare i migranti. La comunicazione, la prima di questo genere, dopo tanti mesi in cui la Capitaneria di porto italiana si era rifiutata di gestire le emergenze della cosiddetta zona Sar libica, è arrivata alla Mare Jonio dopo che i volontari di Mediterranea avevano invocato "un segno di discontinuità" rispetto alle precedenti gestioni. La palla, questo il senso della comunicazione della Capitaneria, è quindi passata nelle mani del ministro dell'Interno uscente Matteo Salvini. Che ha risposto come si poteva attendere.
Il salvataggio
Questa mattina la Mare Jonio, la nave della piattaforma umanitaria italiana Mediterranea, aveva soccorso un gommone in avaria pieno di bambini sotto i dieci anni (molti anche di pochi mesi). "Siete arrivati appena in tempo. Il gommone stava per collassare, la scorsa notte ha cominciato a sgonfiarsi. Un'onda l'ha piegato, e molti di noi sono caduti in acqua. Sei di noi non sapevano nuotare e sono morti", hanno detto i migranti.
Il salvataggio è avvenuto all'alba, a circa 70 miglia a Nord di Misurata. Avvistati sul radar alle prime luci del giorno, i migranti - in tutto erano 98, provenienti da Costa D'avorio, Camerun, Gambia e Nigeria - sono stati trasportati tutti a bordo del rimorchiatore dopo un'operazione durata più di due ore.
"Abbiamo individuato il loro gommone, sovraffollato - informa la ong - alla deriva e con un tubolare già sgonfio con il nostro radar, e per fortuna siamo arrivati in tempo per portare soccorso", che è stato completato alle 8.35 di questa mattina.
Era stato l'Mrcc di Roma - il centro di coordinamento dei soccorsi italiano - a "interessare le competenti autorità italiane per l'individuazione di un place of safety", il porto sicuro più vicino in cui sbarcare i migranti. La comunicazione, la prima di questo genere, dopo tanti mesi in cui la Capitaneria di porto italiana si era rifiutata di gestire le emergenze della cosiddetta zona Sar libica, è arrivata alla Mare Jonio dopo che i volontari di Mediterranea avevano invocato "un segno di discontinuità" rispetto alle precedenti gestioni. La palla, questo il senso della comunicazione della Capitaneria, è quindi passata nelle mani del ministro dell'Interno uscente Matteo Salvini. Che ha risposto come si poteva attendere.
Il salvataggio
Questa mattina la Mare Jonio, la nave della piattaforma umanitaria italiana Mediterranea, aveva soccorso un gommone in avaria pieno di bambini sotto i dieci anni (molti anche di pochi mesi). "Siete arrivati appena in tempo. Il gommone stava per collassare, la scorsa notte ha cominciato a sgonfiarsi. Un'onda l'ha piegato, e molti di noi sono caduti in acqua. Sei di noi non sapevano nuotare e sono morti", hanno detto i migranti.
Il salvataggio è avvenuto all'alba, a circa 70 miglia a Nord di Misurata. Avvistati sul radar alle prime luci del giorno, i migranti - in tutto erano 98, provenienti da Costa D'avorio, Camerun, Gambia e Nigeria - sono stati trasportati tutti a bordo del rimorchiatore dopo un'operazione durata più di due ore.
"Abbiamo individuato il loro gommone, sovraffollato - informa la ong - alla deriva e con un tubolare già sgonfio con il nostro radar, e per fortuna siamo arrivati in tempo per portare soccorso", che è stato completato alle 8.35 di questa mattina.
Eritrea. Almeno 150 cristiani arrestati in due mesi, molti rinchiusi sottoterra
Tempi
Il 18 agosto, il regime ha arrestato 80 cristiani. I 70 fedeli detenuti il 23 giugno sono stati portati in una prigione sotterranea. Cinque preti ortodossi sono stati imprigionati e a sei dipendenti del governo è stato imposto di "rinunciare a Cristo". Non si ferma la nuova ondata di persecuzione contro i cristiani in Eritrea.
Il 18 agosto, il regime ha arrestato 80 cristiani. I 70 fedeli detenuti il 23 giugno sono stati portati in una prigione sotterranea. Cinque preti ortodossi sono stati imprigionati e a sei dipendenti del governo è stato imposto di "rinunciare a Cristo". Non si ferma la nuova ondata di persecuzione contro i cristiani in Eritrea.
Dopo la chiusura di 21 ospedali cattolici, almeno 150 cristiani sono stati arrestati in soli due mesi in diverse città. Ad altri è stato chiesto davanti a un giudice di rinunciare alla fede cristiana. Il 18 agosto, come riportato da World Watch Monitor, 80 cristiani sono stati arrestati a Godayef, un'area vicina all'aeroporto della capitale Asmara. Sono stati portati alla vicina stazione di polizia e da allora sono scomparsi. Il 23 giugno altri 70 cristiani appartenenti alla Faith Mission Church of Christ erano stati arrestati a Keren, la seconda città più grande dell'Eritrea.
Tutti e 70, tra i quali 35 donne e 10 bambini, sono stati trasferiti nella prigione di Ashufera. Questa non è altro che un insieme di tunnel sotterranei, la cui entrata si trova a 30 minuti di distanza a piedi dalla città. Come riportato da una fonte locale a World Watch Monitor, "le condizioni di vita all'interno sono dure. I detenuti sono costretti a scavare nuovi tunnel ogni volta che i funzionari del regime portano dentro nuovi prigionieri". La chiesa della Faith Mission Church of Christ era l'ultima rimasta aperta nella città di Keren. La congregazione, che esiste in Eritrea da 60 anni, aveva chiesto nel 2002 di essere registrata ufficialmente ma non ha mai ricevuto risposta. Dopo l'arresto dei cristiani, anche la scuola gestita dalla comunità è stata chiusa.
Il 16 agosto, sei cristiani dipendenti del governo sono stati arrestati e portati davanti a un tribunale ad Asmara. Qui il giudice ha preteso che gli impiegati rinunciassero alla loro fede, ma questi hanno risposto che "non siamo disposti a negoziare la nostra fede in Gesù". Tutti e sei sono stati rilasciati per il momento in attesa del verdetto. L'8 luglio anche l'ultimo ospedale gestito dalla Chiesa cattolica è stato confiscato dal regime. La chiusura forzata delle strutture, che offrono assistenza gratuita a 170 mila persone all'anno, era cominciata a giugno. La Chiesa ha protestato spiegando che "privarci di queste istituzioni mina la nostra stessa esistenza ed espone i nostri dipendenti, religiosi e laici, alla persecuzione". Lo Stato ha requisito le cliniche alla Chiesa per vendicarsi delle critiche rivolte dai vescovi al governo del dittatore Isaias Afewerki, che continua a rimandare le riforme democratiche promesse, nonostante il conflitto militare con l'Etiopia sia ormai concluso. Il regime vorrebbe essere il solo fornitore di cure mediche, ma la gente preferisce affidarsi alla Chiesa, che ha strutture migliori e professionisti più dedicati.
La persecuzione non riguarda solo cattolici e protestanti: il 13 giugno sono stati arrestati cinque preti ortodossi che risiedevano nell'antico monastero di Debrè Bizen. I religiosi sarebbero colpevoli di aver sostenuto il patriarca della Chiesa ortodossa, Abune Antonios, agli arresti domiciliari dal 2007, da quando cioè si è opposto all'interferenza del regime nella vita della Chiesa ortodossa. La Costituzione eritrea del 1997 garantisce il rispetto di tutti i diritti umani, ma non è mai stata realizzata. Dopo anni di promesse, finalmente nel 2002 lo Stato ha ammesso quattro confessioni religiose: Chiesa ortodossa, Chiesa cattolica, Chiesa evangelica luterana e islam sunnita. I loro fedeli hanno una limitatissima libertà di culto, tutti gli altri neppure quella. Ancora oggi, nelle oltre 300 carceri, ufficiali e non, sparse per il paese languono più di 10 mila prigionieri politici e di coscienza in condizioni spaventose. I cristiani incarcerati per la loro fede sono "migliaia", il dato più credibile si aggira intorno alle tremila unità e si può essere arrestati anche solo per il possesso di una Bibbia.
