L’arcivescovo di Bologna: «La politica pensi a soluzioni. Prete di strada è un’espressione che mi fa ridere. Dove dovrebbe stare un prete, in salotto?»
Roma- «Don Matteo», ripetono tutti, è un «prete di strada». L’espressione lo fa sorridere: «Per forza. Mi dica lei dove altro dovrebbe stare, un prete, in salotto?». Matteo Zuppi, 63 anni, arcivescovo di Bologna, è l’unico italiano tra i tredici nuovi cardinali che riceveranno la porpora nel concistoro convocato da Francesco il 5 ottobre. Quando il Papa lo ha annunciato all’Angelus, domenica, era in pellegrinaggio a Lourdes con i fedeli delle diocesi emiliane. Non se lo immaginava, Francesco non avverte. «All’inizio non mi sono accorto del cellulare che suonava. Poi ho visto le telefonate, i messaggi…».
La prima cosa a cui ha pensato?
«Guardavo le persone di fronte a me. La sofferenza che non si nasconde, la capacità di aiutarsi invece di scappare, una grande immagine della Chiesa come dev’essere, che nella fragilità ama e difende la vita come una madre. Quel giorno era Sant’Egidio. L’ho vissuto come un segno, al di là delle letture da geopolitica interessata, a libro paga oppure cieche, che vogliono creare schieramenti e contrapposizioni nella Chiesa replicando ciò che talvolta vediamo penosamente nella società civile».
C’è la tentazione di applicare alla Chiesa categorie politiche?
«C’è sempre stata e finisce per offenderla e indebolirla. La Chiesa è complicata, è fatta di uomini e ha sempre qualcosa di imprevedibile, lo Spirito. Francesco parla di poliedro: ha tante sfaccettature e questo ci deve far crescere nella comunione. Amare la Chiesa nella sua diversità: dobbiamo impararlo».
Parlava di Sant’Egidio, la sua vocazione è nata nella comunità?
«Sì, al liceo Virgilio di Roma, quand’ero in quinta ginnasio e ho conosciuto Andrea Riccardi. Là ho incontrato un Vangelo vivo e imparato ciò che un cristiano deve fare: voler bene a Dio e al prossimo, e così a se stessi. All’università decisi di diventare sacerdote. Mi laureai a Lettere e Filosofia in storia del cristianesimo, con una tesi sul cardinale Schuster. Padre Turoldo mi aiutò a capirlo. A Milano difese e accolse tanti partigiani e poi, giustamente, si scandalizzò della barbarie di piazzale Loreto, non perché fosse antifascista o fascista ma perché era un padre e un monaco».
Il Papa è in partenza per il Mozambico, 27 anni fa c’era anche lei nella delegazione di Sant’Egidio che mediò tra le fazioni in guerra.
«Ero viceparroco a Trastevere, celebravo nella borgata di Primavalle. La prima volta andammo in Mozambico nell’84. C’erano condizioni di vita incredibili. La siccità, la guerra. E i mercati vuoti, non c’era nulla. È proprio vero che l’attenzione per gli altri ci rende migliori: la necessità di fare qualcosa, di non rassegnarsi alla logica dell’impossibilità».
Francesco denuncia la «terza guerra mondiale a pezzi» e viaggia nelle periferie.
«Il Papa dice che ogni guerra in realtà è una guerra mondiale e quindi riguarda anche noi. Le conseguenze non sono circoscrivibili. E non possiamo tamponare: dobbiamo risolvere».
Lei è il secondo cardinale in famiglia dopo Carlo Confalonieri.
«Era lo zio di mia madre, di Seveso, già segretario di Pio XI. Ricordo il suo rigore ambrosiano, l’idea del servizio alla Chiesa, oneri e non onori. In questo senso era un vero cattolico romano: i cattolici romani obbediscono al Papa e non lo interpretano in modo malevolo per criticarlo».
Eppure le contestazioni a Francesco arrivano in nome della Tradizione.
«La forza della Chiesa è l’unità intorno a colui che presiede nella comunione. La preoccupazione di Francesco è pastorale. “Tradere” significa consegnare. Il problema non è adattare la verità o reinventarla, ma renderla vicina perché il Vangelo arrivi a tanti. Le sottoletture dettate da residui ideologici non lo capiscono. Il Papa ci aiuta a rivivere il Vangelo: la Galilea è periferia, l’uomo mezzo morto per strada è periferia. Lì troviamo il prossimo».
C’è un cristianesimo identitario e sovranista che lo avversa.
