Il carcere è un luogo che merita grande rispetto — scrive Ezio Savasta nel suo ultimo libro, Liberi dentro (Modena, Infinito Edizioni, 2019, pagine 180, euro 14) — tanti uomini al suo interno soffrono, è uno spazio sacro, prediletto dal Vangelo. Questa consapevolezza richiede di entrarvi con il passo del pellegrino, certo, per incontrare in amicizia chi è detenuto, ma non solo per un intervento di tipo sociale, piuttosto consapevoli di vivere un’esperienza spirituale».
È proprio questa consapevolezza profonda, radicata negli anni, messa alla prova in mille battaglie, fatta di concreto materialismo cristiano, a rendere così interessante il libro di Savasta.
Non una testimonianza di generica filantropia, o di (pur stimabile) generosità umana, troppo umana — che prima o poi presenta il conto del bene fatto, oppure cede sotto il peso del male, si sgretola alla prima contraddizione incontrata lungo la strada — ma la documentazione della forza trasformante di uno sguardo sulla realtà certo dell’amore di Dio.
Uno sguardo che dice, senza bisogno di parole, a chiunque incontra: «Sei di più del tuo male, non coincidi totalmente con quello che hai fatto, ripartire è possibile in ogni momento. E guardare in faccia il tuo male è il primo passo per vincerlo». Per questo la presenza dei volontari in un carcere non è un optional, ma un ingrediente fondamentale della funzione rieducativa della “libertà ristretta”.
È difficile non essere “veri” in carcere. Come in ospedale, dove ruoli, identità, maschere consolidate si dissolvono appena si indossa il pigiama e si diventa l’ospite di un letto in corsia, bisognoso di tutto, come tutti gli altri. Flannery O’Connor (a cui il nostro giornale ha appena dedicato uno speciale) amava ripetere che, a giudicare dalle lettere che riceveva, i carcerati la capivano meglio degli altri, perchè più esperti in materia di conflitti e distruttività. Anche lei, del resto, nella sua vita aveva imparato non poco sulla lotta e sulle zone d’ombra dell’anima umana dietro alle sbarre invisibili della sua malattia.
Silvia Guidi
Uno sguardo che dice, senza bisogno di parole, a chiunque incontra: «Sei di più del tuo male, non coincidi totalmente con quello che hai fatto, ripartire è possibile in ogni momento. E guardare in faccia il tuo male è il primo passo per vincerlo». Per questo la presenza dei volontari in un carcere non è un optional, ma un ingrediente fondamentale della funzione rieducativa della “libertà ristretta”.
«La nostra presenza, ne sono convinto, è un modo per riaccendere la speranza durante i lunghi anni di pena — spiega Savasta, dopo un quarto di secolo di frequentazione di carceri e penitenziari — la fede che tanti trovano o riscoprono durante la loro detenzione dimostra che in ogni uomo c’è un riflesso divino che, anche se costretto tra quattro mura, non si spegne ma può risplendere. Taluni diventano come “monaci involontari” che cioè, più o meno consapevolmente, imparano a guardare in alto e a rivolgersi a Dio. La detenzione costringe all’isolamento ma il soffitto delle celle — lo abbiamo visto tante volte — sembra squarciarsi per irradiare una luce che consola i cuori».Tutto è terribilmente umano, ma anche estremo, in carcere. Come il rumore. Assordante, permanente. Il contrario di quello che chi non è mai entrato in un penitenziario potrebbe immaginare. E nel rumore l’inattività, che spesso non aiuta a riflettere, ma addormenta quello che servirebbe per cambiare. Il valore del lavoro, per i “ristretti”, è inestimabile: ogni carcere dovrebbe permettere e organizzare al meglio esperienze lavorative intramoenia. Non è un’utopia, o il sogno di anime belle lontane dalla realtà. I dati sulla recidiva dei reati parlano chiaro: tra i detenuti che non svolgono programmi di reinserimento sfiora il novanta per cento, mentre tra chi segue questi percorsi scende al dieci per cento.
È difficile non essere “veri” in carcere. Come in ospedale, dove ruoli, identità, maschere consolidate si dissolvono appena si indossa il pigiama e si diventa l’ospite di un letto in corsia, bisognoso di tutto, come tutti gli altri. Flannery O’Connor (a cui il nostro giornale ha appena dedicato uno speciale) amava ripetere che, a giudicare dalle lettere che riceveva, i carcerati la capivano meglio degli altri, perchè più esperti in materia di conflitti e distruttività. Anche lei, del resto, nella sua vita aveva imparato non poco sulla lotta e sulle zone d’ombra dell’anima umana dietro alle sbarre invisibili della sua malattia.
Silvia Guidi
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