Tutti e 70, tra i quali 35 donne e 10 bambini, sono stati trasferiti nella prigione di Ashufera. Questa non è altro che un insieme di tunnel sotterranei, la cui entrata si trova a 30 minuti di distanza a piedi dalla città. Come riportato da una fonte locale a World Watch Monitor, "le condizioni di vita all'interno sono dure. I detenuti sono costretti a scavare nuovi tunnel ogni volta che i funzionari del regime portano dentro nuovi prigionieri". La chiesa della Faith Mission Church of Christ era l'ultima rimasta aperta nella città di Keren. La congregazione, che esiste in Eritrea da 60 anni, aveva chiesto nel 2002 di essere registrata ufficialmente ma non ha mai ricevuto risposta. Dopo l'arresto dei cristiani, anche la scuola gestita dalla comunità è stata chiusa.
Il 16 agosto, sei cristiani dipendenti del governo sono stati arrestati e portati davanti a un tribunale ad Asmara. Qui il giudice ha preteso che gli impiegati rinunciassero alla loro fede, ma questi hanno risposto che "non siamo disposti a negoziare la nostra fede in Gesù". Tutti e sei sono stati rilasciati per il momento in attesa del verdetto. L'8 luglio anche l'ultimo ospedale gestito dalla Chiesa cattolica è stato confiscato dal regime. La chiusura forzata delle strutture, che offrono assistenza gratuita a 170 mila persone all'anno, era cominciata a giugno. La Chiesa ha protestato spiegando che "privarci di queste istituzioni mina la nostra stessa esistenza ed espone i nostri dipendenti, religiosi e laici, alla persecuzione". Lo Stato ha requisito le cliniche alla Chiesa per vendicarsi delle critiche rivolte dai vescovi al governo del dittatore Isaias Afewerki, che continua a rimandare le riforme democratiche promesse, nonostante il conflitto militare con l'Etiopia sia ormai concluso. Il regime vorrebbe essere il solo fornitore di cure mediche, ma la gente preferisce affidarsi alla Chiesa, che ha strutture migliori e professionisti più dedicati.
La persecuzione non riguarda solo cattolici e protestanti: il 13 giugno sono stati arrestati cinque preti ortodossi che risiedevano nell'antico monastero di Debrè Bizen. I religiosi sarebbero colpevoli di aver sostenuto il patriarca della Chiesa ortodossa, Abune Antonios, agli arresti domiciliari dal 2007, da quando cioè si è opposto all'interferenza del regime nella vita della Chiesa ortodossa. La Costituzione eritrea del 1997 garantisce il rispetto di tutti i diritti umani, ma non è mai stata realizzata. Dopo anni di promesse, finalmente nel 2002 lo Stato ha ammesso quattro confessioni religiose: Chiesa ortodossa, Chiesa cattolica, Chiesa evangelica luterana e islam sunnita. I loro fedeli hanno una limitatissima libertà di culto, tutti gli altri neppure quella. Ancora oggi, nelle oltre 300 carceri, ufficiali e non, sparse per il paese languono più di 10 mila prigionieri politici e di coscienza in condizioni spaventose. I cristiani incarcerati per la loro fede sono "migliaia", il dato più credibile si aggira intorno alle tremila unità e si può essere arrestati anche solo per il possesso di una Bibbia.
Leone Grotti
Migranti in fuga dalla Libia, il medico che cerca ricostruire le mani distrutte dalle torture: "Abbiamo una 'Auschwitz' a 120 miglia dalle coste italiane"
Rai News 24
Scappano dagli orrori dei lager libici con addosso i segni delle torture. A Monza c'è un chirurgo che li cura: si chiama Massimo Del Bene e all'ospedale "San Gerardo" ricostruisce le mani dei migranti menomati nelle carceri libiche. Elisabetta Santon l'ha intervistato, ascoltate che cosa ci ha raccontato...
Scappano dagli orrori dei lager libici con addosso i segni delle torture. A Monza c'è un chirurgo che li cura: si chiama Massimo Del Bene e all'ospedale "San Gerardo" ricostruisce le mani dei migranti menomati nelle carceri libiche. Elisabetta Santon l'ha intervistato, ascoltate che cosa ci ha raccontato...
Lesbo e Samos ad un passo dalla Turchia, migliaia di profughi bloccati in condizioni difficili. L'Europa ignora. La solidarietà di Sant'Egidio
Blog Diritti Umani - Human Rights
Globalist
«Noi di Sant’Egidio a Lesbo e Samos per i profughi: restano incastrati qui»
Riprende oggi la pubblicazione di post sul "Blog Diritti Umani - Human Rights".
Con #santegidiosummer ho trascorso il mese di agosto nel campo profughi nell'isola greca di Samos. Piccola isola distante solo 1,2 Km dalle coste turche dove arrivano centinaia di profughi ogni settimana. Un luogo dove ci sono più di 4000 profughi e dove più di 3000 non trovando una sistemazione nell'hot-post e per avere un riparo hanno creato, intorno alla struttura circondata dal filo spinato, una "tendopoli" improvvisata con tende fatte di pezzi di teloni e bastoni, senza servizi igienici, senza acqua, dove, famiglie afghane con tanti bambini, africani che fuggono da situazioni di violenza e guerra e altri rifugiati sono costretti a vivere anche 2 anni in queste in condizioni di estrema difficoltà in attesa del permesso di andare ad Atene.
Nell'articolo di Globalist un'intervista che racconta alcuni tratti del lavoro che abbiamo svolto in questa estate di solidarietà ...
Ezio Savasta
Samos: tendopoli informale intorno all'hot-post |
«Noi di Sant’Egidio a Lesbo e Samos per i profughi: restano incastrati qui»
La ricercatrice Monica Attias: nelle isole greche la Comunità ha organizzato vacanze solidali. La chiusura di progetti Ue impedisce ai profughi (in aumento) di andare altrove
Samos: profughi appena arrivati in attesa di una sistemazione, anche per giorni, sui cartoni all'ingresso dell'hot-post. |
Nelle isole greche di Lesbo e di Samos, nell’Egeo orientale a due passi dalle coste turche, si riversano rifugiati e profughi in fuga da guerre e fame. Mentre buona parte dell’Europa finge di non sapere e non guarda, quei profughi sono costretti a stazionare fino a più anni nei centri di raccolta, in un nulla senza via d’uscita alienante, prima di ottenere una risposta alle loro domande d’asilo politico. C’è invece chi agisce. Nelle due isole la Comunità di Sant’Egidio, con un gruppo di mediatori culturali, ha organizzato dal 20 luglio scorso fino al 31 agosto corsi di inglese e laboratori di animazione e altre attività tenuti da 150 volontari i quali passano così le loro vacanze.
Per la Comunità parla, da Lesbo, Monica Attias, ricercatrice in relazioni e cooperazione internazionale presso l’Istituto nazionale di statistica – Istat, autrice tra l’altro del libro Racconti di pace in Oceania (Urbaniana University Press).
Come è nata la vostra iniziativa?
Alla fine del marzo scorso il fondatore di Sant’Egidio Andrea Riccardi è andato con una delegazione della Comunità a vedere cosa succedeva a Lesbo perché, con la chiusura del progetto di relocation dell’Unione Europea, i numeri dei profughi cominciavano ad aumentare. Le persone restano incastrate nelle isole e non possono proseguire nel viaggio, solo una piccola parte riesce ad andare ad Atene.
Sono vacanze solidali? E dove?
Per adesso sono vacanze che speriamo di rendere più strutturate. A Samos siamo presenti nell'hot-spot di Vathi, la città principale, e a Lesbo siamo attivi nei campi di Moria e di Kara Tepe.
Quanti sono a oggi i rifugiati?