«La politica dovrebbe occuparsi di risolvere i problemi anziché condurre una campagna elettorale permanente. Trovi soluzioni, non faccia pagare il conto ai poveracci in mare. Sono passati 30 anni da quando Jerry Masslo, fuggito dall’apartheid, fu ucciso a Villa Literno. Quella manifestazione di odio, pregiudizio, arroganza, sfruttamento e camorra era l’inizio di qualcosa che dovevamo imparare a gestire: come affrontare un problema epocale? Ma siamo ancora in affanno. L’Europa dovrebbe attingere alla sua vera radice: l’umanesimo. La nostra identità vera è la gente che in Calabria si è tuffata in acqua per salvare i naufraghi».
Gian Guido Vecchi
La prima cosa a cui ha pensato?
«Guardavo le persone di fronte a me. La sofferenza che non si nasconde, la capacità di aiutarsi invece di scappare, una grande immagine della Chiesa come dev’essere, che nella fragilità ama e difende la vita come una madre. Quel giorno era Sant’Egidio. L’ho vissuto come un segno, al di là delle letture da geopolitica interessata, a libro paga oppure cieche, che vogliono creare schieramenti e contrapposizioni nella Chiesa replicando ciò che talvolta vediamo penosamente nella società civile».
C’è la tentazione di applicare alla Chiesa categorie politiche?
«C’è sempre stata e finisce per offenderla e indebolirla. La Chiesa è complicata, è fatta di uomini e ha sempre qualcosa di imprevedibile, lo Spirito. Francesco parla di poliedro: ha tante sfaccettature e questo ci deve far crescere nella comunione. Amare la Chiesa nella sua diversità: dobbiamo impararlo».
Parlava di Sant’Egidio, la sua vocazione è nata nella comunità?
«Sì, al liceo Virgilio di Roma, quand’ero in quinta ginnasio e ho conosciuto Andrea Riccardi. Là ho incontrato un Vangelo vivo e imparato ciò che un cristiano deve fare: voler bene a Dio e al prossimo, e così a se stessi. All’università decisi di diventare sacerdote. Mi laureai a Lettere e Filosofia in storia del cristianesimo, con una tesi sul cardinale Schuster. Padre Turoldo mi aiutò a capirlo. A Milano difese e accolse tanti partigiani e poi, giustamente, si scandalizzò della barbarie di piazzale Loreto, non perché fosse antifascista o fascista ma perché era un padre e un monaco».
Il Papa è in partenza per il Mozambico, 27 anni fa c’era anche lei nella delegazione di Sant’Egidio che mediò tra le fazioni in guerra.
«Ero viceparroco a Trastevere, celebravo nella borgata di Primavalle. La prima volta andammo in Mozambico nell’84. C’erano condizioni di vita incredibili. La siccità, la guerra. E i mercati vuoti, non c’era nulla. È proprio vero che l’attenzione per gli altri ci rende migliori: la necessità di fare qualcosa, di non rassegnarsi alla logica dell’impossibilità».
Francesco denuncia la «terza guerra mondiale a pezzi» e viaggia nelle periferie.
«Il Papa dice che ogni guerra in realtà è una guerra mondiale e quindi riguarda anche noi. Le conseguenze non sono circoscrivibili. E non possiamo tamponare: dobbiamo risolvere».
Lei è il secondo cardinale in famiglia dopo Carlo Confalonieri.
«Era lo zio di mia madre, di Seveso, già segretario di Pio XI. Ricordo il suo rigore ambrosiano, l’idea del servizio alla Chiesa, oneri e non onori. In questo senso era un vero cattolico romano: i cattolici romani obbediscono al Papa e non lo interpretano in modo malevolo per criticarlo».
Eppure le contestazioni a Francesco arrivano in nome della Tradizione.
«La forza della Chiesa è l’unità intorno a colui che presiede nella comunione. La preoccupazione di Francesco è pastorale. “Tradere” significa consegnare. Il problema non è adattare la verità o reinventarla, ma renderla vicina perché il Vangelo arrivi a tanti. Le sottoletture dettate da residui ideologici non lo capiscono. Il Papa ci aiuta a rivivere il Vangelo: la Galilea è periferia, l’uomo mezzo morto per strada è periferia. Lì troviamo il prossimo».
C’è un cristianesimo identitario e sovranista che lo avversa.
«La politica dovrebbe occuparsi di risolvere i problemi anziché condurre una campagna elettorale permanente. Trovi soluzioni, non faccia pagare il conto ai poveracci in mare. Sono passati 30 anni da quando Jerry Masslo, fuggito dall’apartheid, fu ucciso a Villa Literno. Quella manifestazione di odio, pregiudizio, arroganza, sfruttamento e camorra era l’inizio di qualcosa che dovevamo imparare a gestire: come affrontare un problema epocale? Ma siamo ancora in affanno. L’Europa dovrebbe attingere alla sua vera radice: l’umanesimo. La nostra identità vera è la gente che in Calabria si è tuffata in acqua per salvare i naufraghi».
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