Circa novemila a Lesbo e 4250 a Samos. In campi concepiti per numeri di gran lunga inferiori. Chi arriva oggi a Samos non trova nemmeno una tenda. I campi si estendono oltre le mura dell'hot-spot stesso. Soprattutto a Samos c’è una parte informale chiamata la “giungla” dove si improvvisano rifugi con teli, coperte, senza servizi igienici, senza acqua: chi è nella “giungla” deve arrampicarsi su una collina per trovare un tubo dell’acqua. Sia per bere che per lavarsi. Viene distribuito un litro mezzo al giorno a persona. È una delle emergenze maggiori. Chi è arrivato nell’ultima settimana non ha trovato nemmeno le coperte e molti si sono accampati al bordo della strada sui cartoni.
Per la Comunità parla, da Lesbo, Monica Attias, ricercatrice in relazioni e cooperazione internazionale presso l’Istituto nazionale di statistica – Istat, autrice tra l’altro del libro Racconti di pace in Oceania (Urbaniana University Press).
Come è nata la vostra iniziativa?
Alla fine del marzo scorso il fondatore di Sant’Egidio Andrea Riccardi è andato con una delegazione della Comunità a vedere cosa succedeva a Lesbo perché, con la chiusura del progetto di relocation dell’Unione Europea, i numeri dei profughi cominciavano ad aumentare. Le persone restano incastrate nelle isole e non possono proseguire nel viaggio, solo una piccola parte riesce ad andare ad Atene.
Samos: L'interno della tendopoli ... |
Perché?
Sia perché i centri di accoglienza della Grecia continentale sono piuttosto saturi e non ci sono abbastanza posti, sia perché l’iter che permette di lasciare le isole è difficile: non tutti riescono a ottenere la “carta blu” che consente di lasciare l’isola. Siamo partiti dal constatare una situazione esplosiva e ci siamo chiesti come essere presenti in questo luogo di dolore.Sono vacanze solidali? E dove?
Per adesso sono vacanze che speriamo di rendere più strutturate. A Samos siamo presenti nell'hot-spot di Vathi, la città principale, e a Lesbo siamo attivi nei campi di Moria e di Kara Tepe.
Quanti sono a oggi i rifugiati?
Circa novemila a Lesbo e 4250 a Samos. In campi concepiti per numeri di gran lunga inferiori. Chi arriva oggi a Samos non trova nemmeno una tenda. I campi si estendono oltre le mura dell'hot-spot stesso. Soprattutto a Samos c’è una parte informale chiamata la “giungla” dove si improvvisano rifugi con teli, coperte, senza servizi igienici, senza acqua: chi è nella “giungla” deve arrampicarsi su una collina per trovare un tubo dell’acqua. Sia per bere che per lavarsi. Viene distribuito un litro mezzo al giorno a persona. È una delle emergenze maggiori. Chi è arrivato nell’ultima settimana non ha trovato nemmeno le coperte e molti si sono accampati al bordo della strada sui cartoni.
Samos: La vita quotidiana: si cucina con dei fornelli fatti con il fango |
La vostra risposta qual è?
La nostra risposta è essere presenti qui con volontari dall’Italia e da altri paesi europei: rispondere ai bisogni materiali, i primi sono il cibo, l’acqua, le tende ma soprattutto aiutare a non perdere la speranza: per accedere ai servizi del campo i profughi devono fare file di quattro cinque-ore e sono persone vulnerabili, provate dal viaggio e dalla violenza.
Agite in accordo con le autorità greche?
Sì, abbiamo stabilito un rapporto con il Ministero dell’Immigrazione; dopo le elezioni il Reception and identification service è stato assorbito dal Ministero per la Protezione dei cittadini.
Cosa insegnate?
Abbiamo visto che un bisogno emergente è la comunicazione per cui facciamo corsi di inglese, che è una lingua veicolare. Altre organizzazioni insegnano il greco ma l’inglese è per tutti, inoltre qualcuno desidera andare in altri paesi. Nella prima visita abbiamo trovato in una tenda ragazzi appena maggiorenni che dopo un viaggio terribile studiavano da soli l’inglese con le torce tascabili: da lì ci è venuto il desiderio di sostenere il loro impegno. È anche un discorso di dignità: in condizioni terribili non si rinuncia a studiare.
La nostra risposta è essere presenti qui con volontari dall’Italia e da altri paesi europei: rispondere ai bisogni materiali, i primi sono il cibo, l’acqua, le tende ma soprattutto aiutare a non perdere la speranza: per accedere ai servizi del campo i profughi devono fare file di quattro cinque-ore e sono persone vulnerabili, provate dal viaggio e dalla violenza.
Agite in accordo con le autorità greche?
Sì, abbiamo stabilito un rapporto con il Ministero dell’Immigrazione; dopo le elezioni il Reception and identification service è stato assorbito dal Ministero per la Protezione dei cittadini.
Cosa insegnate?
Abbiamo visto che un bisogno emergente è la comunicazione per cui facciamo corsi di inglese, che è una lingua veicolare. Altre organizzazioni insegnano il greco ma l’inglese è per tutti, inoltre qualcuno desidera andare in altri paesi. Nella prima visita abbiamo trovato in una tenda ragazzi appena maggiorenni che dopo un viaggio terribile studiavano da soli l’inglese con le torce tascabili: da lì ci è venuto il desiderio di sostenere il loro impegno. È anche un discorso di dignità: in condizioni terribili non si rinuncia a studiare.
Samos: in ogni tenda tanti bambini |
Oltre all’inglese cosa insegnate?
L'educazione alla pace con i bambini, l'arte nelle visite ai musei, la cucina alla maniera italiana e allo stesso tempo impariamo a cucinare piatti afgani, siriani. Non distribuiamo solo cibo ma facciamo un “Ristorante dell’amicizia” : solo a Lesbo tutte le sere prepariamo 600-700 pasti; come in un ristorante non si fa la fila ma si viene serviti e si mangia tutti insieme. I profughi stessi si sono offerti come volontari, alcuni fin dal primo giorno: ci aiutano tutti i pomeriggi a preparare il cibo, ad accogliere le persone e nella festa... perché si finisce sempre con musiche e balli dei vari paesi. È l’eredità che lasciamo loro: la speranza di non venire schiacciati dalla propria condizione ma aiutare se stessi e gli altri.
Il 31 agosto l’esperienza finisce. Dopo?
Non li lasceremo soli. Abbiamo migliaia di persone da aiutare con i documenti e il sogno si possa riaprire la relocation verso paesi dell’Europa per decongestionare i campi. Ci vuole più solidarietà da parte dell'Europa.
Avrete trovato molte situazioni difficili.
Tantissime persone sono vulnerabili. C’è un ragazzo iracheno con la sclerosi multipla in carrozzina in una tenda, c’è una famiglia afghana di etnia hazara con tre figli malati che siamo riusciti a far trasferire ad Atene. Centinaia sono i minori non accompagnati.
L'educazione alla pace con i bambini, l'arte nelle visite ai musei, la cucina alla maniera italiana e allo stesso tempo impariamo a cucinare piatti afgani, siriani. Non distribuiamo solo cibo ma facciamo un “Ristorante dell’amicizia” : solo a Lesbo tutte le sere prepariamo 600-700 pasti; come in un ristorante non si fa la fila ma si viene serviti e si mangia tutti insieme. I profughi stessi si sono offerti come volontari, alcuni fin dal primo giorno: ci aiutano tutti i pomeriggi a preparare il cibo, ad accogliere le persone e nella festa... perché si finisce sempre con musiche e balli dei vari paesi. È l’eredità che lasciamo loro: la speranza di non venire schiacciati dalla propria condizione ma aiutare se stessi e gli altri.
Il 31 agosto l’esperienza finisce. Dopo?
Non li lasceremo soli. Abbiamo migliaia di persone da aiutare con i documenti e il sogno si possa riaprire la relocation verso paesi dell’Europa per decongestionare i campi. Ci vuole più solidarietà da parte dell'Europa.
Avrete trovato molte situazioni difficili.
Tantissime persone sono vulnerabili. C’è un ragazzo iracheno con la sclerosi multipla in carrozzina in una tenda, c’è una famiglia afghana di etnia hazara con tre figli malati che siamo riusciti a far trasferire ad Atene. Centinaia sono i minori non accompagnati.
Samos: #santegdiosummer la festa con con i bambini nel campo informale |
Da dove vengono i profughi di Lesbo e Samos?
Un 60% dall’Afghanistan. Molti sono siriani ma meno che in passato: per loro il riconoscimento della protezione internazionale è più veloce e forse rimangono meno a lungo di altri. Quelli che rimangono di più sono gli africani: camerunesi, congolesi, in continuo aumento. Chi arriva oggi farà l'intervista per la protezione internazionale nel 2021.
Inevitabile chiederle come valuta la politica dei respingimenti e dei porti chiusi dell’ex ministro dell’Interno Salvini.
Come Comunità di Sant'Egidio siamo chiaramente in favore dei salvataggi in mare e per il diritto a migrare: bisogna creare vie legali e sicure non solo per i rifugiati ma anche per i migranti. Il segretario generale delle Nazioni unite António Guterres ha parlato della migrazione come un fenomeno positivo.
Tornando alla Grecia, va però detta anche un’ultima cosa, importante.
Dica.
Il rapporto con i greci. Abbiamo fatto iniziative pubbliche a Samos e Lesbo per ricordare chi è morto in mare e hanno partecipato anche molti turisti e molti greci. I greci hanno vissuto una grande stagione di solidarietà che non va dimenticata, anche se col tempo diventata con il tempo più difficile da sostenere perché l’emergenza si è protratta per anni. Ma la solidarietà è contagiosa. L’altro giorno siamo andati con dei minori non accompagnati al mare. Vedendo questi ragazzi, in costume come tutti gli altri, che si divertivano in modo giocoso i presenti sono rimasti toccati e il proprietario è venuto da noi per offrire una serata speciale per loro nel suo stabilimento.
Un 60% dall’Afghanistan. Molti sono siriani ma meno che in passato: per loro il riconoscimento della protezione internazionale è più veloce e forse rimangono meno a lungo di altri. Quelli che rimangono di più sono gli africani: camerunesi, congolesi, in continuo aumento. Chi arriva oggi farà l'intervista per la protezione internazionale nel 2021.
Inevitabile chiederle come valuta la politica dei respingimenti e dei porti chiusi dell’ex ministro dell’Interno Salvini.
Come Comunità di Sant'Egidio siamo chiaramente in favore dei salvataggi in mare e per il diritto a migrare: bisogna creare vie legali e sicure non solo per i rifugiati ma anche per i migranti. Il segretario generale delle Nazioni unite António Guterres ha parlato della migrazione come un fenomeno positivo.
Tornando alla Grecia, va però detta anche un’ultima cosa, importante.
Dica.
Il rapporto con i greci. Abbiamo fatto iniziative pubbliche a Samos e Lesbo per ricordare chi è morto in mare e hanno partecipato anche molti turisti e molti greci. I greci hanno vissuto una grande stagione di solidarietà che non va dimenticata, anche se col tempo diventata con il tempo più difficile da sostenere perché l’emergenza si è protratta per anni. Ma la solidarietà è contagiosa. L’altro giorno siamo andati con dei minori non accompagnati al mare. Vedendo questi ragazzi, in costume come tutti gli altri, che si divertivano in modo giocoso i presenti sono rimasti toccati e il proprietario è venuto da noi per offrire una serata speciale per loro nel suo stabilimento.
di Stefano Miliani
Foto: Ezio Savasta
sabato 24 agosto 2019
A Lesbo e Samos #santegidiosummer, cronaca di un'estate straordinaria vissuta insieme ai profughi
Blog Diritti Umani - Human Rights
Sono a Samos da alcuni giorni, ho partecipato con tanti altri volontari a #santegidiosummer. Qui la situazione dei campi profughi è veramente difficile per tante famiglie afghane con numerosi bambini, siriani, iracheni, e africani che fuggono da situazioni di violenza e guerra. Stare qui, è conoscere da vicino una realtà che l'Europa vuole ignorare, e iniziare a dare aiuti concreti e offrire occasioni di serenità negli incontri festosi che abbiamo realizzato con loro.
Ezio Savasta.
___________
www.santegidio.org
A Lesbos e Samos si lavora insieme, profughi e volontari, per migliorare la vita di tutti. #santegidiosummer continua...
Cronaca di un'estate straordinaria, oltre le differenze di lingua e di religione
Hanno indossato anche loro le pettorine blu con la colomba e l'arcobaleno di Sant'Egidio, e si sono messi - gratuitamente - a servire gli altri: sono i profughi delle isole greche di Lesbos e Samos. Si, perchè il bene è contagioso, non c'è che dire. E la vita vuota, angosciata di chi è fuggito dal proprio paese e attende mesi di sapere il proprio destino, riprende forza quando si possono usare le proprie energie per gli altri, a riprova che chi fugge in cerca di futuro non vuole essere un peso, ma è una risorsa.
martedì 6 agosto 2019
Iran. Il medico detenuto Djalali trasferito in una località sconosciuta
La Stampa
È stato trasferito in una località sconosciuta Ahmadreza Djalali, il medico detenuto in Iran da oltre tre anni e condannato a morte per spionaggio: lo ha raccontato lui stesso in una telefonata, l'unica che gli è concessa.
È stato trasferito in una località sconosciuta Ahmadreza Djalali, il medico detenuto in Iran da oltre tre anni e condannato a morte per spionaggio: lo ha raccontato lui stesso in una telefonata, l'unica che gli è concessa.
Il ricercatore del Centro sulla medicina dei disastri dell'Università del Piemonte Orientale a Novara ha detto di non sapere dove si trovasse e di aver avuto la possibilità di chiamare qualcuno solo all'interno del Paese.
La moglie Vida, che vive a Stoccolma con i figli, è molto in ansia: "È stato trasferito soltanto lui e non gli è stato detto il perché". La condanna a morte pronunciata a carico di Djalali non è mai stata revocata nonostante la mobilitazione del mondo accademico internazionale e nonostante diversi ricorsi del suo avvocato davanti ai vari gradi del Tribunale della Rivoluzione.
La moglie Vida, che vive a Stoccolma con i figli, è molto in ansia: "È stato trasferito soltanto lui e non gli è stato detto il perché". La condanna a morte pronunciata a carico di Djalali non è mai stata revocata nonostante la mobilitazione del mondo accademico internazionale e nonostante diversi ricorsi del suo avvocato davanti ai vari gradi del Tribunale della Rivoluzione.
"Non abbiamo altre informazioni purtroppo - commenta l'amico e collega Luca Ragazzoni - e questo ci preoccupa molto". La Federazione italiana diritti umani ha chiesto all'Unione europea un intervento urgente a favore del medico.
Barbara Cottavoz
Presentazione del libro "Liberi dentro" a Civitavecchia, città che vuol farsi carico della realtà dei due carceri presenti. La solidarietà di Sant'Egidio e il sostegno delle istituzioni.
Il Messaggero
Affollata presentazione, l’altra sera alla Mondadori, di “Liberi dentro”, libro di Ezio Savasta, seduto di fronte ad una platea interessata. Racconti emozionanti, i suoi, di un volontario della Comunità di Sant’Egidio che dal 1992 visita ed aiuta detenuti dei penitenziari romani, instaurando con loro rapporti di autentica amicizia.
«Il sentirsi importanti per qualcuno, per uno di noi volontari, spesso allontana da gesti inconsulti detenuti soli, lontani da casa o privi di famiglia. – ha sottolineato Savasta – La speranza è che in queste pagine la distanza e la separazione tra il mondo degli uomini liberi e quello della detenzione si possa accorciare e che, dopo averlo letto, passando vicino alle mura di un carcere, che a Civitavecchia sono nella città, si abbia la consapevolezza di quanta umanità e sofferenza ci siano dietro quelle sbarre».
Una sofferenza forte, dura, come traspare anche dalle sincere parole del giudice onorario del Foro locale, Anna Puliafito, ospite della presentazione. Ma la città quanto sa di tutto ciò? Il libro di Savasta è servito a fare un po' di luce sulla complessa macchina di attività quotidiane nei due penitenziari di Via Tarquinia e via Aurelia Nord, alimentate da una serie di realtà (la Asl è tra queste).
Attività che sarebbe impraticabile senza la volontà della direzione della Casa Circondariale e della Casa di reclusione, e senza la collaborazione del personale tutto della Polizia penitenziaria con gli educatori.
«Tra i primi nel Lazio ad entrare nelle carceri con il dipartimento di salute mentale, che abbiamo riorganizzato - ha raccontato il commissario straordinario Asl Rmf 4, Giuseppe Quintavalle – grazie al protocollo d’intesa con la direttrice Bravetti ora abbiamo le linee guida sulla prevenzione dei suicidi. Con la musicoterapia abbiamo avviato una progettualità di riabilitazione per pazienti con disturbi psichici che, subito visitati appena arrivano e sottoposti a test da parte del nostro personale, se valutati "a rischio" sono destinatari del corso di formazione per “Peer supporter” (arrivato alla quarta edizione). Che significa? Su base volontaria un detenuto diventa “coach”, quindi confidente ed amico del detenuto in difficoltà, per alleviare gli effetti dell’esecuzione della pena».
«La direzione ha consentito alla Asl di svolgere al meglio il suo lavoro all’interno delle carceri per mezzo di attività per detenuti con problemi psichici (attraverso l’azione congiunta di Sert e Csm), per offrire un servizio completo al territorio – ha spiegato la direttrice, Patrizia Bravetti - Era il 2009 quando autorizzai la campagna della Comunità di Sant’Egidio “Liberate i prigionieri in Africa” con la raccolta di 1 euro per liberare altri detenuti nel mondo. Nell’ottica di vicinanza agli ultimi, poi, i pranzi di Natale sono diventati fondamentali, con il risultato, grazie a Massimo Magnano e ai suoi collaboratori, di ben tre fatti quest’anno: uno al femminile e due per gli uomini.
Ciò affianca innumerevoli altri progetti che come amministrazione penitenziaria portiamo avanti da tempo con il territorio per migliorare la vita del detenuto (Scuole, Associazione teatrale 'Blue in the face', Università, tenimento agricolo, etc.) - ha concluso - frutto dell’enorme lavoro di collaborazione svolto dal personale della Polizia penitenziaria in una ricca interazione tra carcere e territorio».
Stefania Mangia
Approvato il Decreto Sicurezza bis - Il fulcro per la sicurezza del paese è colpire le ONG che salvano naufraghi
Corriere della Sera
- Il ministro dell’Interno, per motivi di sicurezza potrà limitare o vietare l’ingresso, il transito o la sosta di navi, salvo quelle militari o governative.
- Per le imbarcazioni delle ong che violeranno lo stop supermulte fino a un milione di euro.
- Risorse per operazioni sotto copertura, effettuate da operatori di Stati esteri, per il contrasto dell’immigrazione clandestina.
- Per le imbarcazioni delle ong che violeranno lo stop supermulte fino a un milione di euro.
- Possibile anche il sequestro e la distruzione della nave.
- Per il capitano che, come Carola Rackete, forzerà il blocco, scatterà l’arresto in flagranza.
- Risorse per operazioni sotto copertura, effettuate da operatori di Stati esteri, per il contrasto dell’immigrazione clandestina.
lunedì 5 agosto 2019
Usa. Stragi con 29 morti tra El Paso e Dayton. Miscela di propaganda di odio e facile accesso alle armi. Attenta Italia!
Notizie Geopolitiche
Il primo caso è avvenuto ieri verso le 11,00 (ol) a El Paso, in Texas, dove un 21enne è entrato in un supermercato Walmart sparando all’impazzata ed uccidendo 20 persone e ferendone 26. L’aggressore, circondato in pochi minuti dagli agenti di polizia, si è consegnato ed è stato arrestato. si chiama Patrick Cruisis, autore già due anni fa di un manifesto suprematista bianco.
Il secondo fatto di sangue è avvenuto a Dayton, in Ohio, dove all’una di notte (ol) il 24enne Connors Betts ha sparato in un locale notturno uccidendo 9 persone e ferendone 26 prima di venire a sua volta ucciso dagli agenti di polizia. Il sindaco della città, Nan Whaley, ha spiegato in conferenza stampa che l’aggressore indossava un giubbotto anti-proiettile e aveva un fucile calibro 223 ed era attrezzato con dei caricatori ad alta capacità.
Gli Usa continuano a pagare cara la libertà di detenere con facilità armi, comprese quelle da guerra. E così in 16 ore si sono consumate altre due stragi, la 249ma e la 250ma dall’inizio dell’anno, conteggio che tiene il sito Gun Violence Archive, il quale riferisce anche che sono 8.574 i morti e 17.013 i feriti da arma da fuoco nello stesso periodo.
Poco prima della strage commessa con un kalasnikov, sul web erano apparsi messaggi come “Risposta all’invasione ispanica del Texas”, “Questo attacco è una risposta all’invasione ispanica del Texas”. Gli inquirenti stanno ora indagando che vi sono dei collegamenti con l’autore della strage.
Il secondo fatto di sangue è avvenuto a Dayton, in Ohio, dove all’una di notte (ol) il 24enne Connors Betts ha sparato in un locale notturno uccidendo 9 persone e ferendone 26 prima di venire a sua volta ucciso dagli agenti di polizia. Il sindaco della città, Nan Whaley, ha spiegato in conferenza stampa che l’aggressore indossava un giubbotto anti-proiettile e aveva un fucile calibro 223 ed era attrezzato con dei caricatori ad alta capacità.
Fonte: Notizie Geopolitche
domenica 4 agosto 2019
Libia - Al-Sarraj vuole chiudere tutti i centri detenzione per migranti ed espellerli. Quale sarà la sorte di 5000 persone, 3800 a rischio vita?
Il Dubbio
Dopo l'intervento dell'Onu chiuse le strutture di Misurata, al Khoms e Tajoura. Gli stranieri saranno espulsi e rinviati nei loro paesi di origine. In Libia in governo di Tripoli guidato da Fayez al- Sarraj ha preso una decisione che potrebbe avere ripercussioni non solo nello scacchiere africano ma anche sull'Europa.
Secondo il sito web Al Ahrar, che ha raccolto fonti del ministero dell'Interno, le autorità hanno disposto la chiusura immediata di tre centri di detenzione per migranti. Si tratta delle strutture di Tajoura, Misurata e Al Khoms. L'ordine di smobilitazione è stato dato direttamente dal ministro Fathi Bashagha, i migranti rinchiusi nei centri, sempre secondo quanto riportano i media libici, saranno espulsi e riportati nei loro paesi d'origine.
In questa maniera si darebbe seguito ad un annuncio fatto il 2 luglio scorso quando proprio il centro di Tajoura fu bombardato dalle forze del generale Kalifa Haftar. Fu una strage, almeno 60 morti e 130 feriti anche se si pensa che le vittime potrebbero essere molte di più. In quel frangente era stato proprio Bashagha a rendere nota l'impossibilità di garantire la sicurezza dei migranti "reclusi". Inoltre lo stesso Sarraj aveva annunciato che era in animo di liberare tutti coloro che si trovavano nei centri, si è parlato di migliaia di persone che si sarebbero riversate ad attraversare il mediterraneo.
La mossa libica è stata vista come il tentativo di Tripoli di ottenere finanziamenti e armi, in cambio del ruolo di carcerieri dei migranti, da parte dell'Europa. Solo un giorno dopo la strage il ministro dell'Interno si era affrettato a dichiarare: "il governo è tenuto a proteggere tutti i civili, ma il fatto che vengano presi di mira i centri di accoglienza da aerei F16 e la mancanza di una protezione aerea per i migranti clandestini nei centri stessi, sono tutte cose al di fuori della capacità del governo".
In realtà le bande criminali di trafficanti che controllano il "business dei barconi", vedono nella gestione dei centri di detenzione il nuovo grande affare, perdere la "materia prima" potrebbe costituire un colpo all'economia (molte volte illegale) lucrosa messa in piedi da quando i paesi Ue hanno cominciato a restringere le maglie delle frontiere esterne. Sulla decisione del governo tripolino di chiudere i tre centri ha sicuramente avuto un peso l'intervento dell'inviato speciale per la Libia, Ghassan Salamè. Lunedì scorso ha riferito di fronte al Consiglio di sicurezza dell'Onu sollecitando proprio la fine di queste vere e proprie prigioni per migranti.
Secondo le stime, nelle strutture ufficiali, sono detenute, in condizioni per lo più spaventose, almeno 5000 persone, di queste 3800 sono a rischio della vita perché esposte ai combattimenti. Si tratta di capire ora cosa succederà, se si procederà allo smantellamento di tutti i luoghi di detenzione. Chi penserà al rimpatrio dei migranti in maniera sicura? Chi garantisce che quelli che saranno liberati non andranno ad ingrossare le fila dei combattenti della guerra civile libica? Quale sarà la sorte dei minori giunti in Libia senza famiglia?
di Alessandro Fioroni
Dopo l'intervento dell'Onu chiuse le strutture di Misurata, al Khoms e Tajoura. Gli stranieri saranno espulsi e rinviati nei loro paesi di origine. In Libia in governo di Tripoli guidato da Fayez al- Sarraj ha preso una decisione che potrebbe avere ripercussioni non solo nello scacchiere africano ma anche sull'Europa.
In questa maniera si darebbe seguito ad un annuncio fatto il 2 luglio scorso quando proprio il centro di Tajoura fu bombardato dalle forze del generale Kalifa Haftar. Fu una strage, almeno 60 morti e 130 feriti anche se si pensa che le vittime potrebbero essere molte di più. In quel frangente era stato proprio Bashagha a rendere nota l'impossibilità di garantire la sicurezza dei migranti "reclusi". Inoltre lo stesso Sarraj aveva annunciato che era in animo di liberare tutti coloro che si trovavano nei centri, si è parlato di migliaia di persone che si sarebbero riversate ad attraversare il mediterraneo.
La mossa libica è stata vista come il tentativo di Tripoli di ottenere finanziamenti e armi, in cambio del ruolo di carcerieri dei migranti, da parte dell'Europa. Solo un giorno dopo la strage il ministro dell'Interno si era affrettato a dichiarare: "il governo è tenuto a proteggere tutti i civili, ma il fatto che vengano presi di mira i centri di accoglienza da aerei F16 e la mancanza di una protezione aerea per i migranti clandestini nei centri stessi, sono tutte cose al di fuori della capacità del governo".
In realtà le bande criminali di trafficanti che controllano il "business dei barconi", vedono nella gestione dei centri di detenzione il nuovo grande affare, perdere la "materia prima" potrebbe costituire un colpo all'economia (molte volte illegale) lucrosa messa in piedi da quando i paesi Ue hanno cominciato a restringere le maglie delle frontiere esterne. Sulla decisione del governo tripolino di chiudere i tre centri ha sicuramente avuto un peso l'intervento dell'inviato speciale per la Libia, Ghassan Salamè. Lunedì scorso ha riferito di fronte al Consiglio di sicurezza dell'Onu sollecitando proprio la fine di queste vere e proprie prigioni per migranti.
Secondo le stime, nelle strutture ufficiali, sono detenute, in condizioni per lo più spaventose, almeno 5000 persone, di queste 3800 sono a rischio della vita perché esposte ai combattimenti. Si tratta di capire ora cosa succederà, se si procederà allo smantellamento di tutti i luoghi di detenzione. Chi penserà al rimpatrio dei migranti in maniera sicura? Chi garantisce che quelli che saranno liberati non andranno ad ingrossare le fila dei combattenti della guerra civile libica? Quale sarà la sorte dei minori giunti in Libia senza famiglia?
di Alessandro Fioroni
Catania - È nato John Egidio il piccolo salvato dal mare dalla nave "Gregoretti". La famiglia è ospite della Comunità di Sant'Egidio
La Repubblica
Lo hanno chiamato John Egidio, è nato qualche minuto dopo le nove, pesa tre chili e novecento grammi e assieme alla sua mamma sta bene. E’ il bimbo nato dalla mamma incinta sbarcata sette giorni fa dal pattugliatore “Gregoretti” dopo una lunga odissea prima nei deserti africani e poi nel mare della Libia.
Per Aisafu Saha, la donna nigeriana ventottenne in stato di gravidanza avanzato era stato deciso lo sbarco assieme al marito Gasaeni Saka, meccanico di 35 anni e ai suoi due figli Rafia di 10 anni e Alidi di 5.
Accudita dai medici dell’ospedale San Marco di Catania dopo sette giorni il parto. Per il papà e i due bimbi invece un alloggio presso la comunità di Sant’Egidio di via castello Ursino nel centro storico della città. In grande segno di riconoscimento per l’accoglienza e la solidarietà la famiglia nigeriana Saka ha deciso di dare il nome al piccolo venuto al mondo stamattina di John e Egidio, due nomi cristiano malgrado loro fossero musulmani.
Nelle prossime settimane è stato deciso da parte della prefettura di Catania il trasferimento in provincia di ragusa presso una nuova struttura.
“E’ stato un bel segno di accoglienza” ha commentato Emiliano Abramo, presidente della comunità catanese di Sant’Egidio. La storia dei Saka è quella delle tantissime famiglie in fuga per una vita migliore dalla Nigeria colpita da una carestia senza precedenti. Mamma incinta di tre mesi, papà meccanico, e i due figli sono partititi il 10 gennaio dalla loro città Yoruba nella regione del Lagos in Nigeria e dopo avere attraversato il deserto del Niger, l’Algeria e infine la Libia a Zawari, porto dal quale sono partiti a bordo di un gommone. Dopo due giorni di navigazione è finita la benzina e il barcone è stato salvato dal pattugliatore della Marina Militare “Gregoretti”.
Natale Bruno
sabato 3 agosto 2019
Migranti ... ci rubano il lavoro? Ma in Veneto non si trovano braccianti e i prodotti agricoli non raccolti marciscono
Corriere del Veneto
Zero disponibilità
Perché ci sia bisogno di chiamare i lavoratori stranieri per andare a raccogliere dai campi le eccellenze agroalimentari o passare il guado della stagione estiva è presto detto: «Ci sono decine di migliaia di residenti nelle liste di collocamento ma hanno scarsa disponibilità ad effettuare lavoro di manodopera nei nostri campi» spiega Luigi Bassani, direttore di Confagricoltura.
Zero disponibilità
Perché ci sia bisogno di chiamare i lavoratori stranieri per andare a raccogliere dai campi le eccellenze agroalimentari o passare il guado della stagione estiva è presto detto: «Ci sono decine di migliaia di residenti nelle liste di collocamento ma hanno scarsa disponibilità ad effettuare lavoro di manodopera nei nostri campi» spiega Luigi Bassani, direttore di Confagricoltura.
La paga oscilla dai 6 ai 7 euro l’ora, nella raccolta il cartellino lo timbra la necessità di non far marcire sugli alberi o in terra i prodotti e quindi si lavora pure dieci ore di fila perché la maturazione non aspetta. E chi fa la campagna di raccolta delle ciliegie non la tira per le lunghe perché poi c’è un ingaggio per le carote novelle, un altro per le pesche, le zucchine, le melanzane ad agosto, a settembre l’uva e i fichi.
Su 500 nominativi, sono rimasti in 15
«Non escludo ci siano persone che sfruttano il lavoro: vanno perseguite – scandisce Bassani. Ma sta di fatto che all’ultima selezione, su 500 persone scelte al Collocamento, alla fine della formazione ce ne sono rimaste 15. Perché molti lavoretti in nero competono le nostre paghe. Se la frutta e la verdura la vogliamo pagare sempre meno, non c’è margine per i lavoratori e gli imprenditori. Bastano 15 centesimi in più al chilo nel prezzo finale a garantire il prodotto locale». Nel turismo la quota stranieri non è un problema da quando sono cittadini europei i lavoratori croati, rumeni e ungheresi che hanno sempre dato una mano al sistema di accoglienza veneto, spiega il presidente di Federalberghi Marco Michielli. La paga è di 1.500 euro al mese e il concorrente adesso è l’Europa perché, eliminata la disoccupazione stagionale in Italia, «i nostri ragazzi scelgono di andarsene a lavorare per meno soldi ma per 12 mesi su 12 in Inghilterra, Francia e Germania: urge un’armonizzazione della legislazione europea».
La tassa
Nel turismo, la tassa di soggiorno è la carta di briscola delle entrate dei Comuni. Secondo la Fondazione Think Tank Nord Est, quest’anno in Veneto i Comuni incasseranno 78 milioni 668 mila euro (più 11% rispetto al 2018: 7,8 milioni). La sola provincia di Venezia arriverà a 50,7 milioni (+8,6% rispetto al 2018) e il capoluogo incasserà 34 milioni. Il litorale ne stima una ventina, più della provincia di Verona che farà incassi per 15,4 milioni; Padova è la terza con 6,3 milioni di euro (quasi metà dei quali fatti da Abano); in coda le province di Belluno (2,8 milioni). Treviso (1,6 milioni), Vicenza (1,2) e Rovigo (530 mila euro, più 14% rispetto allo scorso anno).
Su 500 nominativi, sono rimasti in 15
«Non escludo ci siano persone che sfruttano il lavoro: vanno perseguite – scandisce Bassani. Ma sta di fatto che all’ultima selezione, su 500 persone scelte al Collocamento, alla fine della formazione ce ne sono rimaste 15. Perché molti lavoretti in nero competono le nostre paghe. Se la frutta e la verdura la vogliamo pagare sempre meno, non c’è margine per i lavoratori e gli imprenditori. Bastano 15 centesimi in più al chilo nel prezzo finale a garantire il prodotto locale». Nel turismo la quota stranieri non è un problema da quando sono cittadini europei i lavoratori croati, rumeni e ungheresi che hanno sempre dato una mano al sistema di accoglienza veneto, spiega il presidente di Federalberghi Marco Michielli. La paga è di 1.500 euro al mese e il concorrente adesso è l’Europa perché, eliminata la disoccupazione stagionale in Italia, «i nostri ragazzi scelgono di andarsene a lavorare per meno soldi ma per 12 mesi su 12 in Inghilterra, Francia e Germania: urge un’armonizzazione della legislazione europea».
La tassa
Nel turismo, la tassa di soggiorno è la carta di briscola delle entrate dei Comuni. Secondo la Fondazione Think Tank Nord Est, quest’anno in Veneto i Comuni incasseranno 78 milioni 668 mila euro (più 11% rispetto al 2018: 7,8 milioni). La sola provincia di Venezia arriverà a 50,7 milioni (+8,6% rispetto al 2018) e il capoluogo incasserà 34 milioni. Il litorale ne stima una ventina, più della provincia di Verona che farà incassi per 15,4 milioni; Padova è la terza con 6,3 milioni di euro (quasi metà dei quali fatti da Abano); in coda le province di Belluno (2,8 milioni). Treviso (1,6 milioni), Vicenza (1,2) e Rovigo (530 mila euro, più 14% rispetto allo scorso anno).
venerdì 2 agosto 2019
Migranti: Open Arms e Alan Kurdi con 163 naufraghi in attesta di un porto. Dissequestro della Mare Jonio. Sconfitta la linea dura del governo
GR Sicilia
Il governo nazionale vieta a Open Arms e Alan Kurdi l'ingresso nelle acque territoriali di Lampedusa.
Mentre a Roma, la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen apre all'ipotesi di nuovo patto interno all'Unione sul tema immigrazione, nelle acque del Mediterraneo ci sono due navi che aspettano l'indicazione di un porto sicuro - la Open Arms e la Alan Kurdi.
Una giornata che era cominciata con i tre sbarchi autonomi a Lampedusa e Siculiana, per un totale di circa 60 migranti, andata avanti con il dissequestro della mare Jonio, l'imbarcazione della ong italiana Mediterranea, che si trova nel porto di Licata dal 13 maggio, sotto sequestro dopo un soccorso , lo sbarco a Lampedusa e l'inchiesta per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina. La ong fa sapere di voler tornare in mare al più presto possibile.
Resta la linea dura del governo sulle due navi che aspettano l'indicazione di un porto sicuro: la Open Arms che, dopo due salvataggi a largo delle coste libiche, trasporta 123 migranti. "Sulle nostre teste una multa di 50.000 euro se entriamo in acque italiane - scrive su twitter la ong - cifra che si somma a quella minacciata dalla Spagna."
E poi c'è la Alan Kurdi che nel pomeriggio lancia un appello attraverso la capo missione Barbara Held, ribadendo che il porto più vicino e sicuro sarebbe Lampedusa. Il no dell'Italia ha però spinto l'equipaggio a dirigersi verso Malta. "In LIbia ha subito una ferita di arma da fuoco, dovremmo riportalo lì?" denuncia il portavoce della Ong mostrando la foto di uno dei bambini a bordo.
Intanto, tra agrigentino e ragusano, guardia di finanza e polizia hanno arrestato 6 presunti scafisti. Da ognuna delle persone trasportate sui gommoni avrebbero intascato 1.300 euro.
Resta la linea dura del governo sulle due navi che aspettano l'indicazione di un porto sicuro: la Open Arms che, dopo due salvataggi a largo delle coste libiche, trasporta 123 migranti. "Sulle nostre teste una multa di 50.000 euro se entriamo in acque italiane - scrive su twitter la ong - cifra che si somma a quella minacciata dalla Spagna."
E poi c'è la Alan Kurdi che nel pomeriggio lancia un appello attraverso la capo missione Barbara Held, ribadendo che il porto più vicino e sicuro sarebbe Lampedusa. Il no dell'Italia ha però spinto l'equipaggio a dirigersi verso Malta. "In LIbia ha subito una ferita di arma da fuoco, dovremmo riportalo lì?" denuncia il portavoce della Ong mostrando la foto di uno dei bambini a bordo.
Intanto, tra agrigentino e ragusano, guardia di finanza e polizia hanno arrestato 6 presunti scafisti. Da ognuna delle persone trasportate sui gommoni avrebbero intascato 1.300 euro.
Agnese Licata
Fonte: TGR Sicilia
giovedì 1 agosto 2019
Vacanze solidali dei volontari di Sant'Egidio a Lesbo e Samos con i rifugiati. “Esiste un’Italia diversa da quella che respinge”
TPI
Sono 150 i volontari che stanno trascorrendo, a turno, la loro vacanza insieme ai profughi di Lesbo e Samo. A TPI Daniela racconta la sua esperienza
“Una donna sudanese ha dipinto un occhio con delle lacrime. Dentro la pupilla c’era un bambino con una cartella che andava via. Anche io sono madre, ho compreso il dramma di una donna che non può garantire un futuro ai propri figli”.
Foto: www.santegidio.org |
Daniela Moretti è una delle volontarie e dei volontari della Comunità di Sant’Egidio che hanno deciso di trascorrere delle vacanze solidali a Lesbo e Samo, in Grecia, dove svolgono attività con rifugiati e richiedenti asilo.
Complessivamente sono 150 i volontari, giovani e adulti, della Comunità di Sant’Egidio, che insieme a un gruppo di mediatori culturali, stanno trascorrendo, a turno, la loro vacanza insieme ai profughi di Lesbo e Samo.
“In questo momento a Lesbo ci sono alcune famiglie con figli, persone singole e amici con cui condividiamo da anni l’esperienza della Comunità di Sant’Egidio”, racconta Daniela, che lavora per una compagnia telefonica e fa la volontaria presso la Scuola di lingua e cultura italiana a Roma.
“Abbiamo deciso di passare qui le nostre ferie perché riteniamo sia giusto rappresentare l’Europa in modo solidale”, spiega Daniela, che è alla prima esperienza di vacanza solidale a Lesbo. “Non vogliamo che il nostro paese sia considerato soltanto come l’Italia che respinge, pensiamo che i gesti di solidarietà non siano solo necessari, ma anche utili”.
I volontari sono arrivati nelle due isole greche il 20 luglio e rimarranno, avvicendandosi in vari gruppi, fino al 31 agosto.
L’iniziativa, nata dopo la visita di una delegazione di Sant’Egidio con il fondatore Andrea Riccardi a Lesbo, rientra in un più ampio programma di estate all’insegna della solidarietà (indicato con l’hashtag #santegidiosummer).
Ogni giorno i volontari organizzano diverse attività con i bambini, corsi d’inglese, feste, cene all’italiana, visite al museo e momenti di condivisione e scambio culturale.
Finora sono entrati in contatto con 1.500 profughi a Lesbo e 600 a Samo.
“Ci sono rifugiati che vengono dall’Afghanistan, dal Congo, dall’Angola, ma anche siriani, iracheni”, racconta Daniela. “Ieri abbiamo svolto attività con 200 bambini che vengono dal campo di Moria, dove vivono migliaia di famiglie in condizione di estrema precarietà”.
“Li abbiamo accolti in uno spazio dove hanno potuto giocare, cantare, disegnare, hanno mangiato e si sono potuti lavare le mani, che non è un’attività affatto banale quando l’acqua è poca”, prosegue Daniela. “Gli abbiamo fatto trascorrere delle ore come bambini ‘normali’, perché chiaramente la vita nel campo non è una cosa normale. Non si può stare 24 ore in una tenda di 2 metri quadrati”.
Nel campo di Moria vivono attualmente oltre 5mila persone, ma la capienza è quasi la metà.
“Abbiamo trovato persone molto affabili, nonostante la situazione difficile”, racconta Daniela. “Ci raccontano del loro viaggio, dei loro sogni, di vite spezzate. Magari hanno dei familiari in altri paesi d’Europa e rimangono bloccati qui in un gioco dell’oca assurdo e inutile. Spesso hanno bisogno di essere ascoltati”.
Secondo i dati della Comunità di Sant’Egidio, a Lesbo ci sono circa 8mila rifugiati: 6500 vivono a Moria, 1.300 nei campi satelliti, di cui il maggiore è Kara Tepe, e oltre 200 in appartamenti.
La scelta di queste destinazioni nasce dalla situazione che si è venuta a creare nelle due isole, dove i migranti devono attendere tempi molto lunghi prima di avere una risposta alla domanda di asilo politico.
“Abbiamo incontrato persone che sono qui da 9 mesi, un anno”, dice Daniela. “Spesso è gente molto giovane, che non vuole e non deve essere considerata un problema, ma una risorsa. È gente che aspetta delle buone notizie per la propria vita, noi proviamo a trascorrere con loro momenti di tranquillità”.
Sull’esperienza delle vacanze solidali con la Comunità di Sant’Egidio Daniela dice: “La consiglierei a tutti, a chi ha già fatto esperienze di volontariato ma anche a chi vuole conoscere questa realtà con i propri occhi. Tanti parlano dei migranti ma pochi li incontrano. Come dice Papa Francesco i migranti non sono numeri, ma persone. Quando ti trovi davanti una persona, vedi che non è più un problema sociale, riesci a vedere i problemi di quella persona”.
Anna Ditta
Complessivamente sono 150 i volontari, giovani e adulti, della Comunità di Sant’Egidio, che insieme a un gruppo di mediatori culturali, stanno trascorrendo, a turno, la loro vacanza insieme ai profughi di Lesbo e Samo.
“In questo momento a Lesbo ci sono alcune famiglie con figli, persone singole e amici con cui condividiamo da anni l’esperienza della Comunità di Sant’Egidio”, racconta Daniela, che lavora per una compagnia telefonica e fa la volontaria presso la Scuola di lingua e cultura italiana a Roma.
“Abbiamo deciso di passare qui le nostre ferie perché riteniamo sia giusto rappresentare l’Europa in modo solidale”, spiega Daniela, che è alla prima esperienza di vacanza solidale a Lesbo. “Non vogliamo che il nostro paese sia considerato soltanto come l’Italia che respinge, pensiamo che i gesti di solidarietà non siano solo necessari, ma anche utili”.
I volontari sono arrivati nelle due isole greche il 20 luglio e rimarranno, avvicendandosi in vari gruppi, fino al 31 agosto.
L’iniziativa, nata dopo la visita di una delegazione di Sant’Egidio con il fondatore Andrea Riccardi a Lesbo, rientra in un più ampio programma di estate all’insegna della solidarietà (indicato con l’hashtag #santegidiosummer).
Ogni giorno i volontari organizzano diverse attività con i bambini, corsi d’inglese, feste, cene all’italiana, visite al museo e momenti di condivisione e scambio culturale.
Finora sono entrati in contatto con 1.500 profughi a Lesbo e 600 a Samo.
“Ci sono rifugiati che vengono dall’Afghanistan, dal Congo, dall’Angola, ma anche siriani, iracheni”, racconta Daniela. “Ieri abbiamo svolto attività con 200 bambini che vengono dal campo di Moria, dove vivono migliaia di famiglie in condizione di estrema precarietà”.
“Li abbiamo accolti in uno spazio dove hanno potuto giocare, cantare, disegnare, hanno mangiato e si sono potuti lavare le mani, che non è un’attività affatto banale quando l’acqua è poca”, prosegue Daniela. “Gli abbiamo fatto trascorrere delle ore come bambini ‘normali’, perché chiaramente la vita nel campo non è una cosa normale. Non si può stare 24 ore in una tenda di 2 metri quadrati”.
Nel campo di Moria vivono attualmente oltre 5mila persone, ma la capienza è quasi la metà.
“Abbiamo trovato persone molto affabili, nonostante la situazione difficile”, racconta Daniela. “Ci raccontano del loro viaggio, dei loro sogni, di vite spezzate. Magari hanno dei familiari in altri paesi d’Europa e rimangono bloccati qui in un gioco dell’oca assurdo e inutile. Spesso hanno bisogno di essere ascoltati”.
Secondo i dati della Comunità di Sant’Egidio, a Lesbo ci sono circa 8mila rifugiati: 6500 vivono a Moria, 1.300 nei campi satelliti, di cui il maggiore è Kara Tepe, e oltre 200 in appartamenti.
La scelta di queste destinazioni nasce dalla situazione che si è venuta a creare nelle due isole, dove i migranti devono attendere tempi molto lunghi prima di avere una risposta alla domanda di asilo politico.
“Abbiamo incontrato persone che sono qui da 9 mesi, un anno”, dice Daniela. “Spesso è gente molto giovane, che non vuole e non deve essere considerata un problema, ma una risorsa. È gente che aspetta delle buone notizie per la propria vita, noi proviamo a trascorrere con loro momenti di tranquillità”.
Sull’esperienza delle vacanze solidali con la Comunità di Sant’Egidio Daniela dice: “La consiglierei a tutti, a chi ha già fatto esperienze di volontariato ma anche a chi vuole conoscere questa realtà con i propri occhi. Tanti parlano dei migranti ma pochi li incontrano. Come dice Papa Francesco i migranti non sono numeri, ma persone. Quando ti trovi davanti una persona, vedi che non è più un problema sociale, riesci a vedere i problemi di quella persona”.
Anna Ditta
Fonte: TPI